Un anno de paura in Francia: Le Pen e la destra si contendono l'Eliseo; una guerra coloniale in territori non più d'oltre mare ma pericolosamente deja vu; simbolicamente, all'Eurochannel è vietato il campo di sans papier; l'ecosistema normanno distrutto dal petrolio che si somma a inondazioni in Provenza; necessità di abbozzare di fronte all'aggressione americana al mondo... La nazione che rappresenta il baluardo culturale più forte alla globalizzazione americana ha avuto un sussulto d'orgoglio, facendo di quell'eccezione culturale un'alternativa agli sceriffi compiaciuti della loro buzzurraggine, pensando di rinverdire un mito altrettanto vecchio della "vecchia Europa" da loro disprezzata proprio in quanto cultura alta e diversa dalla Frontiera costelalta di McDonalds. Poco importa che il soprassalto di ribellione allo strapotere statunitense provenga dagli interessi petroliferi francesi in Iraq; quello che è simbolico è quella percezione che ne abbiamo di una linea del Piave culturale. Ebbene, si tratta di due retoriche che ci hanno stufato. E il cinema come reagisce? In che modo coglie l'occasione per una nuova onda? Qual è l'eccezione cultrale ancora proponibile come tale? Toscan du Plantier, presidente di Unifrance, aveva una sua ricetta, era il simbolo della sovvenzione di certo cinema, che si voleva Usa-free, era anche responsabile di certa - soffocante? - attenzione francese per il cinema d'oltremare (presidente del festival di Marrakesh), un modo di impersonare l'egemonia di quella vecchia europa esecrata dai nazisti al potere in Usa, ma che non è la risposta preferibile, è una risposta improntata comunque allo status quo, a pubblicizzare la stessa politica culturale che ha prodotto finora quel buon cinema medio francese, che soddisfa ma solo in parte, non avendo mai più ripreso quella stagione nouvelle vague che scatenò il putiferio degli anni sessanta, unici in grado di spazzare da entrambe le parti dell'Atlantico quei cow-boy guerrafondai che hanno fatto della stella texana il simbolo di una azienda petrolifera e anche di suppurare la cancrena gollista (solo male minore rispetto alla peggiore deriva di destra che sperimentiamo noi) in Europa.
Analizzare la cinematografia transapina, tra le più attive in Europa insieme alla innovativa onda portoghese, soprattutto ora che sono in uscita i nuovi film di molti degli autori qui presi in esame, può gettare una luce più chiara sulla possibile evoluzione di un cinema francese e, di conseguenza, europeo.
C'è un'opera, Sex is comedy - con la splendida Anne Parillaud a fare da alter ego della regista -, che racchiude alcune delle correnti del cinema transalpino di questi ultimi due anni; da un lato prosegue lo studio dei corpi della poetica della regista e dall'altro li incastra in una struttura gelidamente metalinguistica, che non casualmente si ritrova in Le Pornographe di Bonello, gelido e intellettualistico approccio al cinema, non solo porno, che fa dei corpi un insieme di icone inestricabile: un'orgia cinefila, già solo per la presenza di Leaud e l'ipertrofico citazionismo; opere estreme, che calano definitivamente un pesante sipario su approcci "osceni" al mezzo, introducendo la nuova frontiera dell'incomunicabilità diretta germinazione da Antonioni: l'impossibilità di avere rapporti con altri, rinchiusi in monadi come quella di Vendredi soir di Claire Denis, che non a caso aveva realizzato quell'altro pamphlet di fisicità di Beau Travail.
Apparentemente diverso è il caso di Ioseliani, ormai naturalizzato francese: in realtà la sua renault blu riassume meglio di tutti gli altri film - e a livello degli oggettini puramente francesi che fanno la fortuna di Amelie risulta sicuramente più francese di altri registi indigeni a causa della cultura innanzitutto cinematografica: il postino in bici è uno stereotipo da Hulot in avanti - la quintessenza di un certo orgoglio antico di sentirsi francese, e la sua precisione nel racconto della odierna alienazione da lavoro supera di molto Cantet e il suo approccio per sentito dire sia alla disperazione per le serrate padronali, sia per il rifiuto del lavoro dell'ultima pellicola (L'emploi du temps).
Un'amarezza raccontata di nuovo in un luogo di lavoro ma che giunge a un non-finale capace di ritagliare un vero spazio filmico è quella di Le Fils dei belgi Dardenne, che completano la galleria delle figure di adolescenti, che hanno rappresentato le occasioni di maggior originalità del cinema francofono europeo in questi anni: il docufiction di Nicolas Philibert, dove la quotidianità diventa esemplare momento a cavallo tra epoche diverse in virtù dell'isolamento della comunità raccontata da un lato, e dall'altro i due fratelli di Le Diable, con la loro unione semincestuosa e la fuga dal mondo degli adulti, sono i luoghi in cui maggiormente il cinema francese, mantenendo la sua eccezione culturale, si svecchia proponendo nuovi territori, percorsi da giovani che interpretano l'attualità e i disagi di una società insoddisfatta.
Quei giovani sono anni luce distanti dall'enfant prodige Ozon, sempre privo di nerbo, che si trovi a elaborare un lutto Sotto la sabbia, sia che intrecci 8 canzoni in un musical, sia che addirittura rielabori Fassbinder: in ogni caso coglie un aspetto che potrebe essere quello in grado di informare l'intero film (l'assenza/presenza del marito morto, lo sguardo esterno sull'interno dove si consuma quella claustrofobica attrazione/repulsione che coinvolge tutti), ma poi si sgonfia la costruzione in un finale patinato, fighetto, quasi che volesse seguire le orme di Leconte, che riesce a rovinare una bella atmosfera noir rivelando un segnato Hallyday - stupenda la sua maschera: raccoglie molto cinema francese in ogni ruga e in quella minima mobilità del volto, espressiva in ogni inarcamento più di tutte le inquadrature di Auteuil - a fianco di un perfetto Rochefort per la sua smania di giustapporre un finale laccato, che sposta su un improbabile piano da spot pubblicitario, onirico, ma senza sovversione o perversione alcuna, quello che era un preciso trasfert biunivoco, una trasformazione parziale di due destini opposti e reciprocamente attraenti, due uomini che conoscendosi si svelano prima di tutto a loro stessi avvolti da una ottima atmosfera noir che di nuovo trova legittimazione nel riferimento che il cinema fa a se stesso e alla sua storia. Ma non è sufficiente, come non lo sono il mestiere e la letterarità di cui Chantal Akerman impregna il suo La Captive, un pasticcio che ha per assunto che l'uomo odierno è inadatto alla sessualità e alla sensibilità muliebre. La femminilità si esprimerebbe in rapporti saffici, che hanno basi più letterarie che erotiche, estetizzanti - e estenuanti - inquadrature fisse tra bagni separati da vetri opacizzati e camere da letto separate dall'incomunicabilità contemplativa, dove la regista belga perde la capacità di restituire un mondo femminile credibile, intenta soltanto a descrivere l'impotenza del maschio, che rinchiude nella sua gelosia la bellissima - e sfuggente - compagna: proustianamente inutile più del tempo perduto affidato a un cileno, seppure francesissimo come Ruiz. Intollerabile il finale che fa sparire definitivamente la donna in mare, costretta dal troppo amore, in realtà rinchiusa in una muraglia di autoreferenzialità del testo che la rende pura maniera, persino nella descrizione degli ambienti.
Lo stesso metalinguaggio usato per raccontare una fetta di cinema francese dimenticata, quella dell'occupazione nazista che vide una produzione di pellicole interessanti, seppure al soldo dei tedeschi. Tavernier, anche lui usa il mondo del cinema per parlare d'altro: di coerenza e di collaborazione, di creatività vulcanica e di maquis ponderati, di genio e (s)regolatezza.
E forse per l'effetto di una deriva destrorsa della società c'è nuovamente una sensibilità per scelte "resistenti", perciò al regista ciclista di Laissez-passer, futuro partigiano, in Monsieur Batignole si affianca la favoletta del futuro salvatore di ebrei, ex commerciante collaborazionista: in entrambi i casi il risultato è che la situazione serve a dare un affresco d'epoca, più che a narrare la Storia.
Techine e le colonie. Dove in tralice si coglie la vera motivazione per cui la Francia è l'antagonista dell'imperialismo americano: perché lede i suoi afflati di dominio spesso insistendo sulle medesime zone, in particolare l'egemonia sull'Africa è il campo di scontro che sta coltivando sotto le ceneri dei moltiindipendentismi traditi.
E si torna al tema principe della Breillat: quello erotico, spesso in lei patinato, che rinvia a turbe, mentre in À la folie pas du tout si arriva all'erotomania, prendendo spunto da altri aspetti e in Intimacy Chereau addirittura s'inventava un modo diverso di riprendere corpi, di dosare le luci sulle carni, di vivere la sessualità in modo teatrale, eppure così tangibile e pervasivo da evidenziare la componente più concretamente realistica di quell'alloggio improbabile, appendice del palcoscenico calcato dalla protagonista.
Impresa che riuscì a Jacques Audiard con Sur Mes Lèvres, dove la fisicità si manifesta privilegiando gli aspetti visivi: non è un caso che Carla la sorda (o si dirà ipoascoltante?) protagonista sopperisca all'handycap con l'unico senso che abbiamo realmente a disposizione noi, nonostante i giochi del regista ci facciano parzialmente assaporare il silenzio in cui si può immergere lei spegnendo l'apparecchio; questo evidenzia solo la nostra scarsa autonomia di scelta: lei può decidere del suo corpo, se vuole o meno aprire al mondo i suoi canali, noi siamo vincolati a quello che il regista e lei stessa decidono di farci sentire, ma non si tratta di un trattato metalinguistico, quanto piuttosto uno sviluppo originale della tradizione noir francese - di cui è tipico il piano messo in atto dalla ragazza per appropriarsi dei soldi e levarsi d'impiccio -, quella che scambia sensazioni oltre Atlantico, arricchendo le esperienze americane e facendosi colmare di intuizioni e atmosfere (il responsabile della libertà vigilata di Paul sembra uscito dalla autobiografia di Edward Bunker). Le macro riprese sulle labbra sono contemporaneamente luogo di seduzione per antonomasia, mezzo di scherno macho utile per documentare l'atrocità dell'ufficio, sono strumento della rivalsa di Carla, che ne ha fatto il campo della sua abilità: sono l'espressione fisica della parola, libri aperti fatti di carne per chi le sa leggere. Tutto questo è espresso in pochi tagli di inquadrature azzeccatissime, che ci abituano a una progressiva sottrazione del sonoro a vantaggio dell'acuita sensibilità ai rumori visti per questo ricordati.
Un'impresa che invece non riesce a Rivette (Va savoir?)che rimane intrappolato dalla sua stessa tela, anche sessuale - mai erotica - in cui il suo personaggio più intellettuale è preso nella sequenza finale di un film che si dipana sul filo del metalinguaggio, della esposizione della sua struttura e del gioco pirandelliano sui personaggi. Mentre invece al giovane Fitoussi, complice e allievo dei grandi Straub e Huillet, umiliati dalla nuova gestione fascista di Arte, riesce perfettamente di inglobare in una storia avvincente un intero sistema filosofico; e forse è proprio questa l'aspetto del cinema d'oltralpe che gli dà chance in più per trovare la via per produrre il cinema europeo affrancato dal modello americano.
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