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Ętre et Avoir
Anno: 2002
Regista: Nicolas Philibert;
Autore Recensione: paola tarino
Provenienza: Francia;
Data inserimento nel database: 11-12-2002


Philibert: Etre et Avoir

Mani sporche o mani pulite? Si chiede Jojo

Ętre et avoir (Essere e avere)

Francia, 2002, 35mm, 104 min, col.

Regia, sceneggiatura, montaggio: Nicolas Philibert

Fotografia: Laurent Didier, Katell Djian, Hugues Gemignani, Nicolas Philibert

Musica: Philippe Hersant - Suono: Julien Cloquet

Con: il maestro Georges Lopez, i suoi tredici alunni: Alizè, Axel, Guillaume, Jessie, Johan (Jojo), Johann, Jonathan, Julien, Laura, Lètitia, Marie-Elisabeth, Nathalie, Olivier , le loro famiglie

Produzione: Gilles Sandoz, Serge Lalou per Centre National de Documentation Pedagogique/Le Studio Canal Plus/Les Films d'Ici/MaÔa Films/Arte France Cinèma/Canal Plus

Distribuzione BIM Distribuzione s.r.l., Via Marianna Dionigi 57, 00191 Roma, tel. 06-3231057, fax 06-3211984, www.bimfilm.com, [email protected]

All'interno del Sottodiciotto film festival, rassegna torinese dedicata alle produzioni cinematografiche dell'universo giovanile con particolare attenzione al mondo della scuola, ha avuto luogo una proiezione speciale, riservata a insegnanti ed educatori, dell'ultimo film del regista francese Nicolas Philibert, Ętre et avoir, che uscirà nelle sale italiane il 7 febbraio 2003.
L'anteprima ha avuto il pregio di essere proposta in versione originale sottotitolata e di poter contare sulla presenza in sala del regista, che, al termine della proiezione, ha accettato di intrattenersi con il pubblico per rispondere ad alcune domande, fornendo cos« informazioni sulla realizzazione dell'opera, che lo ha visto impegnato in qualità di sceneggiatore, direttore della fotografia, montatore e regista.
Ambientato nella piccola scuola rurale di Saint-Etienne sur Usson, un villaggio situato nella regione francese dell'Auvergne, il film documenta numerosi frammenti di vita di una classe composta da tredici allievi di età diverse (dai quattro ai dodici anni), «capitanati» da un solo maestro, Georges Lopez, ormai prossimo alla pensione, dopo una vita dedicata con passione alla propria professione, come lui stesso confessa davanti alla macchina da presa nel corso di una intervista. Il padre, un contadino andaluso immigrato in Francia, avrebbe voluto che il figlio proseguisse il suo mestiere, ma egli desiderava diventare maestro fin da quando frequentava le elementari, al punto che si divertiva già da piccolo a impartire ripetizioni ai compagni e ai cugini in difficoltà.
Il suo innato piacere di insegnare, coltivato come una missione, si è affinato nel corso del tempo grazie al rapporto stabilito con gli allievi incontrati in 35 anni di lavoro, che gli hanno dato molto, oltre alla voglia di proseguire con entusiasmo l'attività scelta.
Ispirando rispetto, stima, ma anche affetto, Georges s'ingegna per riuscire a insegnare contemporaneamente a tutti i suoi piccoli allievi, nonostante abbiano un livello di scolarizzazione diversa e lo scarto anagrafico sia in alcuni casi notevole. Il merito del film consiste anche nell'occuparsi di una realtà dimenticata, ma spesso ancora presente in molti villaggi delle zone rurali francesi: le scuole a classe unica, in cui apprendono contemporaneamente bambini di età diverse che studiano con lo stesso insegnante per tutto il primo ciclo scolastico, dalla materna fino al loro ingresso nelle scuole medie inferiori.

Momenti di vita scolastica


Sui titoli di testa, scritte bianche in quadro nero, la presenza del sonoro, dato da voci fuori campo mescolate ai rumori che solo una tempesta di neve può produrre, anticipa il contesto in cui si svolge la storia: alcuni contadini cercano di governare una mandria di mucche, colta alla sprovvista in mezzo alla bufera imminente, per condurle al riparo verso un cammino sicuro. La macchina da presa si sposta quindi all'interno della scuola deserta, per inquadrare finestre, decorate con disegni infantili, che mostrano un paesaggio che va man mano ad ammantarsi di neve, rendendo ancora più ovattata la natura, contemplata al caldo di pareti protettrici; poi passa in rassegna sedie riposte in attesa sopra i banchi, una stufa accesa, materiali scolastici ordinati con cura, per soffermarsi sulla presenza di due tartarughe, che lentamente trascinano la loro pesante corazza lungo il pavimento per finire a contemplare un mappamondo, curiosamente abbandonato a terra. Quindi torna all'esterno per indugiare ancora a riprendere, con un'inquadratura fissa che sembra durare più di un minuto, alcuni alberi, dai rami smossi dal vento mescolato ai cristalli di neve, per concedersi una panoramica lungo la strada ghiacciata, dove sta avanzando un pulmino con i fari accesi, per farsi largo nella tormenta. Lo scuolabus effettua numerose soste: braccia adulte vigorose aprono la portiera per far salire a turno i bambini e subito dopo la spingono con forza per richiuderla, sancendo così l'inizio di un nuovo giorno scolastico e l'allontanamento dal domicilio domestico per raggiungere la scuola.

Il regista, interrogato sul senso di questa prima sequenza e soprattutto sulla scelta di mettere in scena due tartarughe che perlustrano la classe, ha spiegato cos« la valenza metaforica di questi animali, bisognosi di caldo e costretti per costituzione fisica a muoversi con lentezza: «La scuola è un luogo protetto dal mondo, dove bisogna imparare a procedere lentamente per crescere», inoltre ha voluto iterare, dal punto di vista visivo e sonoro, il gesto brusco che i genitori fanno all'atto di chiudere la portiera dello scuolabus per rimarcare e al contempo introdurre il concetto di separazione, con cui tutti i personaggi fanno i conti nel prosieguo del film. I bambini imparano a staccarsi per ore e ore dai genitori per poter frequentare la scuola e ciò è doloroso (lo si constata nella scena del piccolo, neo-iscritto, venuto in visita a conoscere la scuola, che si lascia andare in lunghi singhiozzi perchè non sopporta l'idea della sparizione della madre); i più grandi devono fare il loro ingresso alla scuola media; il maestro, al termine dell'anno scolastico, congedando i suoi allievi, non può fare a meno di essere sorpreso con lo sguardo triste, espressione di chi è consapevole che una stagione si è conclusa, pertanto la gioia di vederli andar via, più grandi e istruiti, si mescola alla sensazione di scoprirsi un po' inutile, solo e svuotato.
La fine delle stagioni è un leitmotiv nel film, sottolineato non solo dai cambiamenti che avvengono nel paesaggio dell'Auvergne con il trascorrere dei mesi: la neve si scioglie, gli alberi ritornano verdi, spuntano i fiori, si va a fare un picnic accanto a un campo di grano, i banchi e le sedie vengono trasportate all'esterno per far lezione all'aperto..., ma anche dal passare del tempo inteso come crescita individuale e sociale: i bambini imparano non solo a leggere, scrivere e far di conto, ma anche a rispettarsi, a conoscersi meglio, a sentirsi comunità d'apprendimento e ad affezionarsi sempre più al loro maestro. Anche quest'ultimo si trova al termine di una stagione importante: la fine della sua carriera professionale, che gli darà il tempo per fare bilanci, occuparsi di interessi nuovi o lasciati nel cassetto dei desideri; quello che è certo è che proseguirà «a distanza», all'interno del filo rosso che sancisce nel ricordo l'unione con i suoi ragazzi, a occuparsi di loro, di tutti quelli che ha avuto modo di aiutare da vicino. Questo suo stato d'animo emerge proprio nel corso di un dettato, quando si interrompe nel mezzo di una frase per domandarsi a voce alta: «Quanti dettati avrò fatto nella mia vita! Non li ho mai contati». I suoi allievi, incuriositi, lo ascoltano con un interesse diverso per scoprire che il maestro tra un anno e mezzo dovrà ritirarsi dall'insegnamento per andare in pensione. Dovrà persino lasciare la sua abitazione, situata al piano superiore della scuola, per lasciar posto al nuovo insegnante che verrà a sostituirlo. Subito i bambini protestano, minacciano di scioperare se non proseguirà a fare dettati e prove di tabelline. Tranquillizzati dalle parole dell'adulto che ricorda loro che fa parte della vita, anche scolastica, concludere un ciclo, andarsene, separarsi per imboccare strade nuove, sembrano comprendere e accogliere il peso di queste verità, senza perdere la fiducia e la responsabilità di crescere, insieme alla voglia di apprendere nuove conoscenze.

Il maestro e i suoi allievi


Il film si dipana in una serie di quadretti di vita scolastica, che vengono a comporre un simpatico puzzle, niente affatto noioso, anche se si tratta di spezzoni noti, in cui ogni insegnante può ritrovare situazioni vissute o rivivere emozioni provate. Per certi versi, condizionati senza dubbio dalla presenza dell'ambiente rurale e da scene che mostrano i ragazzi più grandi alle prese con la stalla da spazzare o il trattore da guidare, non si può fare a meno di pensare alla scuola di Barbiana, quella di Don Milani, che ha insegnato ai suoi allievi a coniugare gli ausiliari «essere e avere», per costruire una scuola dove tutti potessero diventare realmente protagonisti del proprio e altrui apprendimento. Anche il maestro Lopez impartisce lezioni di vita sull'essere, inteso come condizione umana, e al contempo trasmette la voglia di avere fiducia e di dare prospettive al futuro.
Curiosa la scelta del titolo del film che unisce con la congiunzione «et» i due verbi che tutti imparano per primi a scuola, gli ausiliari, che permettono a loro volta di coniugare gli altri al passato e al futuro; vissuti troppo spesso come antagonisti (Avere o essere? si chiedeva Erich Fromm), qui vengono saldati dalla convinzione che si può imparare a essere solo tenendo insieme anche l'avere, nel senso latino di habere, che significa «tenere, tenersi, occupare un luogo e dunque possedere». Si tratta di un avere che pertanto ha un valore d'essere: è un modo di esserci e di tenersi.

La carrellata di siparietti didattici riprende il tavolo occupato dai piccini che si industriano a vergare la loro prima parola: "Maman". Per alcuni l'esercizio risulta complicato, le parole tracciate sul foglio appaiono sbilenche, ma le lettere oblique e talvolta buffe sono materia di discussione: il compito individuale diventa oggetto di riflessione collettiva per valutare l'operato altrui dal punto di vista estetico senza attribuire giudizi di valore, che vengono sanciti solo dal maestro, figura autorevole che ha il compito di spronare gli allievi a migliorare e a correggere quanto fatto, pur tenendo conto della fatica e lodando l'impegno profuso. La voce pacata dell'insegnante è un basso continuo che punteggia ogni sequenza: la sua pazienza nel rapportarsi agli allievi risulta a tratti esagerata, quasi inverosimile. Non alza mai la voce, non si altera, non si lascia andare a segni di impazienza e questa sua virtù, reale o indotta dal ruolo ricoperto nel film, lo rende a suo modo un po' anomalo, quasi eroico, pur non volendo erigersi a modello di perfezione didattica.

I bambini imparano a spezzare un uovo per preparare una frittata, che non tutti sanno far saltare in aria senza lasciarla precipitare sul pavimento, si divertono a scapicollarsi da slittini e bob lungo discese innevate, spinti dal loro maestro, si aiutano l'un l'altro, intraprendendo interessanti forme di tutoraggio nei confronti dei più piccoli, vengono rimproverati durante le liti e messi a confronto per imparare ad andare al di là del proprio ego, ma sono, per fortuna, anche inquadrati quando si infilano le matite dentro le narici, giocano con le gomme o fanno smorfie, mentre il maestro spiega. 
Il film non si limita a registrare spezzoni di attività didattica, ma si concentra ad approfondire la relazione che l'insegnante instaura con gli allievi, i dialoghi dietro le quinte, quando deve preparare i più grandi a lasciare la scuola elementare per responsabilizzarli rispetto alle difficoltà che potrebbero incontrare ("Non sarete più seguiti personalmente come ho fatto io, non potrò più aiutarvi da vicino") e i colloqui con i genitori, che fanno emergere problemi delicati e dimensioni private, che non si sa fino a che punto sia legittimo filmare.
Anche le famiglie vengono coinvolte nella realizzazione di quest'opera cinematografica e molte danno il loro consenso per documentare spaccati di vita domestica, che vedono gli adulti impegnati a seguire i bambini nei compiti a casa. La sequenza più divertente del film mostra infatti la famiglia di Olivier alle prese con un compito di matematica: il bambino deve fare delle tabelline e con i risultati ottenuti eseguire dei conti a catena, lo affianca nell'impresa dapprima la madre e poi, man mano, si uniscono gli altri componenti, ognuno vuole partecipare e dire la propria opinione, i conti non tornano, si rifà l'esercizio diverse volte, per cui  l'attività si trasforma in una simpatica epopea, alla fine il bambino, travolto e confuso da quell'alternarsi di pareri, sembra tentato dall'idea di abbandonare il tavolo di lavoro, lasciando gli altri a litigare.

Ho avuto modo di domandare al regista in che misura la presenza della macchina da presa abbia potuto influenzare il comportamento degli adulti e dei bambini ripresi quaranta minuti al giorno per un totale di dieci settimane, mossa anche dal sospetto che quanto mostrato come documentazione del reale, rimaneggiato anche in fase di montaggio, sia in realtà un prodotto di un'ideazione filmica più vicina alla fiction che al cinema-veritè. Pungolato e vivacemente interessato al quesito posto, il regista si è sbilanciato a fornire maggiori spiegazioni, raccontando di essere riuscito ad ottenere la fiducia del maestro, dei suoi allievi e delle loro famiglie, restando per giorni e giorni accanto a loro senza adoperare la macchina da presa, per conoscerli e al contempo stabilire una relazione. "Non potevo certo far dimenticare la presenza della telecamera, ma non ho mai ripreso di nascosto, volevo farmi accettare, dovevano darmi fiducia. D'altronde non ero l« per rubare loro qualcosa e, a poco a poco, si è instaurata naturalmente una forma di rispetto reciproco. Non a caso ho ripreso molte volte Jojo (ndr. il piccolo vivace, amante del gioco, che fatica a concentrarsi nel lavoro ed è costretto dal maestro a saltare una ricreazione per finire di colorare, come promesso, un disegno) e non sua sorella Laura, intimidita dalla presenza della macchina da presa. All'inizio mi sono limitato a riprendere quanto avveniva in classe, solo in seguito sono nati collegamenti tra le scene e sono arrivato a suggerire delle situazioni indotte dalle mie esigenze stilistiche. Una delle sequenze provocate dalla presenza della troupe nella scuola si riferisce a quando Jojo aiutato da una compagna si reca nel locale attiguo alla classe per fare delle fotocopie: non avevano mai usato questa macchina e non sapevano come fare. I due bimbi ci provano, inutilmente: mettono il libro al contrario, lasciano il coperchio aperto, consumano tutta la carta, ma non possono chiedere aiuto, perchè la macchina da presa, collocata sulla porta, impedisce loro di uscire dal locale. Un'altra scena da me proposta e che mi piace intitolare "Jojo e l'infinito", mostra il maestro intento a interrogare il bambino su fino a quanto si può arrivare a contare. Sono io che ho chiesto al maestro di farlo perchè mi piaceva conoscere l'opinione dei bambini su questo argomento. La mia camera non è mai stata passiva, messa in una stessa posizione, ma sempre in movimento e questo differenzia il mio film dalla reality tv. Era importante sapere dove collocare la telecamera, a quale distanza (ndr. fisica e psicologica) rispetto ai bambini e al maestro".

Jojo alle prese con le difficoltà scolastiche confortato dal maestro

Biofilmografia

Nicolas Philibert (Nancy, 1951), uno dei più grandi documentaristi oggi all'opera in Francia, dopo aver completato i propri studi in filosofia, nel 1972 partecipa come stagista alla realizzazione del film Les Camisards (I camisardi) e vi interpreta un piccolo ruolo. Recita occasionalmente anche nel decennio successivo, mentre nel 1978 passa alla regia con La voix de son maïtre (La voce del padrone), incentrato sul rapporto tra operai e padroni nelle fabbriche. Scrive e dirige La Ville Louvre (La città Louvre, 1990), filmando nel giro di pochi anni numerosi documentari apprezzati dalla critica e caratterizzati da eccezionale sobrietà e da un notevole talento nel restituire il vissuto e l'ambiente dei personaggi filmati: Les Pays des sourds (Il paese dei sordi, 1993) sui non-udenti; Un animal, des animaux (Un animale, degli animali, 1996); La Moindre des choses (La minore delle cose, 1998), girato in una clinica psichiatrica: Qui sait? (Chi lo sa?, 1999). Être et avoir (Essere e avere, 2002), presentato all'ultima edizione del Festival di Cannes, dove ha ricevuto il Premio Cannes Junior, ha già raggiunto in Francia due milioni di spettatori.

Il regista Philibert al lavoro 

A proposito di ĘÊtre et Avoir (dal pressbook pubblicato sul sito della BIM film)

Nei miei film cerco sempre di raccontare una storia, di «trascendere» la realtà immediata. Provo a stimolare l'immaginario, partendo dai luoghi, dai personaggi, dalle situazioni che riprendo. Insomma, più che fare dei film «su», cerco piuttosto di fare dei film «con» ed è forse anche per questo che il mio lavoro non è molto distante dalla «fiction»: dopo poco, lo spettatore si sente «con» i personaggi che riprendo e ne condivide i momenti di difficoltà e di gioia.
In altri termini non cerco di istruire lo spettatore dall'alto di conoscenze preesistenti o da una posizione di esperto. Anzi, prima di fare un film, meno ne so meglio sto! Quest'atteggiamento offre un enorme vantaggio: lascia campo libero all'emergere della mia soggettività, all'incontro e, infine, al cinema.
Naturalmente sapevo che molto dipendeva dalla scelta dell'insegnante, ma su questo punto, per quanto fondamentale, ero molto aperto: poteva essere un uomo o una donna, giovane o meno, con esperienza o senza ... Sapevo che non ne sarebbe venuto fuori lo stesso film, ma da questo punto di vista, non avevo alcuna idea preconcetta.
Georges Lopez, il maestro che ho scelto, mi era stato raccomandato dall'ispettore della sua circoscrizione. Malgrado lo stile un po' tradizionale,si è imposto fin dal momento in cui ho varcato la soglia dell'aula. » una scelta che non ho mai dovuto rimpiangere. Dietro un'apparenza a volte leggermente autoritaria, ho rapidamente percepito in lui una profonda attenzione, una grande capacità di ascolto e ho capito che si sarebbe rapidamente imposto come un personaggio forte, capace di trasmettere una bella immagine del proprio lavoro. Ma non per questo il film si propone di farne «un modello», al quale basterebbe ispirarsi!
E poi, c'erano i bambini, i loro volti resi intensi dal desiderio di progredire, visi a volte preoccupati, a volte distesi, spesso buffi, ridenti, a volte seri, chiusi, indecifrabili...
I genitori hanno dato rapidamente il proprio consenso, sicuramente per via della fiducia e del rispetto che provavano per il maestro, che stava con loro da 20 anni. Naturalmente, all'inizio sono parsi sorpresi dal fatto che si potesse fare un film per il cinema in base ad un soggetto tanto fragile, cos« poco spettacolare, ma ho spiegato loro che sono convinto che le immagini di un bambino che si accapiglia per una sottrazione possono raccontare una vera epopea...
Eravamo l«, fra loro, attenti ai minimi accadimenti, a tutte quelle piccole cose che tessono la trama della vita di una classe. E molto spesso i bambini hanno capito che non eravamo l« per giudicarli, nè per forzare le cose se uno di loro provava imbarazzo o disturbo per la nostra presenza. E cos«, è stato possibile veder nascere un rapporto di fiducia che si è consolidato con il trascorrere dei giorni. In ogni film, bisogna saper trovare la distanza giusta e le immagini che impressionano la pellicola sono un riflesso di questa distanza.
Non ho cercato di imperniare il film su aspetti di colore o nostalgici, in una sorta di esaltazione dei valori del passato, di un mondo ormai trascorso. Al contrario, sono convinto che in questo tipo di classe è possibile individuare degli elementi di riflessione per costruire la scuola di domani. Del resto, al di là del contesto della scuola rurale, ho voluto mostrare l'essenza stessa dell'atto di insegnare, nonchè quello di apprendere. Un'esperienza universale!
Ovviamente, nella classe, i bambini fanno tante cose che non ho ripreso o che non ho conservato al montaggio: musica, propedeutica all'inglese, arti plastiche, storia, geografia, informatica... Ma il film non è un «catalogo» di tutto ciò che si fa a scuola. Ho voluto centrarlo sul rapporto fra quel maestro e i suoi allievi, mostrare in che modo l'insegnante li aiutava a superare le difficoltà, ad acquisire fiducia in se stessi, a rispettarsi reciprocamente, a rispettare se stessi...

Ętre et avoir
è un po' come le favole, lascia a ciascuno la possibilità di proiettarvi i propri ricordi... Per quanto mi riguarda, vi trovo una certa austerità. Prima della lavorazione, avevo dimenticato fino a che punto è difficile imparare, ma anche crescere, trovare la propria personalità, proiettarsi nel futuro. Questo tuffo nella scuola me l'ha ricordato con forza. » questo, forse, il vero argomento del film.

Nicolas Philibert