All'interno
del Sottodiciotto
film festival, rassegna torinese dedicata
alle produzioni cinematografiche dell'universo giovanile con particolare
attenzione al mondo della scuola, ha avuto luogo una proiezione speciale,
riservata a insegnanti ed educatori, dell'ultimo film del regista
francese Nicolas Philibert, Ętre et avoir, che uscirà nelle sale
italiane il 7 febbraio 2003.
L'anteprima ha avuto il pregio di essere proposta in versione originale
sottotitolata e di poter contare sulla presenza in sala del regista, che,
al termine della proiezione, ha accettato di intrattenersi con il pubblico
per rispondere ad alcune domande, fornendo cos« informazioni sulla
realizzazione dell'opera, che lo ha visto impegnato in qualità di
sceneggiatore, direttore della fotografia, montatore e regista.
Ambientato nella piccola scuola rurale di Saint-Etienne sur Usson, un
villaggio situato nella regione francese dell'Auvergne, il film
documenta numerosi frammenti di vita di una classe composta da tredici
allievi di età diverse (dai quattro ai dodici anni), «capitanati» da
un solo maestro, Georges Lopez, ormai prossimo alla pensione, dopo una
vita dedicata con passione alla propria professione, come lui stesso
confessa davanti alla macchina da presa nel corso di una intervista. Il
padre, un contadino andaluso immigrato in Francia, avrebbe voluto che il
figlio proseguisse il suo mestiere, ma egli desiderava diventare maestro
fin da quando frequentava le elementari, al punto che si divertiva già da
piccolo a impartire ripetizioni ai compagni e ai cugini in difficoltà.
Il suo innato piacere di insegnare, coltivato come una missione, si è
affinato nel corso del tempo grazie al rapporto stabilito con gli allievi
incontrati in 35 anni di lavoro, che gli hanno dato molto, oltre alla
voglia di proseguire con entusiasmo l'attività scelta.
Ispirando rispetto, stima, ma anche affetto, Georges s'ingegna per
riuscire a insegnare contemporaneamente a tutti i suoi piccoli allievi,
nonostante abbiano un livello di scolarizzazione diversa e lo scarto
anagrafico sia in alcuni casi notevole. Il merito del film consiste anche
nell'occuparsi di una realtà dimenticata, ma spesso ancora presente in
molti villaggi delle zone rurali francesi: le scuole a classe unica, in
cui apprendono contemporaneamente bambini di età diverse che studiano con
lo stesso insegnante per tutto il primo ciclo scolastico, dalla materna
fino al loro ingresso nelle scuole medie inferiori.

Sui titoli di testa, scritte bianche in quadro nero, la presenza del
sonoro, dato da voci fuori campo mescolate ai rumori che solo una tempesta
di neve può produrre, anticipa il contesto in cui si svolge la storia:
alcuni contadini cercano di governare una mandria di mucche, colta alla
sprovvista in mezzo alla bufera imminente, per condurle al riparo verso un
cammino sicuro. La macchina da presa si sposta quindi all'interno della
scuola deserta, per inquadrare finestre, decorate con disegni infantili,
che mostrano un paesaggio che va man mano ad ammantarsi di neve, rendendo
ancora più ovattata la natura, contemplata al caldo di pareti
protettrici; poi passa in rassegna sedie riposte in attesa sopra i banchi,
una stufa accesa, materiali scolastici ordinati con cura, per soffermarsi sulla presenza di
due tartarughe, che lentamente trascinano la loro pesante corazza lungo il
pavimento per finire a contemplare un mappamondo, curiosamente abbandonato
a terra. Quindi torna all'esterno per indugiare ancora a riprendere,
con un'inquadratura fissa che sembra durare più di un minuto, alcuni
alberi, dai rami smossi dal vento mescolato ai cristalli di neve, per
concedersi una panoramica lungo la strada ghiacciata, dove sta avanzando
un pulmino con i fari accesi, per farsi largo nella tormenta. Lo scuolabus
effettua numerose soste: braccia adulte vigorose aprono la portiera per far
salire a turno i bambini e subito dopo la spingono con forza per
richiuderla, sancendo così l'inizio di un nuovo giorno scolastico e
l'allontanamento dal domicilio domestico per raggiungere la scuola.
Il regista, interrogato sul senso di questa prima sequenza e soprattutto
sulla scelta di mettere in scena due tartarughe che perlustrano la classe,
ha spiegato cos« la valenza metaforica di questi animali, bisognosi di
caldo e costretti per costituzione fisica a muoversi con lentezza: «La
scuola è un luogo protetto dal mondo, dove bisogna imparare a procedere
lentamente per crescere», inoltre ha voluto iterare, dal punto di
vista visivo e sonoro, il gesto brusco che i genitori fanno all'atto di
chiudere la portiera dello scuolabus per rimarcare e al contempo
introdurre il concetto di separazione, con cui tutti i personaggi fanno i
conti nel prosieguo del film. I bambini imparano a staccarsi per ore e ore dai genitori per poter
frequentare la scuola e ciò è doloroso (lo si constata nella scena del
piccolo, neo-iscritto, venuto in visita a conoscere la scuola, che si
lascia andare in lunghi singhiozzi perchè non sopporta l'idea della
sparizione della madre); i più grandi devono fare il loro ingresso alla scuola media; il maestro, al termine dell'anno
scolastico, congedando i suoi allievi, non può fare a meno di essere
sorpreso con lo sguardo triste, espressione di chi è consapevole che una
stagione si è conclusa, pertanto la gioia di vederli andar via, più
grandi e istruiti, si mescola alla sensazione di scoprirsi un po'
inutile, solo e svuotato.
La fine delle stagioni è un leitmotiv nel film, sottolineato non solo dai
cambiamenti che avvengono nel paesaggio dell'Auvergne con il trascorrere
dei mesi: la neve si scioglie, gli alberi ritornano verdi, spuntano i
fiori, si va a fare un picnic accanto a un campo di grano, i banchi e le
sedie vengono trasportate all'esterno per far lezione all'aperto...,
ma anche dal passare del tempo inteso come crescita individuale e sociale:
i bambini imparano non solo a leggere, scrivere e far di conto, ma anche a
rispettarsi, a conoscersi meglio, a sentirsi comunità d'apprendimento e
ad affezionarsi sempre più al loro maestro. Anche quest'ultimo si trova
al termine di una stagione importante: la fine della sua carriera
professionale, che gli darà il tempo per fare bilanci, occuparsi di
interessi nuovi o lasciati nel cassetto dei desideri; quello che è certo
è che proseguirà «a distanza», all'interno del filo rosso che
sancisce nel ricordo l'unione con i suoi ragazzi, a occuparsi di loro,
di tutti quelli che ha avuto modo di aiutare da vicino. Questo suo stato
d'animo emerge proprio nel corso di un dettato, quando si interrompe nel
mezzo di una frase per domandarsi a voce alta: «Quanti dettati avrò
fatto nella mia vita! Non li ho mai contati». I suoi allievi,
incuriositi, lo ascoltano con un interesse diverso per scoprire che il
maestro tra un anno e mezzo dovrà ritirarsi dall'insegnamento per
andare in pensione. Dovrà persino lasciare la sua abitazione, situata al
piano superiore della scuola, per lasciar posto al nuovo insegnante che
verrà a sostituirlo. Subito i bambini protestano, minacciano di
scioperare se non proseguirà a fare dettati e prove di tabelline.
Tranquillizzati dalle parole dell'adulto che ricorda loro che fa parte
della vita, anche scolastica, concludere un ciclo, andarsene, separarsi
per imboccare strade nuove, sembrano comprendere e accogliere il peso di
queste verità, senza perdere la fiducia e la responsabilità di crescere,
insieme alla voglia di apprendere nuove conoscenze.

Il film si dipana in una serie di quadretti di vita scolastica, che
vengono a comporre un simpatico puzzle, niente affatto noioso, anche se si
tratta di spezzoni noti, in cui ogni insegnante può ritrovare situazioni
vissute o rivivere emozioni provate. Per certi versi, condizionati senza
dubbio dalla presenza dell'ambiente rurale e da scene che mostrano i
ragazzi più grandi alle prese con la stalla da spazzare o il trattore da
guidare, non si può fare a meno di pensare alla scuola di Barbiana,
quella di Don Milani, che ha insegnato ai suoi allievi a coniugare gli
ausiliari «essere e avere», per costruire una scuola dove tutti
potessero diventare realmente protagonisti del proprio e altrui
apprendimento. Anche il maestro Lopez impartisce lezioni di vita
sull'essere, inteso come condizione umana, e al contempo trasmette la
voglia di avere fiducia e di dare prospettive al futuro.
Curiosa la scelta del titolo del film che unisce con la congiunzione
«et» i due verbi che tutti imparano per primi a scuola, gli ausiliari,
che permettono a loro volta di coniugare gli altri al passato e al
futuro; vissuti troppo spesso come antagonisti (Avere o essere? si
chiedeva Erich Fromm), qui vengono saldati dalla convinzione che si può
imparare a essere solo tenendo insieme anche l'avere, nel senso latino
di habere, che significa «tenere, tenersi, occupare un luogo e
dunque possedere». Si tratta di un avere che pertanto ha un valore
d'essere: è un modo di esserci e di tenersi.
La
carrellata di siparietti didattici riprende il tavolo occupato dai piccini
che si industriano a vergare la loro prima parola: "Maman".
Per alcuni l'esercizio risulta complicato, le parole tracciate sul foglio
appaiono sbilenche, ma le lettere oblique e talvolta buffe sono materia di
discussione: il compito individuale diventa oggetto di riflessione
collettiva per valutare l'operato altrui dal punto di vista estetico senza
attribuire giudizi di valore, che vengono sanciti solo dal maestro, figura
autorevole che ha il compito di spronare gli allievi a migliorare e a
correggere quanto fatto, pur tenendo conto della fatica e lodando
l'impegno profuso. La voce pacata dell'insegnante è un basso continuo che
punteggia ogni sequenza: la sua pazienza nel rapportarsi agli allievi
risulta a tratti esagerata, quasi inverosimile. Non alza mai la voce, non
si altera, non si lascia andare a segni di impazienza e questa sua virtù,
reale o indotta dal ruolo ricoperto nel film, lo rende a suo modo un po'
anomalo, quasi eroico, pur non volendo erigersi a modello di perfezione
didattica.
I
bambini imparano a spezzare un uovo per preparare una frittata, che non
tutti sanno far saltare in aria senza lasciarla precipitare sul pavimento, si
divertono a scapicollarsi da slittini e bob lungo discese innevate, spinti
dal loro maestro, si aiutano l'un l'altro, intraprendendo interessanti
forme di tutoraggio nei confronti dei più piccoli, vengono rimproverati
durante le liti e messi a confronto per imparare ad andare al di là del
proprio ego, ma sono, per fortuna, anche inquadrati quando si infilano le
matite dentro le narici, giocano con le gomme o fanno smorfie, mentre il
maestro spiega.
Il film non si limita a registrare spezzoni di attività didattica, ma si
concentra ad approfondire la relazione che l'insegnante instaura con gli
allievi, i dialoghi dietro le quinte, quando deve preparare i più grandi
a lasciare la scuola elementare per responsabilizzarli rispetto alle
difficoltà che potrebbero incontrare ("Non sarete più seguiti
personalmente come ho fatto io, non potrò più aiutarvi da vicino") e i
colloqui con i genitori, che fanno emergere problemi delicati e dimensioni
private, che non si sa fino a che punto sia legittimo filmare.
Anche le famiglie vengono coinvolte nella realizzazione di quest'opera
cinematografica e molte danno il loro consenso per documentare spaccati di
vita domestica, che vedono gli adulti impegnati a seguire i bambini nei
compiti a casa. La sequenza più divertente del film mostra infatti la famiglia di Olivier
alle prese con un compito di matematica: il bambino deve fare delle
tabelline e con i risultati ottenuti eseguire dei conti a catena, lo
affianca nell'impresa dapprima la madre e poi, man mano, si uniscono gli
altri componenti, ognuno vuole partecipare e dire la propria opinione, i
conti non tornano, si rifà l'esercizio diverse volte, per cui
l'attività si trasforma in una simpatica epopea, alla fine il bambino, travolto e confuso da quell'alternarsi di pareri,
sembra tentato dall'idea di abbandonare il tavolo di lavoro, lasciando gli
altri a litigare.
Ho
avuto modo di domandare al regista in che misura la presenza della
macchina da presa abbia potuto influenzare il comportamento degli adulti e
dei bambini ripresi quaranta minuti al giorno per un totale di dieci
settimane, mossa anche dal sospetto che quanto mostrato come
documentazione del reale, rimaneggiato anche in fase di montaggio, sia in
realtà un prodotto di un'ideazione filmica più vicina alla fiction che
al cinema-veritè. Pungolato e vivacemente interessato al quesito posto,
il regista si è sbilanciato a fornire maggiori spiegazioni, raccontando
di essere riuscito ad ottenere la fiducia del maestro, dei suoi allievi e
delle loro famiglie, restando per giorni e giorni accanto a loro senza
adoperare la macchina da presa, per conoscerli e al contempo stabilire una
relazione. "Non potevo certo far dimenticare la presenza della
telecamera, ma non ho
mai ripreso di nascosto, volevo farmi accettare, dovevano darmi fiducia.
D'altronde non ero l« per rubare loro qualcosa e, a poco a poco, si è
instaurata naturalmente una forma di rispetto reciproco. Non a caso ho
ripreso molte volte Jojo (ndr. il piccolo vivace, amante del gioco,
che fatica a concentrarsi nel lavoro ed è costretto dal maestro a saltare
una ricreazione per finire di colorare, come promesso, un disegno) e
non sua sorella Laura, intimidita dalla presenza della macchina da presa.
All'inizio mi sono limitato a riprendere quanto avveniva in classe, solo
in seguito sono nati collegamenti tra le scene e sono arrivato a suggerire
delle situazioni indotte dalle mie esigenze stilistiche. Una delle
sequenze provocate dalla presenza della troupe nella scuola si riferisce a
quando Jojo aiutato da una compagna si reca nel locale attiguo alla classe
per fare delle fotocopie: non avevano mai usato questa macchina e non
sapevano come fare. I due bimbi ci provano, inutilmente: mettono il libro
al contrario, lasciano il coperchio aperto, consumano tutta la carta, ma
non possono chiedere aiuto, perchè la macchina da presa, collocata sulla
porta, impedisce loro di uscire dal locale. Un'altra scena da me proposta
e che mi piace intitolare "Jojo e l'infinito", mostra il maestro
intento a interrogare il bambino su fino a quanto si può arrivare a
contare. Sono io che ho chiesto al maestro di farlo perchè mi piaceva
conoscere l'opinione dei bambini su questo argomento. La mia camera non è
mai stata passiva, messa in una stessa posizione, ma sempre in movimento e
questo differenzia il mio film dalla reality tv. Era importante sapere
dove collocare la telecamera, a quale distanza (ndr. fisica e
psicologica) rispetto ai bambini e al maestro".

Biofilmografia
Nicolas
Philibert (Nancy, 1951), uno dei più grandi documentaristi oggi
all'opera in Francia, dopo aver completato i propri studi in filosofia,
nel 1972 partecipa come stagista alla realizzazione del film Les
Camisards (I camisardi) e vi interpreta un piccolo ruolo. Recita
occasionalmente anche nel decennio successivo, mentre nel 1978 passa alla
regia con La voix de son maïtre (La voce del padrone), incentrato
sul rapporto tra operai e padroni nelle fabbriche. Scrive e dirige La
Ville Louvre (La città Louvre, 1990), filmando nel giro di pochi anni
numerosi documentari apprezzati dalla critica e caratterizzati da
eccezionale sobrietà e da un notevole talento nel restituire il vissuto e
l'ambiente dei personaggi filmati: Les Pays des sourds (Il paese
dei sordi, 1993) sui non-udenti; Un animal, des animaux (Un
animale, degli animali, 1996); La Moindre des choses (La minore
delle cose, 1998), girato in una clinica psichiatrica: Qui sait?
(Chi lo sa?, 1999). Être et avoir (Essere e avere, 2002),
presentato all'ultima edizione del Festival di Cannes, dove ha ricevuto
il Premio Cannes Junior, ha già raggiunto in Francia due milioni di
spettatori.
A
proposito di ĘÊtre et Avoir
(dal pressbook pubblicato sul sito della
BIM
film)
Nei
miei film cerco sempre di raccontare una storia, di «trascendere» la
realtà immediata. Provo a stimolare l'immaginario, partendo dai luoghi,
dai personaggi, dalle situazioni che riprendo. Insomma, più che fare dei
film «su», cerco piuttosto di fare dei film «con» ed è forse
anche per questo che il mio lavoro non è molto distante dalla
«fiction»: dopo poco, lo spettatore si sente «con» i personaggi
che riprendo e ne condivide i momenti di difficoltà e di gioia.
In altri termini non cerco di istruire lo spettatore dall'alto di
conoscenze preesistenti o da una posizione di esperto. Anzi, prima di fare
un film, meno ne so meglio sto! Quest'atteggiamento offre un enorme
vantaggio: lascia campo libero all'emergere della mia soggettività,
all'incontro e, infine, al cinema.
Naturalmente sapevo che molto dipendeva dalla scelta dell'insegnante, ma
su questo punto, per quanto fondamentale, ero molto aperto: poteva essere
un uomo o una donna, giovane o meno, con esperienza o senza ... Sapevo che
non ne sarebbe venuto fuori lo stesso film, ma da questo punto di vista,
non avevo alcuna idea preconcetta.
Georges Lopez, il maestro che ho scelto, mi era stato raccomandato
dall'ispettore della sua circoscrizione. Malgrado lo stile un po'
tradizionale,si è imposto fin dal momento in cui ho varcato la soglia
dell'aula. » una scelta che non ho mai dovuto rimpiangere. Dietro
un'apparenza a volte leggermente autoritaria, ho rapidamente percepito
in lui una profonda attenzione, una grande capacità di ascolto e ho capito
che si sarebbe rapidamente imposto come un personaggio forte, capace di
trasmettere una bella immagine del proprio lavoro. Ma non per questo il
film si propone di farne «un modello», al quale basterebbe ispirarsi!
E poi, c'erano i bambini, i loro volti resi intensi dal desiderio di
progredire, visi a volte preoccupati, a volte distesi, spesso buffi,
ridenti, a volte seri, chiusi, indecifrabili...
I genitori hanno dato rapidamente il proprio consenso, sicuramente per via
della fiducia e del rispetto che provavano per il maestro, che stava con
loro da 20 anni. Naturalmente, all'inizio sono parsi sorpresi dal fatto
che si potesse fare un film per il cinema in base ad un soggetto tanto
fragile, cos« poco spettacolare, ma ho spiegato loro che sono convinto
che le immagini di un bambino che si accapiglia per una sottrazione
possono raccontare una vera epopea...
Eravamo l«, fra loro, attenti ai minimi accadimenti, a tutte quelle
piccole cose che tessono la trama della vita di una classe. E molto spesso
i bambini hanno capito che non eravamo l« per giudicarli, nè per forzare
le cose se uno di loro provava imbarazzo o disturbo per la nostra
presenza. E cos«, è stato possibile veder nascere un rapporto di fiducia
che si è consolidato con il trascorrere dei giorni. In ogni film, bisogna
saper trovare la distanza giusta e le immagini che impressionano la
pellicola sono un riflesso di questa distanza.
Non ho cercato di imperniare il film su aspetti di colore o nostalgici, in
una sorta di esaltazione dei valori del passato, di un mondo ormai
trascorso. Al contrario, sono convinto che in questo tipo di classe è
possibile individuare degli elementi di riflessione per costruire la
scuola di domani. Del resto, al di là del contesto della scuola rurale,
ho voluto mostrare l'essenza stessa dell'atto di insegnare, nonchè
quello di apprendere. Un'esperienza universale!
Ovviamente, nella classe, i bambini fanno tante cose che non ho ripreso o
che non ho conservato al montaggio: musica, propedeutica all'inglese,
arti plastiche, storia, geografia, informatica... Ma il film non è un
«catalogo» di tutto ciò che si fa a scuola. Ho voluto centrarlo sul
rapporto fra quel maestro e i suoi allievi, mostrare in che modo
l'insegnante li aiutava a superare le difficoltà, ad acquisire fiducia
in se stessi, a rispettarsi reciprocamente, a rispettare se stessi...
Ętre et avoir
è un po' come le favole, lascia a ciascuno la possibilità di
proiettarvi i propri ricordi... Per quanto mi riguarda, vi trovo una certa
austerità. Prima della lavorazione, avevo dimenticato fino a che punto è
difficile imparare, ma anche crescere, trovare la propria personalità,
proiettarsi nel futuro. Questo tuffo nella scuola me l'ha ricordato con
forza. » questo, forse, il vero argomento del film.
Nicolas
Philibert
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