Riassumendo quell'attenzione per i collegamenti anatomici che trascorrono in tutto il cinema francese, da Assayas a Chéreau, da Bonitzer a Leconte, un buon punto di partenza si direbbe l'ultimo film della regista forse più di riferimento per il cinema al femminile francese, Catherine Breillat (Sex is comedy), regista che concludeva la nostra disamina precedente con il forse più dirompente Romance, probabilmente più edulcorato, altrettanto autoreferenziale, ma in questo caso il gioco coinvolge lo spettatore che abbia visto A ma souer e la sua memoria. vellicata finché il solletico si fa acuto quando alla fine del film la situazione ricalca la sequenza iniziale della pellicola del 2000 e lo spettatore riconosce il frangente e c'è la catarsi della scena riuscita.
In precedenza i corpi sono materia, cadaveri usati dall'autrice, che ricorda un po' nel piglio autoritario a somigliare a quell'esempio che Makhmalbaf aveva tratteggiato in Salaam cinema, un atteggiamento fascista da cui la regista non può liberarsi («Escudermi dalle prove è stato un atto di violenza»). Può però essere temperato e qui la Breillat usa "il pezzo di carne"/attore per riuscire a mostrarlo come lo vedeva in relazione alla ricerca: «Il desiderio è una qualità umana», si dice nel film e quanto questo sia intrecciato con la fisicità è dimostrato dalla rottura del piede delal regista, dalla protesi del cazzo del protagonista, dapprima fonte di imbarazzo e poi sul set espressione "oscena" (fuori scena girata, che è uno scrigno di emozioni commoventi, come dimostra la reazione finale dell'intera troupe) della natura dell'uomo, che aveva anche sognato come un incubo quella protesi enorme che finisce con coincidere con il suo personaggio. Il problema è la serie infinita di campi/controcampi che punteggiano gli incontri tra regista e protagonista, che mettono tra parentesi quella prorompente fisicità castrandola in questo modo, venendo meno all'assunto: «Le parole sono false, i corpi verità e io voglio riprendere verità». Un manifesto che però solo all'inizio sulla spiaggia e nel finale con la rivelazione di quale sia la scenz ache dovremmo già conoscere e che coinvolge pure lo sverginamento in ogni senso: un'opera, Sex is comedy - con la splendida Anne Parillaud a fare da alter ego della regista - che racchiude alcune delle correnti del cinema transalpino di questi ultimi due anni; da un lato prosegue lo studio dei corpi della poetica della regista e dall'altro li incastra in una struttura gelidamente metalinguistica.
|
Quegli ambienti, di entrambi i film sembrano sempre teatri di posa - lo sono, vengono mostrati come tali in entrambi i film, quasi a cercare una legittimazione per i corpi immersi in un intreccio che ha il fine di counicare un assunto - in essi i corpi però non hanno la carica che c'è nei film ricostruiti da Tavernier presso la Kontinental, forse perché in Laissez passer sono comunque compensate dalla forte fisicità della corsa in bici, che sembra essere il momento in cui prende forma la scelta maquis, e anche le strade rifatte nei teatri di posa sono piene di gestualità interna all'epoca, non sono zavorrati dalla contemporaneità e dalla duplice presenza: in scena e nella attualità.
|
La stessa struttura rigidamente metalinguistica usata per raccontare una fetta di cinema francese dimenticata, quella dell'occupazione nazista che vide una produzione di pellicole interessanti, seppure al soldo dei tedeschi. Tavernier, anche lui usa il mondo del cinema per parlare d'altro: di coerenza e di collaborazione, di creatività vulcanica e di maquis ponderati, di genio e (s)regolatezza.
Infatti Rivette, ad esempio, in Va savoir usa le stesse due componenti: corpi e metalinguaggio, messa in scena e relazioni di corpi dettagliate fino al parossismo, anche in questo caso i corpi che interagiscono sullo schermo sono per lo più due, quando aumentano si scatenano drammi ed è il momento in cui avviene realmente qualcosa. Forse in questo ci troviamo a disagio: mentre è il rapporto a due, l'erotismo di due epidermidi nude che diventa immagine-affezione in Breillat, come in Chéreau, qui invece il piano intellettuale, il filtro del metalinguaggio travalica e rimanda ai molti spettacoli messi in scena: quello teatrale, quello della danza, quello della stanza d'albergo, dove si attorciglia il rapporto tra regista e attrice, la biblioteca privata dove si isola un altro tipo di relazione, con la studentessa più giovane e arrapante, la recita delle cene... sono tutti luoghi teatralizzati che sottraggono spazio ai corpi - che già soffrono in tutto il film di una sorta di ritrosia: tutti sono attratti da qualche altro corpo desiderante e seducente, ma c'è come un diaframma che li divide e li costringe a una casta contemplazione, manca completamente il contatto fisico, ci si ferma sempre a pochi centimetri dal corpo dell'altro, occupando uno spazio del fotogramma, per lasciare all'altro il resto - e rinviano a quel metalinguaggio, che soffoca l'esuberanza dei corpi, definitivamente ingessata nella sequenza finale, spudoratamente - e un po' scontatamente - ambientata in teatro, nel tentativo di confondere palco e realtà e riducendo a marionette le machine desideranti dei corpi ripresi fino a quel momento sempre con l'attenzione di metterli in contrapposizione con l'ambiente, rendendoli fisicamente conflittuali con situazioni e spazi familiari, rassicuranti, dove però l'impaccio si evidenzia in quel gesto mai eseguito di contatto tra corpi, di penetrazione, abbraccio, carezza.
Qui non è invadente il campo/controcampo, ma ormai la disposizione dei corpi alle tavole delle cene francesi o frontali mentre parlano tra loro su divani, letti, panchine, è serializzata al punto che persino i dialoghi del teatro hanno una prospettiva prevedibile, proprio perché si è perso il senso del corpo. Forse per questo Chéreau, uomo di teatro prima che di cinema all'ultima berlinale mette in scena in primissimo piano l'avanzare di una necrosi, dice Roberto Silvestri: "primissimi piani su pelle grigiastra, verruche, peli, cicatrici, rughe, naso che esplode di sangue, ossa che si contraggono, aghi implacabili...".
È la fine del corpo?
|