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L'Emploi du temps
Anno: 2001
Regista: Laurent Cantet;
Autore Recensione: Luca Gennari
Provenienza: Francia;
Data inserimento nel database: 27-10-2001


A TEMPO PIENO

A TEMPO PIENO

Laurent Cantet

 

"Metto in discussione il principio secondo cui il lavoro è un valore che produce realizzazione personale e genera identità: in realtà rende schiavi" (Laurent Cantet).

Occorre partire per una volta dal titolo, non da quello della versione italiana che coglie soltanto un aspetto del problema, ma da quello originale: "L’emploi du temps". Un´espressione di uso corrente che però rimanda ad una stratificazione del senso e ad un´ambiguità di fondo: essa allude al tempo degli impegni professionali e più in generale al modo che ciascuno ha di impiegare il proprio tempo, ma soprattutto suggerisce, anche solo per contiguità lessicale, per assonanza, una sorta di inquietante equivalenza che si è venuta a creare nelle società occidentali tra lavoro (professione, impiego) e tempo. Il lavoro arriva a strutturare l´organizzazione del tempo, a scandire i ritmi della giornata e dunque del vivere: se non si lavora si perde tempo, se si lavora molto si guadagna tempo, il tempo è il lavoro, il lavoro è il tempo. L´impiego definisce anche uno spazio, il posto di lavoro. E infine la professione è una voce importante di tutte le nostre carte di identità. Quando si perde il lavoro, si entra dunque in una sorta di zona grigia, di inquieto limbo in cui si sperimenta uno smarrimento esistenziale che deriva dall´incapacità di strutturare un tempo che ora si percepisce come vuoto e dall´impossibilità di riorganizzarsi secondo ritmi che non si conoscono più; si sperimenta una progressiva perdita di definizione, si scivola nel fuori fuoco (secondo l´intuizione geniale di Woody Allen in Harry a pezzi).

La storia è quella di Vincent (un intenso Aurélien Recoing), consulente finanziario, una moglie e tre figli, un padre e una madre vicini e premurosi. Entriamo in medias res: progressivamente scopriamo che Vincent è stato licenziato dalla ditta in cui lavorava da undici anni e che, invece di dirlo alla moglie, si è inventato una nuova occupazione come funzionario dell´Onu che lo terrebbe occupato per tutta la settimana a Ginevra, ma che in realtà serve soltanto a coprire una situazione ben diversa; egli impiega il suo tempo a viaggiare per cercare di coinvolgere gli amici in fantomatici investimenti.

Il film si ispira alla storia vera di Jean-Claude Romand, che nella seconda metà degli anni novanta condusse per un breve periodo, dopo aver perso il lavoro, una doppia vita che si concluse tragicamente con la strage della propria famiglia. Cantet fa una prima scelta radicale, coraggiosa e decisiva: raffredda il melodramma e soprattutto decide di eliminare tutto ciò che di patologico e di morboso vi era nella vicenda di cronaca. Per il regista francese il suo protagonista non è "né uno schizofrenico né un mitomane: non vuole allontanarsi dalla realtà ma ritrovare una realtà più rispondente alla propria armonia interiore". Così facendo priva lo spettatore di qualsiasi facile scappatoia: non si tratta di un caso clinico, della deriva di un´individualità malata, di una biografia singolare. Vincent è il sintomo di una malattia che riguarda più in generale la società, una società in cui il lavoro, soprattutto nelle classi più alte ("il mondo di cui parlo è quello dei quadri", dice Cantet), diventa misura di ogni cosa, fonte di identità e veicolo di valorizzazione personale.

Dopo il licenziamento, Vincent vaga per strade ed autostrade, mangia in stazioni di servizio, dorme nella sua auto all´interno di parcheggi, sosta nelle sale di aspetto degli hotel: si trova a frequentare i cosiddetti non-luoghi, luoghi privi di radici e di relazioni, in cui l´individuo subisce un processo di spersonalizzazione. Perdita del posto di lavoro uguale a perdita dell´identità e della casa. La famiglia, abituata a riflettersi nel suo lavoro, che garantisce un determinato stile di vita, non può più essere un rifugio (Vincent dirà al figlio, nel disperato dialogo finale, di aver fatto quello che ha fatto solo per cercare di garantire alla famiglia lo standard di vita cui erano abituati). Ma lo smarrimento e la perdita d´identità contengono in potenza il germe della rigenerazione, nel caso specifico la possibilità di riconquistare una dimensione più umana del tempo. In una struggente sequenza iniziale osserviamo Vincent mentre con la sua auto cerca di star dietro ad un treno in corsa. Ed è nello chalet tra la neve, lontano dagli edifici di vetro di Ginevra, dai lavori di casa e dal resto della famiglia (anche dai figli, sì), che Vincent e la moglie trascorrono momenti di vera passione e tenerezza. Nonostante i sensi di colpa e la consapevolezza di dover prima o poi rendere conto di quello che sta facendo, egli sembra trovare nella truffa anche una parte di quell´entusiasmo che aveva perduto nel suo lavoro, sembra recuperare una concretezza perduta: non dimentichiamo che Vincent avrebbe avuto immediatamente la possibilità di accettare uno dei tanti impieghi trovati dal suo ex collega ed amico, ma rifiuta. Non si tratta dunque, come è stato scritto, di un dramma della disoccupazione. Sembra trattarsi piuttosto di una disperata e sotterranea ribellione contro il lavoro.

Non è un caso che Cantet abbia affidato il ruolo del truffatore cui Vincent confessa la sua storia e con cui entra in affari a Serge Livrozet: truffatore anarcoide, ribelle, scrittore di noir, pamphlettista, amico di Sartre e Foucault, frequentatore delle galere francesi, profeta eretico del non-lavoro. Livrozet interpreta il personaggio più simpatico e umano del film, colui che ha l´esperienza e la sensibilità per poter comprendere il dramma e le inquietudini di Vincent. E un ´ribelle´, a suo modo, è l´amico di Vincent che vive una vita modesta e senza pretese in un piccolo appartamento, mantenuto dalla moglie mentre lui si occupa delle faccende di casa e coltiva la passione della musica. Modelli di vita alternativa, sguardi su di un modo di vivere ´altro´ che tenta di sfuggire alla schiavitù del lavoro: spesso osserviamo in soggettiva con Vincent la gente lavorare in quelle che dall´esterno sembrano vere e proprie gabbie, celle di vetro.

Un film contro il lavoro, dunque, e un´inquadratura da mandare a memoria. Dopo essere stato smascherato dalla famiglia, Vincent fugge dalla finestra di casa davanti allo sguardo fisso e inespressivo del figlio maggiore per evitare di incontrare il padre. In soggettiva lo vediamo mentre arresta l´auto uscendo dalla strada e puntando i fari contro la campagna, con la voce della moglie diffusa dal viva voce del telefonino: la macchina da presa resta fissa all´interno dell´auto mentre Vincent scende e lentamente attraversa la zona illuminata dai fari per poi scomparire inghiottito dal nero del cono d´ombra formatosi nell´angolo in alto a destra dell´inquadratura; in primo piano resta la voce disperata della moglie "Ti amo". Dalla percezione soggettiva di Vincent, che ci ha guidato per tutto il film, passiamo senza soluzione di continuità (cinema della crudeltà? Remember Bazin!) alla visione oggettiva del dramma che si consuma sotto i nostri occhi mentre il campo si svuota, Vincent scivola in un fuori campo assoluto, e udiamo il fantasma di una voce off che rimanda a un corpo lontano e assente. Il cono d´ombra in cui scompare Vincent potrebbe essere quello della morte e della follia, del suicidio o della strage famigliare della cronaca. E invece è quello altrettanto terribile della reintegrazione, del ritorno all´ordine, della rinuncia ai propri sogni e alla libertà.

Quello che alcuni hanno preso per un incredibile e conciliante happy end (a Vincent viene affidato un posto di prestigio in un´importante azienda anche grazie al padre che lo ha definito un uomo "molto ambizioso"), in realtà è uno dei finali più disperati che io ricordi: disperato proprio perché privo di catarsi. La follia, per quanto aberrante, è comunque una risposta: il tragico gesto della cronaca possiede la potenza salvifica (per lo spettatore) dell´atto purificatore. Ma Cantet non offre alcuna via d´uscita: stretto, con un lento e quasi impercettibile zoom in avanti, sul primo piano di Vincent, conclude la storia di uno "che ha provato a scrivere la sceneggiatura della propria vita ed ha perso".