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Beau Travail Anno: 1999 Regista: Claire Denis; Autore Recensione: adriano boano Provenienza: Francia; Data inserimento nel database: 25-07-2000
Beau Travail
BEAU TRAVAIL
Regia: Claire Denis – Sceneggiatura: Jean Pol Fargeau – Fotografia: Agnés Godard – Montaggio: Nelly Quettier– Musica: Eran Tzur – Scenografia: Arnaud de Moleron Interpreti: Denis Lavant (Galoup), Michel Subor (Forestier), Grégoire Colin (Sentain) – Francia, 1999. (Miramax)
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“Forse la libertà comincia con il rimorso”.
Ossessione ad ogni livello di una voice over, cui
viene prestato il volto asimmetrico di Denis Lavant, alter ego del regista nei
primi film di Carax; il suo esprimersi in modo corporeo nella corsa sfrenata
del finale di Mauvais Sang deve aver condizionato la sua scelta per un
ruolo che, in una natura da rimanere senza fiato, alterna pose statuarie a
gesti e danze che esprimono disagio scatenando forze psicologicamente
dirompenti. Egli mantiene a distanza un curioso legame con il suo mentore
partecipando ad un film tratto da Hermann Melville, autore da cui è stato
ricavato il soggetto per Pola X Nel titolo inoltre appare
“Beau”, come il vecchio Beau Geste, un riferimento volutamente
inserito perché dal nobile personaggio del vecchio film sui legionari si accentui la
distanza, siderale rispetto a questo rancoroso sergente maggiore della Legione
Straniera.
L’opera di Denis – che in occasione della
presentazione alla berlinale aveva asserito di essere stata attratta dalla
possibilità di indagare un microcosmo per lei misterioso – scandaglia la psiche
di Galoup, combattuto da pulsioni derivanti dal fatto che egli esiste soltanto
in virtù dell'appartenenza alla Legione: dall'inizio gli autori si producono in
un estenuante prologo, dove si affastellano gli elementi che fatalmente
porteranno l'ambiguo personaggio alla perdizione, a cominciare dalla tradizione
del corpo militare (inni, chepì, serie di particolari dei volti in libera
uscita senza soluzione di continuità scrutati nei movimenti della sala da
ballo, cameratismo virile – i commilitoni portati in trionfo nella luce
azzurrognola del mattino – e qualche dubbio di attrazione omosessuale) espressa
attraverso i muscolosi corpi impegnati in plastici esercizi, in percorsi di
guerra affrontati con risolutezza pari soltanto alla inutile insensatezza delle
prove. Gli sguardi confrontano proprie pulsioni e realtà seguendo fili
invisibili sperimentati in molteplici registri: occhi che scrutano i volti, che
analizzano gli animi, che sostengono sfide; soggettive a distanza su gruppi e
dinamiche collettive; perlustrazione di animi che si consumano nella brace
delle sigarette nelle notti trascorse di corvée alla ricerca della vaga minaccia rappresentata dalla presenza della nuova recluta, Sentain, ben voluto da tutti ed encomiato dal comandante, Bruno
Forestier.
Sono queste tre figure a intrecciare un'autentica
tragedia greca sulle rive del Mar Rosso, teatro del destino che estrometterà
Galoup dal suo mondo, dal suo grado, dalla sua missione di custode di una
realtà perduta – e quindi la sua esclusione dal mondo tout court – e perderà
Sentain nel deserto (l'ultima immagine di lui restituisce la salvezza al suo
corpo riarso dal sole e dal sale, ma il suo animo esala una sola parola:
“Perdu”), lasciando la inafferrabile figura del comandante a
languire, icona svuotata del mito costantemente riempita con le proiezioni dei
suoi bastardi, “che sono bravi ragazzi”.
"L'essenza della tradizione" promulga il
flusso di coscienza di Galoup che ci accompagna nel momento in cui si
completano le situazioni mirate a sintetizzare la routine immutabile,
rassicurante e inquietante allo stesso tempo ed è proprio questo il terreno in
cui il film intende scandagliare le motivazioni del disagio del sergente
maggiore, che agirà per salvaguardare le sue certezze, la sua ammirazione
esclusiva – ed inspiegabile – per il comandante, di cui riconosce l'assenza di
ideali e di ambizioni; la tradizione è il motivo centrale della lunga
introduzione, che nel primo quarto d'ora infila tutti gli elementi attorno al
bisogno di aggrapparsi a rituali il cui senso si è perduto con la fine del
colonialismo, sottolineata alla fine del prologo dal breve dialogo delle donne
di Gibuti che dissertano sulla autoctona tradizione relativa ai disegni dei
tappeti, che vanno costituiti con tredici strisce. Il loro intervento
apparentemente slegato ha lo stesso valore delle estemporanee inquadrature di
donne che assistono divertite agli assurdi gesti dei legionari, spettatrici di
un mondo parallelo estraneo alle loro esercitazioni che contrastano con
l'ambiente: fungono da paradigma del reale rispetto al mondo di antico eroismo
coloniale (“valore e onore” recita il motto) evocato dalla Legione.
L'incipit si chiude ad anello come a sottolineare la sua natura di cornice,
tornando nel locale da cui si era acceso lo schermo con il bacio del brano raï
avviato da Rahel in primissimo piano, dando inizio alla rassegna di particolari
di volti e corpi che la danza africana avvolge e confonde in un'unica amalgama,
anticipando lo scatenato ballo finale in cui Lavant danza The Rythm of
the Night con i gesti che conosce: quelli dei percorsi di guerra e della
ginnastica quasi mistica nel sole del Corno d'Africa camuffati nella rabbia da
passi di danza.
Il resto della pellicola si dipana poi tra incombenze
quotidiane e la duplice ossessione: da un lato per la ragazza – Rahel appare
spesso ad interrompere lo stream of consciousness dell'io narrante –, ella
rappresenta l'Africa e il suo enigma, e dall'altro si rinfocola l'ossessione
per il giovane che minaccia il ruolo di Galoup, ma ancora prima ne mina le
certezze. Quelle relative al nulla esistenziale in cui si rifugiano i
legionari. Ciascuno ha un motivo per fuggire alla propria vita precedente,
“perdendosi” nel nulla della fatica priva di senso e di ideali (il
soldato russo sorprendentemente afferma che non è possibile combattere per un'idea); tutti, tranne Sentain, che a causa di questa sua peculiarità non è
incasellabile nonostante il suo irreprensibile comportamento, anzi proprio per
questo ancora più sospetto agli occhi dell'esacerbato sergente. La quotidianità
si trascina tra esercizi, lavori (la strada da ripristinare è solo un pretesto
per tenere distante Sentain da Forestier, il comandante che ha preso a ben
volerlo) e corvée: tutto con lo stesso valore; il percorso di guerra con le
funi lascia l'inquadratura ai panni stesi del bucato, dove viene lavata via
anche la lingua della recluta, che acquisisce l'idioma francese. Quello
linguistico è un altro aspetto curatissimo nel film che, soffocando il resto
delle espressioni, ammanta col francese la babele che affiora ogni tanto nelle
espressioni in italiano, slavo, africano, come se si trattasse di frammenti
affioranti dal mondo che sfiora la Legione, ma non la condiziona, né viene
intaccato da essa. Un mondo a parte, in questo simile a quello che la regista
aveva già descritto in Chocolat, nuovamente un film sulla persistenza di
residuali espressioni di colonialismo classico in Africa.
È al momento dell'incidente con l'elicottero che
causa la morte di un corso e sancisce l'eroismo di Sentain che Galoup comincia
a pensare alla fine, proprio nel momento in cui la decadenza sembra
lontanissima e il compagno di biliardo gli dice: “Sei una roccia,
l'epitome della Legione”. È un altro momento topico che si avvale della
cornice e della fotografia di un luogo incantevole. Il lungo mare ospita una
sfilata di tombe anonime imbiancate dal sole e le riflessioni del sergente si perdono
come un presagio sui bagliori del sole sul mare, mentre le parole di encomio
del comandante verso il rivale fanno irritare sempre più il protagonista che da
quel momento scarica una serie di vessazioni sulla truppa: le flessioni sulle
braccia assumono ritmi sempre più incalzanti e quella accelerazione si trasmette
a tutto l'impianto del film, incrementando la sua personale battaglia con se
stesso e affermando la propria autorevolezza sul rivale Galoup risulta spinto
da un destino irrimediabile verso la propria fine, di cui è consapevole
spettatrice Rahel, spesso ripresa, muta figura, che guarda in macchina,
facendoci immedesimare con Galoup; un meccanismo utile per cercare di capire
quel mondo di uomini “perduti”, che vanno in crisi, chiedendosi cosa
rimane di tutte quelle immagini di Africa. Forse soltanto l'inquietudine dei
racconti degli spiriti del deserto nella sperimentata commistione di realtà
limpida della luce del sole e di suoni notturni nei toni di una tragedia greca,
accentuati dalle punizioni atroci accompagnate da musiche titaniche, che
commentano i momenti più drammatici, come lo scavo della buca al sole come
punizione di Kombé per aver abbandonato il posto, dovendo pregare durante il
ramadan, e come l’impazzimento della bussola di Sentain, ritrovato moribondo
solo da una carovana di beduini, dopo l'allontanamento dal battaglione con il pretesto di aver tentato di alleviare la punizione di Kombé, abbandonato da solo nel deserto, motivo per la cacciata anche di Galoup nel momento in cui si comincia a pensare che Sentain non abbia potuto sopravvivere.
Da antologia la sequenza del duello senza alcun
contatto fisico che si apre con i due rivali a dorso nudo, novelli eroi omerici
disposti come in un'arena circolare che inquadrati in campo lungo prendono a
girare in tondo, guardandosi con sfida implicita, fino a costituire una spirale
che si conclude con uno stacco dal lento movimento di avvicinamento dei duellanti, cui si sovrappone
una impercettibile zoomata per passare a un'alternanza delle soggettive dei
due, che seguendo il loro incalzante ritmo di aggiramento creano la vertigine
con la costante accelerazione derivante dalla sensazione di inseguimento che
proviene dal sempre più frequente stacco dall'uno all'altro, fino al momento
del contatto; che non avviene.
L’arcano che consente ai legionari di sostenere
quell’apparato di regole che li relega in un passato anacronistico rimane sotto
gli occhi di tutti per l’intero film: leggibile finalmente nell’inquadratura parigina,
dove Galoup si rifugia una volta espulso dal misterioso esercito francese in
Africa, nel suo tatuaggio si coglie un motivo che poteva aver accompagnato la
sua militanza e che può gettare una luce sulla abnegazione che fa rinunciare a
tutto per sparire nella Legione Straniera, scelta come appiglio per dare un
senso alla propria vita. “Servi la giusta causa e muori” ordina il tatuaggio e
Galoup l’aveva individuata nella tradizione stessa che permea la giornata del
legionario, per quanto insensata, ridicola, anacronistica.
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