Quello transalpino è un cinema vivace che nel bene e nel male si sforza di dare forma alle contraddizioni che percorrono questo travagliato scorcio epocale senza idee, ma ugualmente pieno di tensioni.
Forse in virtù di una società multirazziale, accomunata da lingua e percorsi culturali comuni da decenni, dove il cinema sguazza a suo agio (a parte i compiacimenti provinciali di Dumont), avvalendosi della componente beur e pied noir, commistionandola nei lavori sempre anti-nazisti - ed in questa chiave coerenti - di Kassovitz. Ecco il cinema francese, malgré Nice (a proposito della quale rinverdiscono le denuncie sarcastiche di Vigo con altre componenti squisitamente anarchiche dei documenti filmati nelle reti indipendenti), conferma la tradizione "resistente" di quella nazione di maquis, a lungo tramandata dai lavori di Signoret, Gabin... Lacombe Lucien, Le Petit Soldat (esempi di rimeditazione della propria storia di ordinario fascismo inconsapevole)... Arrivederci Ragazzi.
Forse si avverte una maggiore attenzione alle proprie radici: il populismo degli anni del fronte popolare (i retaggi di Zola presenti in Grémillon, dileggiato da Buñuel) si è trasformato in Guédiguian o - persino peggio - in Cantet o nell'inaccettabile Veysset, o, meglio, in Rosetta; mentre Tavernier si è trasformato in una serie di cloni di se stesso che accozzando una serie di tematiche tutte insieme, costringendo lo spettatore a una faticosa cavalcata.
Il "realismo" dell'amato Renoir, filtrato dalla grande epoca della nouvelle vague, ha prodotto i molti rivoli che spingono ancora oggi in molteplici direzioni: il metalinguaggio del cinema dei critici (Bonitzer, Assayas), l'autoindulgenza di Leconte, i ritratti femminili di La vie revée des anges, o piè coraggiosamente estetizzati (esageratamente) in Romance di Breillat o nel laido (nel punkeggiante senso buono del termine) Baise moi, che forse risente della adozione di Parigi come patria del padre della blaxploitation Melvin van Peebles.
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Episodi che si inseriscono in una sequela di giovani come Jean Toussaint, Benoit Jacquot, Laetitia Masson o Dominique Deleuze che acerbamente propongono idee innovative, magari non capolavori, ma situazioni e idioletti non rivoluzionari, ma "di ricerca" (di cosa? si scoprirà quando finalmente "troveranno"), che trova spunti in isole emerse di senso come i film di Jeunet e Caro.
Il periodo d'oro prosegue anche con i
suoi maestri superstiti (nei giorni scorsi ci è
stato sottratto un paradigma per tutti Gerard Blain, il ribelle dei primi film di Truffaut,
durante i tributi ad un altro mito del cinema francese, additato
anche da Godard come faro a cui guardare: Becker, morto 40 anni fa,
ricordato ora, a un anno dalla gravissima perdita di uno dei
massimi autori del cinema di tutti i tempi,
Bresson): l'atteggiamento anti-borghese di Chabrol
sembra persino sconcio in un periodo in cui è
addirittura un complimento dare del "borghese" alla
massa di imbecilli neo-liberisti che ha occupato
il mondo; Resnais perpetua la sua maniera in
eterno; Godard invece rimane perpetuamente censurato
dalla distribuzione.
Una cinematografia che investe in Europa, producendo grandi successi (Train de Vie), miete condizionamenti esiziali in Africa, proseguendo in certi sguardi l'opera coloniale bruscamente interrotti dalle stagioni di Lumumba e Sankara, anche collazionando buoni prodotti come Beau Travail, si insinua subdolamente nel tessuto mitopoietico dell'Indocina (Himalaya), rielaborando miti locali letti con occhio francese, oppure rispettosi come Ocelot. Consente cittadinanze ad autori come Ruiz (il suo Proust è persino più francese del vecchio Celeste) e le nega ai sans papiers difesi dalle sue attrici piè belle e brave.
Purtroppo si lancia anche in produzioni kolossal malriuscite (Besson), ma costruite da autori che hanno comunque segnato mondialmente la forma cinema: tra Nikita e Il quinto elemento c'è pur sempre Leon, creato da uno che esordì con Subway, pur finendo miseramente con Jeanne d'Arc.
La pochade e il vaudeville nazionali si adattano alle nevrosi e inventano situazioni linguistiche seducenti come nel Pranzo di Natale, per continuare una tradizione rinnovandola dall'interno, forse una scelta debitrice dei racconti di Rohmer, emigrato in campagna, ma sempre coerente con la sua weltanschauung minimale di stampo europeo. Anzi, parigino comunque: anche al mare o in campagna d'autunno.
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