Reporter

NearDark - Database di recensioni

Africa

Godard Tracker


Tutte le
Rubriche

Chi siamo


Cerca nel sito


Iscriviti alla nostra mailing-list: inserisci qui sotto il tuo indirizzo e-mail

Reporter
reportage da festival ed eventi, interviste e incontri
<<< torna al sommario
Torino Film Festival - 2008

Torino Film Festival 2008

Una bella edizione con film in concorso sufficienti (tutt'altra storia rispetto ai tempi di D'Agnolo-Turigliatto, quando si aveva la quasi certezza di assistere a solenni porcate noiosissime), tre splendide rassegne (Melville, Polanski, Oguri), ottimi fuori concorso e rigorosi documentari.
Ma non solo per questo avremmo voluto invitare Giovanni Moretti detto Nanni a rimanere alla guida del Festival, visto che si trattava di un'occupazione in cui pareva versato e che soprattutto in questo modo non avrebbe realizzato nuovi film...

Invece oggi, 19 dicembre, siamo stati raggiunti da una comunicazione ufficiale che confermava come direttore dal 10 dicembre Amelio Gianni, servo delle peggiori banalità di regime nei primi anni Ottanta e poi sempre perso dietro storie retoriche, banali, superficiali nell'analisi, televisive nella fattura, sempre pronte a confermare i luoghi comuni più vacui su temi generalissimi come la migrazione o il lavoro specializzato; e l'interessato ha purtroppo tenuto a sottolineare che lui non interromperà la realizzazione di pellicole inutili.
La città ha già purtroppo avuto a che fare con questo sperperatore di denaro pubblico, con questa prima donna irosa e prepotente... inoltre si dovrà tenere conto del fatto che occuperà militarmente ogni settore del festival infarcendolo di truppe romane (proprio come per il teatro stabile ha fatto Martone, magari era meno dispendioso dare l'interim al direttore dello Stabile)

Torino Film Festival - 2008

Jean Pierre Melville

Bello pensare che questi cinquant'anni si possano mettere tra parentesi e ci si possa immergere nella Parigi perduta fatta di auto superate dal design successivo, di piazze e stradine collocate in uno spazio cinematografico bianco e nero, che situava già allora Montmartre a metà tra polar francese e noir americano. Un rapporto tra Francia e Usa che ha condizionato il pensiero filosofico e estetico di questi cinquant'anni.
La rassegna su Polanski (che del rapporto con gli Usa ha fatto un antagonismo provocatorio al punto da doverne fuggire, esaltando il conflitto con le pulsioni bacchettone di quella terra di padri fondatori) va a incidere su un immaginario più frequentato dalla generazione cinefila di 40-50enni; Melville, meno proposto in rassegne complete, invece precorre la Nouvelle Vague mentre coccola ancora le atmosfere che stavano per perdersi in quell'esordio di anni Sessanta, foriero di cambiamenti assimilabili a quelli che paiono aspettarci di qui a poco, per questo meglio dell'orrido logo di quest'anno, ci sembra giusto collocare un'immagine tratta da Melville a copertina di queste lampisterie dal Festival, seconda edizione morettiana

Melville, o dell'ambiguità

senza ritorno

I. Nemesi. Interessante da vedere a Torino, città ex Fiat, mentre GM sta per fallire e l'era dell'auto sembra... finire nelle ultime sequenze di Highway World. Living, changing, growing di Hans Martin Schmitt: prolungato percorso autostradale che appiattisce tutte le epoche automobilistiche (e dunque modelli, e modalità di guida, ma soprattutto di affrontare la strada, profondamente diversi) in un'unica corsa... verso la distruzione del pianeta, dove ci conduce il luccichio del prodotto, fascinazione derivante dallo stordimento che nel film talvolta traspare nell'ammirazione dei manufatti dell'era automobilistica, anche con vedute aeree di svincoli che sembrano fiori velenosi prodotti per reinterpretare il paesaggio in chiave motoristica.
Un po' quello che capita al mondo degli indiani di The Exiles: l'unico assunto del noioso film del 1961 (che rimane certamente un documento, ma bastano cinque minuti di visione per farsi un'idea del documento) è che gli indiani estratti dalla cultura che per loro era natura, degeneravano... famoso e forse ormai un po' risaputo. Soprattutto per lo squallore del paesaggio americano, che in questo festival spesso viene rappresentato come vacuo, cme in Parade.

II. Bildungs. Solito trita operina adolescenziale con tutto il repertorio che fa dire a un giovane intento a seguire la sua iniziazione all'età adulta che nulla sarà più come prima... la differenza sta nello Utah nel film Parade di Brandon Cahoon. Quello che è soffocante è il mondo, il paesaggio tutto uguale e vuoto, ma non c'è il vuoto estetizzante del deserto autentico, no lì nello Utah non ci sono idee, non ci sono scopi o attrazioni, se non la spiaggia. Il rapporto con la natura pare sano e invece è frutto della propria volontà che sia così. Fino a che lo stesso luogo spinge ad andarsene con zaino in spalla verso luoghi più stimolanti.

III. Vessazione. Come al solito potente e poetica dimostrazione da parte delle intelligenze migliori della terra compresa tra il Giordano e il mare che la prepotenza delle istituzioni dello stato ex laico di Israele si accanisce con ottusità sulla popolazione palestinese, ma in questo caso non è l'intera comuntè, ma una vedova e il suo frutteto: simbolo di tradizione culturale, radici, e dall'altro lato segno di speranza per il futuro (una dicotomia che ha percorso questo festival a testimoniare un momento di passaggio epocale che coinvolge il mondo, proiettato verso un'incognita da affrontare senza dimenticare il passato). Eran Riklis, ebreo autore della Sposa siriana, riesce a raffigurare in Etz Limon la sofferenza del popolo palestinese in toto (le immagini del Muro) con quella gratuita e terribile - e realmente accaduta! - somministrata a una donna (strazianti le umiliazioni sopportate con dignità dalla donna, sola in mezzo al suo frutteto ereditato dal padre e recintato, requisito, espropriato e potato dall'occupante). Una guerra di muri, reticolati, inettitudine da checkpoint e... muri di carte che formano un'iniqua "giustizia" fondata sull'apartheid delle "recenti leggi sull'Intifada"; che chiudono i territori attorno a Kalkilya e Ramallah, ma li aprono alla sezione che abbiamo dedicato a tre passi tra le guerre".



tre passi tra le guerre

Torino Film Festival - 2008
Torino Film Festival - 2008
Torino Film Festival - 2008

La guerra càpita ex post nel festival, non si trova narrata nella sua epica bellicista, ma risulta insostenibile dal momento in cui viene dichiarata finita ("mission accomplished" dicono gli inetti) al punto da scatenare suicidi a distanza di tempo (come quello di Primo Levi): l'eredità che lascia è terribile per i sopravvissuti, forse più che per le vittime dirette. Le tre guerre sono in ordine cronologico: la II guerra mondiale (ma vista dal Giappone era iniziata già in Manciuria) di un genio della cinematografia misconosciuto in Italia come Oguri e quella di un racconto di largo respiro, mozzato dalle sequenze anche d'archivio, come il massacro dei polacchi narrato da un maestro - un po' retorico, ma di notevole professionalità - come Wajda: e poi la mattanza bosniaca narrata con grande coinvolgimento da Gaglianone.
I. Non ritorno (non sopravvissuti). Nel 1956 Oigoru aveva dieci anni, come il suo protagonista, e il padre nel film non è riuscito a tornare dal fronte dove ha visto morire quelli che condividevano con lui quella sorte, ma soprattutto la guerra - sempre! - porta rivolgimenti che impediscono il reintegro di chi non ha la flessibilità e la preparazione per adattarsi al nuovo mondo che ne scaturisce... come il primo ricordo del ragazzino: il carrettiere di

1. Doro no kawa di Oguri Kohei (1981)

II. Non ritorno (massacrati). Geniale intreccio di figure a tutto tondo che gravitano attorno a due ufficiali polacchi massacrati dai sovietici il 10 aprile 1940 a Katyn. Far convergere la narrazione sul momento drammaticamente più emozionante attraverso serie di microstorie e allusioni precise a Antigone serve a creare un'epopea, una storia collettiva... una nazione. E l'operazione riesce bene incentrandola su un taccuino, che inchioda alle proprie responsabilità i totalitarismi novecenteschi, cominciando con il ponte iniziale che intrappola i polacchi fuggiaschi e le sequenze dei film che manipolano la realtà da un lato e dall'altro con le stesse espressioni. Ma lo sguardo più determinato e consapevole rimane quello di una donna, la moglie del generale, che non si piega ai nazi e neanche ai sovietici; uguale allo sguardo della sorella del pilota che... "non sono riusciti i nazi in 5 anni, vuole riuscirci lei in 5 minuti?"

2. Katyn di Andreij Wajda (2008)

III. Non ritorno (al sodalizio interetnico). Bosnia... la ferita è recente e diventa difficile comporla (in ogni senso del verbo). L'unica soluzione è far parlare i "feriti", quelli che si sentono ancora jugoslavi, quelli che non possono più parlare e vivere con i loro amici, trasformatisi in invasati intolleranti. Un coro greco, anzi jugoslavo più che bosniaco: ogni punto di vista è rappresentato, e lungamente, anche con parti che in genere si giudicano inessenziali e quindi vengono tagliate e invece Daniele in questo caso giustamente le lascia scorrere a completare l'umanità di questi vinti dalla guerra; si comincia seguendoli, poi si bloccano gli occhi a tutto schermo e inizia la loro affabulazione, poi, dopo che si è scoperta la loro storia... si scopre anche la loro fisionomia e lo sguardo rivolto alle spalle di

3. Rata neće biti (non ci sarà la guerra) di Daniele Gaglianone (2008)

Latinamerica

Torino Film Festival - 2008
Torino Film Festival - 2008
Torino Film Festival - 2008

I. Morte nel quotidiano. Aleggia come presenza, anzi come assenza, nell'assolato paesaggio piatto nello Yucatan: l'assenza di un punto di riferimento di fronte a un evento (probabilmente scatenato da lei, da quella morte rivelata solo dopo i pellegrinaggi per un paese sonnacchioso popolato di personaggi al limite del surreale), che si propone proprio come incidente, metafora insieme ai fotogrammi al nero del lutto che riemerge lungo tutto il deambulare sospeso dall'auto contro il palo in poi di

1. Lake Tahoe di Fernando Eimbcke (2008)

II. Morte violenta e gratuita del pinochetismo. Affresco di un'epoca affidato al comportamento iracondo e bestiale, fallocrate e maniacale, di un ballerino di infima qualità con l'ossessione di essere il Tony Manero cileno nel 1978, nel momento in cui sta uscendo Grease (e lui è ancora a Saturday Night Fever. Perpetra omicidi assurdi, vessa i componenti del suo microcosmo, sempre senza appalesare emozioni, impotente sessualmente ma stupratore delle persone attorno a lui, pronto fino alla sconfitta televisivva finale - e anche oltre - a uccidere per futili motivi... proprio come Pinochet

2. Tony Manero di Pablo Larraín (2008)

III. Natura morta... ancora in vita. Ci sono due aspetti nel film che sono divisi e mai compresenti: i raccconti dei pescatori (dove addirittura la vita che ne sgorga riesce a vedere unite due nazioni ostili come Mauritania e Senegal che vedono i loro uomini collaborare in battute di pesca) e la mattanza di pesci scaricati a fiotti argentei nelle casse del titolo, a popolare lo schermo di vita che fugge e viene ingabbiata, soffocando ogni guizzo, che viene congelato dall'immagine... insieme al sale sparso sui pesci ancora disperatamente vivi e già morti di

3. Caja cerrada di Martín Solá (2008)


Recensioni

Donne moi la main di Pascal-Alex Vincent