Editoriale

NearDark - Database di recensioni

Africa

Godard Tracker


Tutte le
Rubriche

Chi siamo


Cerca nel sito

Editoriale

1° Gennaio 2009
Tornando a parlare di fascismo: etnocentrismo, apartheid e Muri


Etz limon
Il giardino dei limoni

di Eran Riklis


"E leggerò sui vostri giornali, domani, che è impossibile qualsiasi processo di pace, gli israeliani, purtroppo, non hanno qualcuno con cui parlare. E effettivamente - e ma come potrebbero mai averlo, trincerati dietro otto metri di cemento di Muro?"
(Mustafà Barghouti, Ramallah, 27 dicembre 2008, raccolto da Francesca Paci per "Peacereporter", 29 dicembre 2008)

"Ho impegni di lavoro urgenti e nei giorni scorsi non sono riuscito a scrivere di questo splendido film mostrato al festival: ho sempre procrastinato perché il nostro sito non vive sulla notizia, anzi cerca di meditare il più possibile; dunque le consegne di lavori che consentono di sopravvivere talvolta fanno slittare interventi che si hanno in punta di dita per alcuni giorni e si guarda febbrili all'orologio per trovare il tempo di buttarsi su una tastiera e scaricarci sopra la passione morale che si è ricavata dalla visione di simili essenziali montaggi di storie. Ma è sbagliato anteporre qualsiasi impegno quando l'emergenza viene da un genocidio: non posso più privilegiare il lavoro mentre da liste e notiziari provengono sollecitazioni e denunce, sarebbe vigliaccheria, tradimento; diserzione. Come se, abitando nei dintorni di Auschwitz, non si volesse vedere il fumo acre".
Così iniziavo una recensione di un film di Mai Masri (Alham al Manfa) ben sette anni fa... nulla è cambiato, anzi: ora le incursioni israeliane sono spudoratamente mirate a massacrare senza tanti complimenti e senza preoccuparsi di un'inesistente Diritto internazionale (venticinque anni di reaganismo, e gli ultimi otto in particolare, hanno fatto strame di ogni possibile intervento della società "civile"). Ecco perché nonostante il tempo sia tiranno, provo urgenza di parlare di un film visto al Torino Film Festival e di cui ho sempre procrastinato l'analisi.

La geniale accoppiata di La sposa siriana si ricompone: lui, Eran Riklis, ebreo cresciuto a Londra e pluripremiato in Israele, pur se antimilitarista (come denuncia il suo Cup final, interpretato anche dal sommo Mohammed Bakri) e lei palestinese della diaspora, disponibile a incarnare donne arabe siriane alle prese con confini, tunisine ai limiti della decenza per quella cultura maschilista, quando si appropria della sua fisicità di donna (Satin rouge), messa in forse anche dalla gretta mentalità della comunità palestinese islamizzata a forza; donne algerine ai margini della metropoli parigina poco prima dell'indipendenza (Vivre au paradis) e di nuovo madre palestine che viveva a Damasco e si rifugia in America con il figlio nel recentissimo L'ospite inatteso, dove decide di tornare in Siria anche se rischia la vita per seguire il figlio rimpatriato.
Lilia Hiam-Abbas qui torna a essere palestinese in Palestina, una condizione che travalica nazionalismi e confini marcati da conflitti (con espansionismi tollerati da compiacenti potenze mondiali), rivendicazioni (ridicolmente bibliche, se non fossero invasati potenti i coloni), muri... proprio il risultato tangibilmente cementificato e ancora più pesante nella "leggera" allusività del motivo del film con quel muro a occupare tutto lo schermo alla fine.

Un tratto apparentemente contraddittorio sorge quando si pensa che Bondi in Italia censura Stella (unico aggettivo adatto al ministro italiano è: "imbecille") e Israele sovvenziona questo palese atto di denuncia dello stato di sospensione dei diritti civili in quella nazione mediorientale: lo stupore può rientrare se si pensa che Riklis è ebreo a tutti gli effetti matrilineari, quindi cittadino di serie A, con tutti i diritti dati dall'etnocrazia israeliana (e quindi in grado di esprimere il suo dissenso), capace di inventare tante caste quante sono le variabili dei suoi cittadini, mentre il suo attore Mohammed Bakri viene trascinato in tribunale e rovinato economicamente per una squallida trappola ordita e resa possibile per il fatto che lui è un cittadino di serie minore, in quanto palestinese (ancorché miglior attore di passaporto israeliano in assoluto) e perché ha osato documentare il massacro di Jenin, reso dubbio con una testimonianza di un militare israeliano che cavillava su un'affermazione di un medico intervistato da Bakri nel suo film. Solo al presidio torinese del 31 dicembre 2008 davanti alla Rai - di cui Linguetta-Gianfranco Bianco, squallido figuro del giornalismo locale insieme a Massimo Numa e Beppe Fossati, si è guardato bene dal riferirne (preferendo bollettini della neve della sua provincia cuneese) - c'erano quattro tipologie (e dignità) diverse di cittadini palestinesi: uno della diaspora del 1948, con cittadinanza israeliana e diritto di voto, ma senza le possibilità di movimenti di altri israeliani; uno della diaspora del 1967, con genitori che abitano a Kalkilya, ma che lui non ha potuto vedere l'ultima volta che ha tentato di raggiungerli, nonostante fossero nello stesso aeroporto dove era atterrato... e rispedito in Italia dove vive e lavora da ingegnere immediatamente e senza motivo ufficiale; un altro, sposato con italiana, e salvato dal cpt israeliano una volta arrivato a un checkpoint verso la casa dei suoi avi, solo per l'intervento del console italiano (incarcerato per due giorni senza motivo); ragazzi nati già in Italia, che possono solo sventolare bandiere palestinesi... e questo solo per quanto riguarda i palestinesi della diaspora (in diaspora come il figlio di Selma Zidane, la protagonista del film di Riklis, ormai integrato a New York, che quindi non pensa più a difendere la presenza araba in Palestina: distrutto ogni vincolo con quel frutteto, che la invita a raggiungerlo), poi ci sono le infinite tipologie di cittadini di infime serie dal punto di vista del Diritto israeliano.
Quello stesso Diritto che nel film apparentemente concede pari opportunità alla vedova che difende il suo territorio dalla prepotenza del Mossad, le stesse concesse al ministro della difesa, il quale protegge il suo territorio che presume sotto tiro di improbabili terroristi con metodi spropositati... in realtà, come si vede persino nel film (non certo radicale nei suoi giudizi), le distorsioni del Diritto sono tali da creare uno specchio dello scacco in cui la strategia confessionale dello stato ebraico (non più laico e tantomeno democratico) ha infitto la zona: una soluzione che rende prigionieri tutti, gli uni delle loro paure e - quel che è peggio - gli altri alla mercé della diffidenza dell'ingordo vicino.


Il nucleo del film mette a nudo, senza farsi accorgere, il fulcro della contesa: quello che entrambi i contendenti vanno rinfocolando da decenni pur di mantenere il controllo sui rispettivi sudditi: la paura, quella psicologica, che non è reale, ma lo diventa una volta che viene manipolata sapientemente... e allora bombardare ospedali, massacrare 360 persone in 3 giorni non fa più orrore, se si vede solo l'altro orrore di tre morti (che pesano di più, perché il "nemico" non è umano) in due giorni con razzi di cartone qassam: una proporzione di 120 contro uno... dodici volte il rapporto applicato dai nazi alle Fosse ardeatine! (ma la comunità internazionale prende per buona l'arrogante pervicacia del più forte).

Ecco, la parola che fornisce la chiave: sproporzione. L'abbiamo già usata poco sopra... e ricompare a suggello dell'intero film: la sproporzione della reazione non può che rimandare alla nevrastenia di entrambi i contendenti, impegnati non a caso a difendere diritti, modi di pensare e imposizioni coraniche, quando sono i più aggiornati, altrimenti si scivola nella superstizione biblica che muove ormai la maggioranza dei giochi della infinita (e assassina) campagna elettorale israeliana.



Ma quella paura che scorre lungo tutto il film, emerge ogni tanto nella tensione dell'aula, nella violenza non vista dei rumori notturni e della devastazione della casa, e dall'altro lato delle serrande che si chiudono lasciando al buio le menti già ottenebrate dall'orrore proiettate all'esterno, dei fili spinati e torri di guardia (surrealmente controllate da "Freccia", un deprivato preda del quiz attitudinale, dove attitudini non sono richieste, l'unico ad avere un atteggiamento umano con Selma, da quella parte della recinzione)... quella violenza diventa assurda soprattutto perché si mostra il suo contraltare: il legame non con un'astrazione come Eretz Israel, ma con un pezzo di terra a misura d'uomo che dà sussistenza, che si è imparato dai vecchi e con i vecchi a coltivare e amare, che dà frutti unici. Un valido motivo per lottare, altro che le astrusità bibliche o la sopraffazione di chi fonda la sua economia sul fatto di essere il cane da guardia occidentale in un territorio altrui.
Emerge l'urgenza di spostare il punto di vista dal nazionalismo, dalle - anche giuste - rivendicazioni politiche dei palestinesi, per collocare i loro bisogni nella realtà quotidiana di una donna che si trova improvvisamente a dover fronteggiare da un giorno all'altro una imposizione assurda, un'intrusione radicale nella sua esistenza, come quella subita dalla signora al-Kurd illegittimamente scacciata dalla sua casa occupata da coloni e trasferitasi indomita in una tenda a ridosso della sua casa di Gerusalemme est. Ecco, spostare quel punto di vista sul diritto inconfutabile dei singoli rende tutto più umano e evidente.
E contemporaneamente il regista israeliano riesce nell'intento di rendere la sineddoche per cui quell'agrumeto è metafora di tutti gli agrumeti palestinesi sradicati, quella cascina è l'idea di tutte le case abbattute dalla protervia israeliana; quel muro è emblema di tutti gli orridi muri che mente perversa di scrittore "democratico" sionista possa inventare. Lo sappiamo che Yeoshua inorridisce di fronte alla definizione di "sionista" nei suoi confronti, ma tant'è: quel Muro, da lui richiesto e dal vegetale Sharon costruito con manovalanza affamata d'importazione, è un tassello del progetto di Bantustan monoculturali in cui rinchiudere le altre realtà della zona non sioniste in ministaterelli di indigenti disperati, disseminati a surrogare la economia israeliana con lavoro a basso costo e consumi di prodotti con la stella di David - siano bombe o alimenti, il motivo è lo stesso: sostenere un'economia di guerra. Un apartheid fondato sullo strapotere innanzitutto psicologico (nel senso che è inculcato nelle giovani menti dalla scuola militarizzata e da quel sistema giornalistico ben raccontato nel film) che Tzahal ha in territorio israeliano: basta uno sguardo di un cretino del Mossad per recintare acri di terreno e rovinare la vita secolare della "testarda" famiglia Zidane.



Quello che si evidenzia nel film è dove sta la ragione da un lato e dall'altro dove sia la prepotenza. La sopraffazione... ed è questo il percorso che fa la moglie del ministro - che nell'episodio della realtà è proprio il criminale di guerra che ha ordinato questa ennesima carneficina di palestinesi, il ministro della difesa Barak, l'assassino che per calcoli elettorali ha ordinato a Tzahal, quell'istituzione sacra per ogni israeliano dalla culla alla tomba (come ci ha spiegato Sivan), di perpetrare uno scempio, forse temendo che la nuova amministrazione americana non gli consenta in seguito l'impunità di fronte a questi crimini, o forse più probabilmente proprio per rivendicare quella medesima impunità anche per i prossimi quattro anni. La donna non solidarizza a partire da una simpatia di genere: non è la solidarietà femminile a spingerla a manifestare il suo appoggio pubblicamente, ma è il fatto che indovina le radici di quella cultura e comincia a rispettarla: quello manca essenzialmente ai trucidi israeliani, il rispetto per i palestinesi, la supponenza e l'arroganza li rendono ottusi e assassini. Lo si nota anche dal disagio che Mira maschera durante la festa di inaugurazione della casa, punto del racconto in cui il ridicolo è il re di quei cinquantenni danzanti e cantanti, di musiche palestinesi non comprese da chi le ascolta - e ascoltate da Ziad e Selma a distanza -, in cui il suo sguardo inquieto verso il giardino ancora per poco rigoglioso chiedendosi quanto davvero quelle fronde possano mai nascondere dei pericoli è sospeso a metà tra il senso di colpa, la curiosità, il rispetto e la paura. Peraltro è vero che le uniche a capire di cosa si tratta sono la moglie dell'insensibile politico e la giornalista. Quest'ultima probabilmente fa lo scoop senza essere troppo coinvolta dalla disgrazia della vedova palestinese... non si direbbe che il regista abbia simpatia per la stampa: infatti ogni episodio è punteggiato dall'invadenza della stampa, che orienta alla spettacolarizzazione sempre e dovunque, creando il caso, ma distorcendolo sempre e comunque sulla base di quello che si suppone essere il desiderio dell'israeliano qualunque; un tratto che la critica italiana non ha colto - per quel che ne so - probabilmente per assuefazione. Come insegna l'inettitudine di Garfagna e Gelmini, però la solidarietà femminile non è universale: la squinzia scosciata che il ministro si porta sempre dietro non ha certo alcun moto di solidarietà, accecata dalla rincorsa del potere attraverso l'investimento sull'esposizione e disponibilità del suo corpo, né verso la palestinese - che nemmeno considera degna di attenzione quando si batte come una leonessa a salvaguardia dei suoi limoni -, né verso la moglie-avversaria, dalla quale deve estorcere una smentita. Estrema burla, ma vero rimando all'invasione biblica in ogni anfratto dello stato presunto laico è la sentenza che, visto il problema lo... risolve "alla radice": è donna anche la giudice che sancisce quella "salomonica" decisione che distrugge i limoni, ridimensionandoli all'altezza di 30 centimetri da terra perché così non possono rappresentare alcun riparo per terroristi, e imprigiona il ministro nel suo solipsistico delirio securitario (magari impegnato a chiedersi sorpreso come i suoi complici d'oltreoceano, dopo il massacro di Gaza, dopo che ha bombardato ospedali, scuole, mercati - ricordate l'accusa ai serbi ai tempi dei bombardamenti sui mercati di Sarajevo? - come mai ce l'hanno con lui). L'ottusità di quella Giustizia si percepisce dalla titubanza a doverne affrontare le strutture architettoniche che la ospitano: corridoi asettici, privi di qualsiasi sim-pathos, superfici esterne abbacinanti e levigate, prive di asperità o solchi... al contrario del volto del vecchio che sa discriminare cosa sarebbe giusto secondo la legge naturale e cosa invece è assurdamente "logico". Infatti l'orgoglio di Selma le fa rispondere di getto, anticipando l'avvocato: "La vostra proposta mi disonora".



Altrettanto ottusi i capi islamisti della comunità, tratteggiati giustamente come ottusi (e pieni di interessi personali che scavalcano quelli della gente comune, come Selma, addirittura donna e vedova, quindi sola... ancora di più per l'assenza del figlio) e ancora diversamente profittatori rispetto all'avvocato, che in fondo rimane davvero affascinato dalla forza di volontà della donna, al di là del fatto che l'attrice abbia in sé un sex appeal indubitabile, che parte dallo sguardo diretto al cuore dello spettatore, dagli angoli che formano l'ovale del viso, a un tempo dolce e duro, spigoloso e armonioso... e dal portamento sensuale e deciso, come quando ballava in Satin rouge. E in fondo serve al sornione regista a dimostrare come i maschietti del film sono accomunati dalla loro insensibilità: sbava il ministro israeliano davanti agli sculettamenti della segretaria, e fa il galante anche il galletto palestinese. Ma particolarmente odioso è il rais della comunità palestinese che va a minacciare la donna direttamente in casa, quella cascina già violentata da truppe e "visitata" dalla curiosità della giornalista, quella figura si presenta particolarmente invisa perché non solo non aiuta la donna della sua comunità (palesemente in quanto donna), non solo la minaccia, ma le fa terra bruciata attorno, dimostrando come il problema per la popolazione palestinese è duplice: devono guardarsi dai militari israeliani e anche dai fanatici islamisti che li tengono sotto una cappa di ignorante superstizione religiosa nelle braccia della quale li hanno spinti gli occidentali stessi, che a suo tempo hanno inventato Hamas in funzione antiFatah, laica. Due volte infatti il ritratto del marito morto di Selma entra in scena con una funzione drammatica: una in modo comico per lo sguardo che lancia l'avvocato verso di lui, quasi che potesse disapprovare il suo comportamento; l'altra volta è l'intera parete a incombere, evocata dal rais, che biasima tutte le scelte di quella donna indomita e quindi ai suoi occhi pericolosa, come si vede dalla tensione palpabile all'ingresso della vedova nel bar popolato da maschi: una lunga panoramica a seguirla dalla porta al tavolino e ritorno: c'è tutta la diffidenza dell'Islam verso l'universo femminile, sconosciuto e quindi da schiacciare. E' lui palesemente lo stereotipo più grezzo anche nei suoi tratti di personaggio del film che funge da contraltare con l'ottuso egoismo del ministro. Due potenti maschi contro una donna sola.
Eppure non la riducono al silenzio neppure quelle inquadrature un po' dall'alto che la schiacciano nella sua casa devastata (ripresa invece con toni caldi e accoglienti, quando offre la sua deliziosa limonata all'inizio, sia al rais, sia all'avvocato... nella tenue penombra estiva in controluce dell'inizio): la muove il legame con quella sua terra.




Tutto il film si incentra su di lei, sulla sua figura: lei e solo lei è veramente a tutto tondo. Gli altri sono figurine che rappresentano quasi stereotipi, ben marcati ma comunque utili a stigmatizzare un dato, una realtà ben presente su quel territorio. Da quelli più marginali, come i soldati che, vera marmaglia (come tutti gli eserciti sono e ovviamente non si esime Tzahal che si preannuncia dicendo da veri bulli quali sono i suoi criminali responsabili: "chiunque pensi che i militari avranno un comportamento improntato alla gentilezza si sbaglia di grosso", Ansa, ore 9,25 del 1° gennaio 2009), vanno a razziare i frutti; fino a quelli più significativi e portatori di verità quasi proverbiali, come il vecchio collaboratore: "Gli alberi sono come le persone, hanno anime e sentimenti", dice il vecchio aiutante che da sempre si occupava degli alberi... il suo discorso sembra catapultato da un universo alieno nella sala di tribunale in cui i protagonisti vengono ripresi per lo più in campi lunghissimi che li rendono piccolissimi. La testimonianza più patente che quel Diritto al centro della diagnosi del film non ha nulla a che vedere con la realtà a cui si vorrebbe applicare: i codici di riferimento del vecchio sono comprensibili a tutti, senza bisogno di ulteriori codificazioni e proprio per questo non intaccano il pronunciamento assurdo applicato dal giudice: significherebbe mettere in discussione tutto l'impianto del Codice "civile" della magistratura israeliana, come mettere in forse l'applicazione brutale della forza solo perché è a disposizione da parte dell'esercito, significherebbe rivedere sessant'anni di violenze ai danni di una popolazione inerme, praticamente tutta la storia di Israele. Quando basterebbe agli spettatori pensare che in questo momento sotto le bombe a Gaza ci sono migliaia di altre Selma per mettere in dubbio gli squallidi reportage di Claudio Pagliara e altri filosionisti che fanno del servizio pubblico un altoparlante delle veline del governo israeliano.



continua...

a cura di
adriano boano