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Torino Film Festival - 2000

Torino Film Festival 2000

Recensioni
Mini-recensioni
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riceviamo e volentieri pubblichiamo)

Lampisterie sinaptiche
Parte 06
Dai ricordi partigiani iper-faziosi all'iperrrealtà onirica di Romero

Percorso impostato sulla rivalsa

Il bianco e nero è di per sé fazioso e anche le sfocature sono sicuramente delle occultazioni della storia. Certo che non ci sono le foibe! C'è ben altra responsabilità, prima e dopo la fine del fascismo. Ben altro impegno.

E scelta di campo; di tifo si tratta ad ogni livello, non ultimo quello calcistico: Roma - Torino, 1 - 7. Alberto, il partigiano del film di Gaglianone, ce lo fa rivivere: sia in montagna, da giovane quando gli eventi narrati erano freschi e lui racconta ai compagni quell'evento a cui aveva assistito, sia rivolgendosi al fascio non ancora riconosciuto all'ospizio, dimostrando che il tempo non era affatto passato poiché non cambia la concitazione e la partecipazione, la stessa passione che si traspone nella politica riscaldava il granatismo, e viceversa la stessa esaltazione per le imprese di Capitan Mazzola si traduceva in azioni anche e soprattutto politiche. Argomenti utili per socializzare in montagna, passare il tempo tra un'azione e l'altra, cercando di dimenticare la fame e il freddo; ma anche mezzi per rinfocolare le prese di posizione trasformandole in epica. Di quale squadra poteva essere un repubblikino di merda e poi capo del personale? Bravi, anche voi che non avete visto il film; vi ho sentiti urlare in coro: "Un gobbo!".

Certo: l'assassinio perpetrato con il laser sui coglioni di un macho fascista e il lancio dalla finestra di una troia nuda appesa per il collo a una prolunga è forse riprovevole, però la reazione non deve ritenersi esagerata, soltanto un po' tardiva: quando è troppo è troppo; e gli italiani impiegarono vent'anni prima di accorgersi che era possibile contrastare la vuotezza degli slogan di un Berlusconi qualsiasi, solo con mascelle più pronunciate, ma la stessa quantità di capelli. E non è mai abbastanza precoce il momento in cui scatta la riscossa reale. Avviene quando l'individuo si accorge che la sua stessa incolumità personale è in pericolo e va recuperata la sua fisionomia perduta: quando addirittura il volto sparisce è tardi la dignità e il rispetto di se stessi sono in pericolo e il rimedio non potrà fare a meno del sangue. Prime avvisaglie sono frequenti "distrazioni" oniriche nelle quali si compiono le più efferate vendette ai danni di malcapitati, che si sono macchiati dei soliti "sgarbi quotidiani", che però delimitano le due fazioni: i nemici (dal cane bastardo e odioso alla donna che ci urta in tram con intenzione e finirà con la testa schiacciata dalle ruote del tram nella fantasia, ma anche chi insinua una radio a tutto volume su una strada percorsa dal personaggio morto - e fuggito dagli impiegati diabolici adibiti allo smistamento delle anime di In God we trust, corto esilarante e ottimamente organizzato da Jason Reitman -, trasmetteva La vida loca: giustiziata con un calcio tra gli applausi del pubblico in sala) e gli amici, ovvero la moglie del capo talentuosa fotografa e succube dell'esuberante editore e il collega mansueto. Ma dalla sua presa di coscienza dipendono anche serie di effetti socio-politici, che il maestro Romero fin dal '68 e dalla Notte dei morti viventi nasconde neanche troppo velatamente sotto i suoi lavori.

In God We TrustE se la realtà non può soddisfarci, allora ci si rifugia altrove. Chi può si sfoga con i ricordi e vi penetra anche proiettando se stesso da vecchio in soggettiva in campo - Alberto si ritrova nella radura dove vengono torturati i suoi amici con una soggettiva in campo da vecchio, ma con sullo sfondo gli eventi di allora, una sequenza da chapeaux, che trova la sintesi tra il messaggio che si voleva inviare e l'immagine emotiva, la rimeditazione analitica di tutti gli anni trascorsi e l'assenza di distanza tra l'irreconciliazione di allora e l'esacerbazione attuale - e in quel modo mescola inscindibilmente il passato con il presente in modo da poterlo cambiare a mezzo secolo di distanza; chi non può si rifugia nel sogno che diventa realtà, si danna l'anima come nel corto di Reitman, si sporca le mani come gli anti-eroi di Sartre (ma anche come i samurai della seconda guerra mondiale e il giovane giustiziere con katana di Kichiku dai enkai), si spara disperato come l'ascoltatore del Larry Show nella prolessi del film di Romero, poco rilevata dalla stampa in questi giorni di recensioni, ma pregnante, poiché il mattino dopo il suicida ritorna, ben vivo e pulito da ogni macchia: sorta di morto vivente etereo, come Henry Creedlow stesso che, staccatasi la maschera da giustiziere, torna alla vita. Il prologo è lungo come un risveglio normale, che può essere interminabile come una rasatura (e allusiva come The Big Shave di Scorsese) che mette a nudo la faccia vacua e inconsapevole, o istantaneo come uno sparo che penetra in tutte le case a "dare la sveglia". Il protagonista di Bruiser segue lo stesso destino: da vendicatore triste (Pierrot con lacrima di sangue sulla maschera) accetta il ruolo di dannato, di uomo morto senza futuro che non ha più nulla da perdere, riscatta la sua anima - proprio come il giovane di In God we trust, con quella monetina che all'inizio campeggia a tutto schermo, evidenziando il titolo inciso sui centesimi statunitensi, che finisce all'ultimo momento nel contenitore del mendicante, come in una fiaba morale d'altri tempi - e riacquista il suo volto.

BruiserLa precisione di Romero si coglie sia negli indizi che sparpaglia lungo tutto il testo, sia nei dettagli che cura maniacalmente, come la cover degli Aha che passa sui titoli di coda: infatti il videoclip di quel vecchio brano della band scandinava, era giocato sulla perdita della definizione umana della protagonista, trasfigurata nel mondo di un fumetto, perdendo le caratteristiche umane, trascolorando nel bianco e nero del disegno per raggiungere un personaggio non reale, ma disegnato con pochi tratti, che alla fine si ricompongono nel caldo colore della "realtà", recuperata con la propria identità umana.

Certo che la differenza tra chi ha memoria e chi non ce l'ha è proprio nell'identità e nel rifiuto di qualunque prevaricazione e di qualsiasi imposizione: quando il capetto urla il suo slogan ("We make heat"), che gli costerà l'ardente pena di morte, le reazioni ai suoi metodi prevaricatori e dittatoriali sono semplici mugugni alle spalle; stavolta il tema degli zombie di Romero prende le forme dei remissivi, dei servi, di coloro che nascondono la testa sotto la sabbia pur di non vedere che l'amico ti sta fregando anche i punti a tennis; bellissima l'inquadratura sbrigativa con cui ci rilascia ancora una traccia per indirizzarci: se non vogliamo vedere nemmeno noi la congiura di cui è vittima il nostro alter ego credulone, allora siamo degni di lui, facciamo parte della sua squadra di giusti turlupinati. Ma forse avremmo anche noi la possibilità di un riscatto, forse meno cruento: basta che ci svegliamo un mattino e ascoltando Robecchi su Popolare Network ci rendiamo conto che le regole accettate finora producono una metamorfosi in noi, anime perse e allora faremo un'azione dirompente, che può essere esemplare e individuale come quella di Henry che attonito si accorge di aver ucciso realmente la domestica ladra che lo insulta in spagnolo (che lui capisce) e non di averlo soltanto sognato, oppure collettiva come quella delle bande partigiane di Gobetti, De Santis, Zavattini,... Gaglianone.

La differenza di campo si coglie anche nella critica: Paolo D'Agostini in kataweb rimpiange che Gaglianone abbia perso un'occasione di usare una tale dovizia di materiale e di simile qualità, usando un linguaggio inadatto al prime time. A parte che mai nessuna tv generalista avrebbe programmato questo argomento in prima serata, a parte che chi non vuole sentire e sta bene con il suo volto inespressivo non vorrà mai essere messo di fronte alle sue contraddizioni, noi vogliamo dire ai prezzolati scribacchini che la loro è una scelta di campo, quello avverso che ha tutto da guadagnare dall'edulcorazione del materiale, che invece è giusto proporre in quel modo "sporco", espressionista, una sfida in più per mediare un'emozione senza rinnegare la forza degli argomenti, il contenuto è anche la commistione che non discrimina tra il passato da incorniciare nelle contorniture ingiallite dell'iconografia depauperata dei Piccoli Maestri, ridotti a un episodio del passato, da libro di storia non ancora epurato; così sarebbe più facile il compito di coloro impegnati nella revisione e nella storicizzazione di un'epoca non conclusa. Quello che D'Agostini propone invece è porre una pietra tombale sulla discussione di cosa sia ora Resistenza, a favore di una museificazione di quegli ideali, rendendoli sterili fotografie ingiallite, ma fruibili da tutte le coscienze, inframmezzate dalla pubblicità, magari del suo kataweb.

S'inizia a colorare con i colori di guerra la maschera, una di quelle anime morte sparse nel giardino dell'ammirata fotografa, anche lei paziente; e da quella decisione di decorare il proprio aspetto secondo i propri canoni viene la dicotomia, la stessa che nel film di Gaglianone divide, nel caso di Romero non è il bianco e nero a fare da confine, ma oltre alla netta divisione tra pusillanimi e vittime silenti (la stessa di Boetticher), qui c'è un ulteriore tratto che differenzia i personaggi: il cool e l'heat.

Quella di Gaglianone è una corretta rigidità manichea, poiché in caso contrario si finisce con il concedere spazi di umanità a quelle che furono soltanto belve e ora pretenderebbero di parlare dei libri di testo che li condannano, si permettono di confutare senza argomentare, fare canizza e sollevare polveroni e... magari passare dalla parte della ragione: è sufficiente lasciare un minimo spazio di discussione in termini revisionisti, perché si scatenino gli Storace. Quella di Romero è invece una rigidità che si allarga a tutte le possibili coppie oppositive, e le note di cool jazz che commentano la sequenza in cui la moglie di Henry viene giustiziata facendola volare dalla finestra si contrappongono alla bolgia bollente che attizza il cattivo gusto della bolgia organizzata dal capo. La vendetta è un piatto che si consuma freddo e che finisce per diventare un unico urlo che rivendicando coralmente la propria identità: "It's me", assicura l'impunità al vendicatore, fino al prossimo dittatore, dal quale ci libererà una nuova fuga nei sogni, dove si trovano le risorse per combatterlo nella realtà.

Adriano Boano


Quando lo spazio diventa uno dei personaggi principali di un film

Il loft di "Two girls and a guy", per quanto ereditato, era perfettamente speculare alla personalità di colui che lo abitava, il giovane attore cantante aspirante bigamo Blake Allen. Perché privo di soluzioni di continuità, come può esserla la vita di qualcuno che non sa imprimervi delle svolte, non sa prendere delle decisioni. Ma se una tale personalità è anche molto ambigua, come in effetti quella di Blake Allen rivela presto essere, ecco che il loft al piano di sopra assume contorni molto ben definiti, persino raffinati ed eleganti rispetto all'ordine piuttosto casuale del piano di sotto. E le pareti magicamente compaiono, per quanto semi-trasparenti (semi: consentono solo di intuire cosa vi avviene dietro, così da ingenerare confusione ed inganno) e spostabili a piacimento (così come le posizioni di qualcuno non molto deciso, col piede perennemente in due scarpe). Sarà pure ereditato, ma l'appartamento di Blake Allen E' Blake Allen (ed è significativo che le ragazze prima di spezzare qualcosa nella linea di difesa del giovane per penetrarvi a forza compiono lo stesso processo nei confronti della casa, rompendo un vetro per entrarvi).
Anche "Gocce d'acqua su pietre roventi", diretto dal francese François Ozon su un testo di R.W. Fassbinder ha come spazio unico per il dispiegarsi dell'azione un appartamento, quello di Leopold. In modo più complesso tuttavia questo appartamento rispecchia, da una parte, più un'epoca ed un popolo che non la persona che vi abita. Come dice lo stesso Ozon, "I tedeschi negli anni '70 cominciavano a riemergere dal lungo periodo di ricostruzione postbellica ed erano ancora oberati dal senso di colpa legato al passato. Questo si vede e si sente nelle scenografie. I colori non sono brillanti, ma smorti e meno allegri: finti muri in mattoni, tinte bianche e nere, colori che Fassbinder stesso usava nei suoi film."
Dall'altra parte l'ambiente fornisce il contrappunto perfetto ad una storia sulla trasgressione che diventa routine, sulla marginalità che diventa convenzione, sul corrompersi dei rapporti umani nella vita di tutti i giorni. Se Leopold infatti incarna perfettamente l'uomo adulto che vuole trarre i vantaggi maggiori dalla appena compiuta rivoluzione sessuale del '68, l'ambiente in cui si muove finisce per castigare i suoi movimenti tanto è, al contrario di quello del protagonista di "Two girls and a guy", perfettamente definito in tutti i suoi contorni, rigidamente programmato per i mobili che vi ospita. Un appartamento di questo genere si presta ottimamente alle restrizioni continue del campo visivo tanto care a Fassbinder e che Ozon si perita spesso di riprendere, più per fedeltà sincera al testo che per vezzo d'imitazione. L'appartamento di Leopold è la cornice ideale in cui amarsi, confrontarsi, litigare per le più piccole stupidaggini, venire a patti con una realtà per lo più squallida, morire, cercare infine di fuggire non riuscendovi, come fa Vera nel finale (la finestra che in "Two girls and a guy" era servita per entrare qui non funziona per uscire: si entra ma non si esce).
Nel secondo incredibile film di Darren Aronofsky, "Requiem for a dream", non c'è un unico set, ma il senso di claustrofobia dato dal "mostro con la A maiuscola" come Aronofsky stesso definisce la dipendenza (dall'inglese "Addiction") finisce per creare una sorta di ambiente unico. Nel film infatti non si denuncia una particolare droga (neanche sappiamo quale polvere si inniettano Harry ed i suoi amici, visto che i nomi che le danno, "dinamite", "merda", non riconducono a nulla di definito: potrebbe essere tanto cocaina quanto eroina quanto crack - e la vera droga della madre di Harry non sono tanto, o non soltanto le pillole per dimagrire, ma la televisione), ma ci si limita a mostrarne gli effetti sulle persone. E non si approfondisce più di tanto la psicologia dei personaggi per capire le conseguenze del loro insensato autolesionismo, ma si entra direttamente nelle loro teste: Aronofsky infatti, già noto per lo stile visualmente disorientante di "Pi" (malamente tradotto in Italia con "Il teorema del delirio"... e malamente distribuito, aggiungerei), abusa letteralmente di effetti visivi di ogni tipo (slow motion, accelerazioni, distorsioni, primissimi piani stilizzati etc) quasi volesse drogare noi spettatori. Un po' quello che fece un paio di anni fa il Gilliam di "Paura e delirio a Las Vegas", ma con scopi sostanzialmente diversi: lì l'allucinazione era divertente sebbene inutile (una specie di risposta al senso di onnipotenza dei giovani americani negli anni '70, convinti che qualsiasi cosa facessere fosse giusta, fosse vincente), qui è una fotocopia dell'orrore più puro e cristallino. Lo spazio chiuso è quello della siringa o quello della schermo televisivo, lo spazio dal quale non si esce se non con i propri sogni (in questo senso la citazione da "Dark City", resa più forte ed immediata dal fatto che la protagonista femminile è la stessa, trova la sua precisa collocazione: quel finale sul ponte circondato dal mare era la giusta risposta al desiderio di John Murdoch di evadere dai confini della città artificiale creata dagli Stranger per operare i loro raccapriccianti esperimenti sugli umani) o con un tentativo di regressione infantile. Certo, nessuno di loro cerca davvero di "aprire la finestra", come fa Vera in "Gocce d'acqua su pietre roventi". Ma servirebbe davvero ad uscire, o sarebbe solo il fallimento definitivo come per Vera?

Federica Arnolfo


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