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Rua ParaisoLampisterie sinaptiche
Parte 04

Umiliazione e resistenza

"Deve essere terribile morire il giorno del proprio compleanno", è una delle lucide considerazioni dei bambini di Rua Paraiso, un'antifrasi amara per identificare la strada di una favelas di San Paolo fotografata da Elisabetta Francia, colpita anche lei dalla capacità analitica dei ragazzini che mostrano nelle rapide frasi lapidarie una chiarezza e un disincanto invidiabili. Essi sono in grado di dire: "Ho visto uccidere mio padre", oppure "Fuggii di casa a 7 anni perché il mio patrigno abusava di me", con lo stesso tono privo di incrinature con cui denunciano: "Di notte ci sono solo gli assassini e i poliziotti, ma anche loro spacciano"; e anche gli occhi sono gli stessi, intenso lo sguardo, ma non ancora induriti al punto da non riuscire a sorridere e gli infiniti primi piani si vorrebbe non finissero mai, per sperare di rimanere contagiati da quella forza d'animo, o forse per continuare a succhiare ancora linfa vitale, rubando loro pure i volti, gli interni delle case da loro illustrati nei particolari, la loro purezza. La parola più ricorrente, il dato che sentono come un marchio, il sentimento maggiormente pronunciato è "umiliare": un'infanzia che come rivela il sottotitolo è un privilegio e qualsiasi intervento di esterni a quella realtà, compresa questa possibilità di parlare della realtà dei niños de rua, si configura come schiavismo e colonialismo.

Palavra e UtopiaCome bene insegna Palavra e Utopia. Dove al di là dell’ironia, insita nel voler salvare i nativi imponendo loro la catechizzazione, si riconosce il bisogno di capire di quali indios si parla, quando parliamo di libertà, riconoscere da dove provengono, quale sia la loro terra, proseguendo il discorso di libertà avviato in Mon Cas, dove la libertà del singolo diventa gradualmente confronto con quella degli altri di esprimersi e anche poi di ascoltarla, in uno scontro aperto dal sipario e infine ripreso dalle telecamere che edulcorano tutto, ma in modo ambiguo, come il sorriso della Monna Lisa in un paesaggio arcadico, premio per la pazienza di Giobbe, ma anche soglia di attenzione superata per il nostro voyeurismo, che percepisce sotto vari punti di vista in tutte le forme ogni distorsione.

Non so se è un bene o se denota sadismo quel nostro indulgere nelle visioni, qualsiasi esse siano, comprese quelle della vita dei bambini paolisti: quando andai in una township di Cape Town non ebbi il coraggio di fare l'offensivo e colonialistico atto di fotografare i ragazzini – sarebbe davvero umiliante – che accorrevano o i miei interlocutori della birreria fatta di lamiere; capisco l'utilità di questi reportage ma avverto anche una sorta di desiderio di tutelare anche i giovani esposti a parlare e mi vergogno del dubbio che sorge spontaneo sulla effettiva spontaneità delle cose che dicono. Se la metà del materiale documentato in questo film è genuino, bisognerebbe spedire due mesi all'anno i ragazzini nostrani in una favela: quelli che sopravvivono saranno sicuramente più svegli e nessun imbonitore – forzitaliota o allevato alle Frattocchie o facente parte di una setta come i bastardi che con improntitudine truffano gli anziani giapponesi giocando sulle loro paure, sui rimorsi di una vita, sul loro bisogno di aggrapparsi ad una speranza come nell’eroico film di Shinozaki Makoto (Wasurerarenu-Hitobito) con addentellati che hanno a che fare con la rabbia dei protagonisti di Gallianone (I nostri anni): due paesi dell’asse che recuperano i loro vecchi eroici che si sono contrapposti allora e in mancanza di memoria si devono di nuovo armare per fare giustizia – potrà mai convincerli della bontà di una scuola a pagamento, la loro più dirompente richiesta, oltre alla rivendicazione di essere liberati da droga e armi, questo fino ai 14 anni, quando invece la droga serve a togliere la fame e le armi per poter rubare. Giovani brasiliani ripresi dall’alto, schiacciati dalla macchina, sulla quale essi riescono a prendersi una rivincita con la loro naturalezza, che stride con i "fantocci da ventriloquo" della setta-azienda Utopia Corporation, dove i giovani incarnano i rampanti che si concedono truffe ai danni degli anziani giapponesi, vestiti in divisa di ordinanza: doppiopetto e lingua biforcuta.

Quanto invece Vieira spesso appare ripreso dal basso da Renato Berta fotografo di Oliveira, lo ammiriamo assiso sul pulpito dal quale lancia idee e non anatemi, analisi. E la più efficace inquadratura riguarda noi. Ci si rivolge introducendoci al discorso che riguarda la libertà, intesa dapprima come assenza sia di regole che di sovrani nella tradizione india con le nuvole che trascorrono sulle guglie delle chiese, che incastonano sempre ierofanie di santi adatte all’invasata crociata del savonarola di Oliveira; le stesse nuvole dei samurai contemporanei che vedono dipinto nel cielo ipnagogiche scritte che riportano al passato bellico e ai commilitoni abbandonati sul terreno (chiedendosi anche loro come i nostri ribelli partigiani ripresi, ancora e sempre combattenti, mentre si chiedono in nippo-piemontese: "Abbiamo passato quell’infernno per questo?"). Al contrario di quello che avviene quando è l’Inquisizione ad essere ripresa, non solo senza le famose nuvole del centro-sudamerica, prive di pericolosità, ma sempre in ambienti lugubri, privi di sfoghi, appesantiti da stuoli di libri da liberare ed invece ancora compressi in ordinate librerie. Il fascino della figura del gesuita scomodo nasce dalla sua ambiguità, pur essendo una personalità di forte dignità e nessun compromesso, al punto da farsi inquisire due volte, il ritratto che ne fa il regista portoghese può ammantarsi di aura coloniale pur mostrandosi al contrario molto attento alla salvaguardia della cultura dei nativi e imporsi come uomo avverso al potere, eppur in qualche modo colluso. Degli indios per altro non si fa cenno, mentre invece l’invadenza dell’immaginario europeo s’impone attraverso i puttini manoelini che lasciano spazio soltanto ai michelangioleschi arcangeli con trombe: "Sono un sepolcro che deve morire". Ma prima vuole totalizzare le culture, renderle patrimonio di "todos", il compito della Compagnia di Gesù

_ Dio veglia sugli innocenti…

_ …ma permette che soffrano

I numeri della città brasiliana odierna sono affidati a momenti di relativo stacco della videocamera di Alessandra Francia dai volti di angeli della strada – più reali di quelli di pietra inquadrati sulle cupole vaticane di Vieira – e dalle parole come macigni: cartelli che sono accuse all'occidente e al FMI. 7 milioni di poveri su 22 milioni di abitanti stimati (17 censiti), 60 omicidi al giorno, 5 vittime dei quali bambini… Tutti sono in grado di sviluppare giudizi sorprendenti e indipendenti: una ragazzina si dichiara contraria all'aborto perché sarebbe usato come contraccettivo e le violenze aumenterebbero; a dieci anni considerazioni simili dettate dalla situazione svelano un'attenzione alla sfera sessuale e uno sviluppo del tema della famiglia che non si può ridurre a stereotipi.

"I ricchi vogliono cacciarci, possiedono le baracche. Ma se ci sfrattano non possiamo andare a dormire sotto i ponti, perché sono tutti occupati", d'altro canto: "Mi considero molto fortunato", dice lo stesso bambino che poco prima ha rivelato di avere il padre in carcere e di non poter andare al doposcuola a pagamento, amico della bambina morta il giorno del suo compleanno, uccisa.

"Sono un sepolcro che deve morire", scriveva Vieira.

Un commento adatto a questo mondo viene offerto da Oliveira con la sensazionale sequenza di cinema filosofico sul confronto tra Democrito dedito al riso, ed Eraclito, invece propenso al pianto: l’impianto del dialogo è classico con una prima tesi in cui il riso di Democrito veniva definito stolto per il suo disegno di mondi infiniti da una sorta di ufficialità che l’"anarchico" Vieira ("Non voglio altra patria che il mondo") non può accettare, anche quando l’argomentazione viene smussata dal recupero del filosofo atomista poiché deride un mondo. Per Vieira il riso è la prima proprietà della ragione il cui uso è il pianto: "Chi conosce il mondo non può che piangerne". E torniamo alla risata che li sommergerà: infatti si conclude il teorema di Vieira sul confronto tra Eraclito e Democrito, dicendo che quest’ultimo rideva dei suoi molteplici altri mondi. Ed il suo atomismo ritorna nella fotografia sgranatissima e illuminata naturalmente con le sole faci di scena esagerate dalla pellicola sensibilissima, che creano effetti di pienezza cui solo i giochi di luce di Goya si possono paragonare . In quel frangente si esagerano i vapori, la presenza della natura avvolge ogni cosa

"Morte senza speranza" è l’ultima intuizione di Vieira.

Chambre FroideE sempre il giorno del suo compleanno era morto il padre della protagonista, belga, di Chambre Froide. E anche qui ci troviamo di fronte ad un'accezione di famiglia molto incancrenita dalla macabra festa di compleanno. La camera fredda è quella della macelleria e i volti a cui chiedere perle di naturalezza e saggezza sono sostituiti da bucefali con la lingua di fuori. E madri cocciute, decise a non consentire al padre di morire a dieci anni dall’evento fisico ; incapaci di fare un gesto che più di ogni altro si brama e che con difficoltà si riesce ad esprimere e solo in situazione estrema di emozioni accavallate ed esasperazioni.

Il film di Elisabetta Francia termina con un'altra lunga carrellata seriale sui desiderata dei ragazzini stessi: un momento di tenerezza unico del film, poiché diventano uguali a tutti gli altri bambini del mondo. Generosi: la maggioranza pensano prima a chi sta peggio, ai genitori in galera, a un lavoro per tutti e poi magari ai pattini per se stessi (ma forse è perché lungo quelle strade i roller non scorrerebbero facilmente nel fango).

Adriano Boano