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Torino Film Festival 2000Lampisterie sinaptiche
Parte 01

Tri brata si fonda sulla presenza dell'aereo costantemente. Il motivo spiegato alla fine legato ad una tragedia dell'infanzia del pilota che parla in prima persona di quel mondo perduto: un mondo lontano nella memoria come quello eroico dei 35 giorni alla Fiat del 1980 raccontato da Pier Milanese; non tanto perché l'iconografia del film kazako è debitrice del realismo socialista che ha forgiato il gusto di Chibut, il più piccolo dei tre fratelli, i cui ricordi di locomotive arrugginite con la stella rossa si fondono con la genuinità ingenua e rurale di un paesino nei pressi di una base aerea mortifera mescolata all'inconfondibile immagine del mondo sovietico, quanto perché è una realtà perduta, il cui oracolo, il vecchio Klein, evoca coi suoi racconti, intervallati da acquerelli che suddividono in episodi le scorribande dei giovani del paesino (il furto della cioccolata, quello delle angurie - gustosissimo nel ricordo del giovane pilota - la valvola del pneumatico da cagare, le spiate delle coppiette, fase arcaica di I.K.U., l'educazione sentimentale che sarà letale sirena per i giovani "lanciati a bomba" sulla locomotiva alla ricerca della prima esperienza sessuale, stroncata dall'aeronautica, che in mancanza di convogli serbi provava a centrare mezzi in movimento autoctoni). Allo stesso modo, sul filo della memoria, Pietro Perotti ha fornito il materiale a Pier Milanese perché non si dimentichi quell'ultima estrema lotta della sinistra torinese, venduta e tradita dal nemico alla sua testa, un sindacato che ha talmente ancora paura di confrontarsi, che non accetta il dibattito e fa parlare Sabattini e Revelli, ma non i cassintegrati di allora presenti in sala, e nemmeno permette che si possano additare i nuovi pompieri - Airaudo era presente in sala - epigoni di quelli che accettarono di concludere la lotta, subendo i diktat dell'azienda e imponendo votazioni truccate come ben documentato a futura memoria inopinabile e incontrovertibile dal video, abbandonando i compagni estromessi e chiudendo una stagione di lotte durata dodici anni e che il sindacato non era mai riuscito a controllare, come già l'anno scorso aveva ben spiegato Guido Chiesa attingendo a parte dello stesso materiale. Ad esempio chi scrive avrebbe richiesto in qualità di metalmeccanico a Sabattini di non spedire altri vecchi arnesi dell'apparato a tenere le assemblee in preparazione dello sciopero per l'integrativo, ma di usare le ore di assemblea sprecate con sgherri incapaci per proiettare questi video: i giovani miei colleghi non sanno nemmeno di cosa si parla, ma conoscono tutto del Grande Fratello; bisogna ricostruire una o diverse identità di lavoratori in grado di creare una mobilitazione su esigenze comuni, che non si fermano più soltanto alla fabbrica o ai bisogni di un solo soggetto schiavizzato. Perché le macchine desideranti collettive che bivaccavano davanti ai cancelli, trovando espressione nei loro corpi uniti in un unico blocco sono stati trasformati in replicanti da ritirare, utilizzando arnesi che confondono il piacere e lo risucchiano, pure quello, attraverso uno svuotamento che prelude alla terminazione di I.K.U., una "automazione" allusa già nel film di Pennone, come ribaltamento di tutti i processi.

Con una scelta azzeccata si è voluto far precedere il video di Milanese da quello di Gianfranco Pannone (Sirena operaia), riferito agli anni precedenti delle lotte operaie: il risultato è una maggior dose di retorica, ma anche di lirismo, peccato che il pciismo connaturato renda il lavoro schematico quando giunge al punto in cui l'anima della sinistra si spacca e il sindacato narrato in prima persona da un suo dirigente ancora adesso non riesce a capacitarsi che frange incontrollabili non accettassero più di venire soffocate nei loro afflati di liberazione dalle pastoie della mitezza e poi offese dalle pastette della concertazione. E allora si assiste a cecità su un lungo periodo che si preferisce raccontare una volta di più come costellato di "forme di lotta controproducenti", ovviamente quelle che il sindacato venduto non approvava; rimane spazio per una mezza ammissione: "forse bisognava lasciare fare a loro, agli operai". Da questo presupposto sembra prendere spunto l'irriducibilità di Perotti, che parla di evento politico più che cinematografico, di parole d'ordine desuete (ma quanto ancora attuali sarebbero, se ci fossero una o più coscienze di classe!), di comunicazione antagonista - blasfemo! - e che non eravamo già più di moda allora e quindi nel 1980 non c'erano più i registi che scorrono nei titoli di coda dei credits per il film di Pannone; e allora lui si autofinanziò la macchina da presa (ma non il proiettore: non aveva più i soldi) e prese a documentare quei fatidici 35 giorni: senza di lui non avremmo nemmeno più uno straccio di immagine da contrapporre ai padroni e ai fascisti quando faranno la revisione anche della storia del movimento operaio. Infatti il lavoro è stato fatto per ridare dignità, giustizia e visibilità ad una lotta, per la quale la cosa peggiore sarebbe l'oblio. Ed ecco l'incipit del lavoro commentato da una frase che funge da epitaffio per i 40000 piciu che con la loro meschina servitù cambiarono il corso della storia. In peggio. "Di questo momento storico, tra quindici o venti anni, se ne riparlerà ancora e allora ci saranno lavoratori che andranno a testa alta d altri che non sapranno dire niente ai loro figli" (Angelo Azzolina). Per la seconda volta in pochi minuti sentiamo le note di Cara moglie, ma stavolta non ci commuoviamo, ma una sorda rabbia rispunta da vent'anni di amaro masticato; e la situazione non migliora ripercorrendo il calvario: le immagini di allora si alternano sapientemente con i titoli di giornale, Novelli si alterna a Benvenuto, Pio Galli a Enrico Berlinguer, ma su tutti spicca la massa di volti e corpi impegnati con la loro sola presenza, con le voci concitate e l'indignazione, a creare il set, l'evento, l'affabulazione. E allora si recupera il legame con il precedente film, in particolare quando il vecchio delegato ringrazia i compagni per la lotta del '69, poiché lui, plurilicenziato per motivi politici non era mai riuscito a rientrare ed invece dopo quella lotta ce l'aveva fatta. Ora, come recita l'ultimo cartello montato da Pier Milanese: "Avevamo la ragione e la forza, ci è rimasta la ragione". L'emozione più intensa proviene dal legame con le lotte del secolo, incarnate da una bracciante emiliana che versa al fondo di solidarietà l'intera sua pensione a saldo del mutuo soccorso ricevuto durante una lotta di vent'anni prima durata 68 giorni: si vede che il sindacato era stato meno venduto in quell'occasione. Emergono l'atmosfera, le sensazioni immediate, la tensione per l'intervento dei carabinieri, i picchetti: tutto quell'armamentario smantellato dai padroni in combutta con la concertazione, che ha sottratto la forza, erodendola pezzo per pezzo in quella bella carrellata di foto dei deputati a trattare, foto statiche con le loro voci off, burattini senza nerbo, senza movimento, quello era di chi rischiava ai cancelli, a loro rimane soltanto l'icona dell'immagine fotografica fissa. Ma gli operai dissero "No!" come titolava il quotidiano Lotta continua nell'ultima inquadratura. Però non fu permesso loro di proseguire. Non fu permesso con mezzi paragonabili all'invasivo e invadente prepuzio che interrompe i coiti di I.K.U., scaturendo in flussi spermatici di immagini scomposte in molti quadri, ripresi in soggettiva dell'utero, prepotente membro che s'impadronisce di ogni desiderio annidato nei recessi di qualunque orifizio, come in La Fidélité dove Clelia cerca risposte attraverso la fotografia e trova soltanto pulsioni sessuali intrecciate alla morte nella stessa Parigi di Rudolf Nureyev e Pierre Clementi, martellata dal terrorismo di Harvey Keitel-Carlos in Exposed.

Non ci sono inserti attuali come avveniva nella ricerca del film di Chiesa che era andato a ripescare cinque protagonisti di allora, cinque cassintegrati mai più rientrati, non c'è il recupero della realtà in relazione a quella storia così dettagliata e sublimemente faziosa, direbbe un fascista di merda come Storace, perché quella è stoia orale per immagini, non intende scavare nelle conseguenze attuali, quale è invece il presupposto per capire la solitudine del pilota di Tri Brata che ha perso fratelli amici e guida anziana in un'unica impresa a cui non era stato ammesso perché piccolo e quindi si fonde con lo strumento di quella tragedia per ribadirla, librandosi nel cielo, alternando il suo volo a quello fatale di decenni prima, i cui esiti sono rivelati da un video relativo alle esercitazioni. E lui perse tutto: fratelli, amici, Klein, la storia, la tradizione, la vita del suo paesino, la serenità. Le lotte. Quella emozione a cui teneramente irride Tati (Forza Bastia 78. L'ile en fete) e che sembra irrimediabilmente perduta vista a distanza di ventidue anni: entrambi i film ci trasmettono la stessa patina di nostalgia per un universo perduto irrimediabilmente, sia esso pregno di involontaria comicità del quotidiano, sconvolto dall'evento che travolge una cittadina corsa, che Tati non riprende mai, preferendo scorrere su volti e figure, sia essa la forma nouvelle vague che inquadra la leggiadra figura di Nastassja che danza a Parigi con una sedia su un'inquadratura fissa movimentata da lei e dal fatto che si stacca più volte durante la sequenza ritrovando il corpo desiderante, sedotto da un tenebroso Nureyev vendicatore del nazismo e della violenza sulle solite note di Bach che accompagnano Toback invariabilmente (stavolta la Ciaccona).

"Il reale si fotografa così com'è". Una delle battute che s'insinuano nella mente attraverso Zulawski, una specie di Blow up fatto rendendo evanescenti i corpi delle fotografie, evidenziando la malattia e la decomposizione dei corpi, che si scopano selvaggiamente proprio per ribadire e ricercare la matericità da contrapporre alla tendenza a venire sfocati dei soggetti delle foto perennemente mosse per scelta stilistica, o perché la realtà sfugge. E si ha bisogno dei moribondi per imporre legami eterni. "Laddove un fantasma è stato, si è perso ed è cercato" è infatti il corollario che sancisce il senso del film e la ricerca delle fotografie. La stessa operazione sui corpi si ottiene con la scomposizione dei canovacci inesistenti del film erotico perpetrata da I.K.U., che però non usa la fotografia per azzerare il corpo, ma virtualizza Blade runner e ripete ossessivamente tutte le posizioni e le perversioni di qualunque film pornografico per negarle con qualche barriera sempre frapposta, con l'assenza di orgasmi sostituiti sempre da immagini numeriche che annunciano lo scaricamento globale dei dati, perché l'unica parvenza di intreccio (in omaggio all'assenza di tracce dei film pornografici) è l'uso del rapporto sessuale per ottenere l'acquisizione dei dati sessuali accumulati da replicanti sguinzagliati nella notte per caricarsi di esperienze erotiche.

Entrambi i film si chiedono in modi diversi cosa sia l'immagine pornografica, senza risposte più originali di quelle che si dà Toback in Exposed dove si rivolge a Nastassja Kinsky sintetizzando con una polaroid: "Ti piace la macchina fotografica e a lei piaci tu".

Adriano Boano