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Lampisterie sinaptiche
Parte 05

Guerra e impossibilità di conciliazione

"Tutto è cambiato tranne noi. Sognate ancora il fronte?" (Wasurerarenu-Hitobito)

"Sono stufo di questa vita di merda, di questa gente che non sa niente di niente" (I nostri anni)

"La guerra è finita ma non riesco a staccare da questo lavoro" (Crvene Gumene Chizme)

HitobitoI primi due film da cui sono tratti questi esergo hanno in comune l’attenzione per i ritmi dei vecchi, una parola che Gaglianone dice di amare, invitando a osservare il viso di un anziano senza infingimenti. Un incanto, che lui si diverte a sfocare collocandolo in mezzo ai suoi ricordi, oppure cogliendolo scorato o angustiato (e un po’ sornione) in mezzo ai suoi oggetti; le abitudini, la scontrosità di chi ha già esperito l’incomprensione per quello che dice, la propensione allo scatto d’ira per rivendicare un proprio diritto, e sulla scia del quale proseguire lungo una strada che si perde nel ricordo della neve di 50 anni prima e di un altro episodio che affiora come un lampo, come una sinapsi impazzita e forse ancora più sollecitata dalla ricomparsa dei fascisti in forze.

Entrambi i film affastellano all’inizio i temi dibattuti, indirizzando verso aspettative in un caso puramente reduciste, e in quello nostrano aprendo a una sana pratica didascalica che ricalca le molte esperienze di storia orale dei decenni scorsi al punto da citare in una battuta lo spirito dei film di Paolo Gobetti ("Se respiri l’aria anche una sola volta, poi ti senti soffocare per tutto il resto della tua vita").

Shinozaki Makoto preferisce allargare il numero dei protagonisti a due giovani e un bambino, ma i protagonisti sono l’anziana insegnante di composizioni floreali e soprattutto i tre pards: non è questa coralità che sostiene il racconto ma, come per Gaglianone, il fatto che il tempo non scalfisce le convinzioni di un tempo, nessuno si è potuto riconciliare e alla prima occasione si riforma la brigata ribelle, composta fisicamente di due o al massimo tre superstiti, in realtà sono presenti anche i morti, con i quali si parla e sorride. E ogni tanto si vince contro i fascisti che hanno imperversato ancora e meglio durante la repubblica italiana o nelle sette fraudolente nel Sol Levante.

L’incipit è affidato a frasi emblematiche di tre film di guerra nei quali la brutalità entra attraverso il ricordo lancinante e impossibile da cancellare, tuttavia non sono film nei quali le azioni di guerra siano preminenti e neanche il presente diegetico si colloca in periodo bellico: nella prima i vecchi commilitoni sono sopravissuti ai compagni, ma non hanno superato il legame con quegli eventi e la domanda è retorica: tutti sanno che continuano a frequentare quelle grotte, a vedere il riso dei soci, persino a occhi aperti, vagando per le isole del sud del Giappone. Non sono cambiati: il loro sistema di valori non si adatta all’orrore dei nuovi squali; gli autori tengono a specificare che non si tratta di nostalgia per il sistema feudale e fascista del Giappone imperiale, l’eroe principale – che non aveva avuto il coraggio di uccidere il proprio compare moribondo, arso poi vivo dagli americani sotto i suoi occhi inorriditi per cinquant’anni – si inalbera quando qualcuno osa dire che almeno quelli erano morti per una causa sensata. Tutte cazzate: la causa giusta si presenta da vecchi, dopo una vita di rimorsi, sulla punta di una katana e non in guerra. Infatti non è rivivendo le imprese di gioventù che si ritrova la pace con il proprio passato, ma portandone a termine una, tenuta in serbo per tutto questo tempo in cui i reduci nippo-piemontesi si sentirono estromessi e accantonati, finché non imbracciano di nuovo la katana o il fucile.

La seconda frase è pronunciata dall’esasperazione di un animo esacerbato, in questo caso la causa continua a essere giusta, ma è stata tradita, però non si può smettere a cinquantacinque anni di distanza, perché le atrocità dei repubblichini non si possono archiviare, almeno finché qualcuno ricorderà o avrà visto (come Gaglianone all’Archivio della resistenza) documenti, fotografie, assistito a racconti di storia orale. E proprio oggi giunge la notizia della morte di Carla Capponi, medaglia d’oro della Resistenza, partecipante alla azione di via Rasella, una testimone di eventi che bisognerà perpetuare in qualche modo anche oltre alla sparizione dei protagonisti. E che invece come il partigiano della fiction in i nostri anni (anche nella realtà perseguitato dalla giustizia per azioni ai danni dei fascisti amnistiati dal ministro dell’interno Togliatti) ha dovuto subire persino processi. Ovvero, citando una battuta del film giapponese: "Cosa accade ai ricordi quando si muore?"

I nostri anniNella prima fase Gaglianone si affida ai dettagli: la pietra del torrente, il secchio, l’accetta ,le rughe dei volti. In questo emerge la tradizione della documentazione di una quotidianità il più possibile colta nelle pratiche semplici; poi, come per i samurai di Wasurerarenu-Hitobito, spicca il volo l’evento narrativo che galvanizza i due vecchi, che acquisiscono una statura sempre più eroica, ma senza lo stantio di certa retorica istituzionale: questo aspetto ha tre differenti momenti e sviluppi segnati da: la decisione di vendicarsi, l’incontro con la realtà odierna – il compagno giovane che incrociano e verso il quale nutrono perplessità, riconoscendo una carenza di reali forme antagoniste, ma anche i carabinieri che potrebbero scoprire il fucile – e da ultimo il melodramma conclusivo al cospetto del nemico, che rimane tale, riconosciuto e una volta di più "esorcizzato" (tanto per utilizzare un parametro da inizio festival).

Ciò che differenzia i tre lavori sono i materiali: pura fiction quello giapponese, che al più usa un cromatismo più virato sul technicolor e si lascia andare a differenziare il presente dalla rievocazione, collocando quest’ultima in situazioni per le quali la luce (ad esempio del falò) differenzia le due situazioni temporali, un espediente simile a quello necessario a Gaglianone per commutare dal 2000 al 1944, il quale però produce un lavoro filologico sulla grana e sulle sfocature delle riprese amatoriali che documentano la guerra partigiana, realizzando immagini che potrebbero essere autentiche e poi riesce a mescolare i ricordi con la presenza dei due vecchi nella radura di allora, ma con il loro aspetto attuale. Il film sulla recente guerra di Bosnia è un documentario che ha come principio l’uso di materiale rigorosamente autentico e anti-narrativo. Il più avvincente dei tre è la commistione che già tecnicamente, pur mantenendo una chiara distinzione tra ambiti descritti, impedisce di prescindere nelle singole situazioni dalla ferita non rimarginabile delle altre contingenze mostrate.

Altro aspetto comune è il coraggio infuso dalla vitalità dei protagonisti: chi ha esperito la guerra si aggrappa alla vita che ne deriva i sentimenti, sia essa la madre ormai senza speranze di trovare ancora in vita i figli piccoli e il marito, portati via dai serbi nella guerra bosniaca, che teme addirittura di riuscire a coronare la propria ricerca, poiché dopo la vita non avrebbe più scopo; sia per i giapponesi (la ragazza esplicita verbalmente: "Sono tutti pieni di vita. Stare con loro mi dà coraggio"), che dopo un periodo di rimorso per essere sopravvissuti (Alberto in I nostri anni dice: "Sai cosa ci ha fregato? Il pensiero di essere rimasti vivi"), trovano ragione di esistere mantenendosi vigilanti su un sistema di valori sotto attacco del liberismo e delle sette antidemocratiche, alle quali fa da simile contraltare una situazione come quella estrema e violenta descritta in Kichiku dai Enkai e che non può che cercare radici nella fedeltà a quella comunità di giovani con il comune intento di tornare a casa vivi; sia soprattutto per i due anziani piemontesi ribelli della montagna, magari anchilosati dagli acciacchi, ma come due segugi che sentono l’odore della pugna, ringalluzziti dall’opportunità di saldare qualche conto in sospeso da troppo tempo.

L’universalità dell’argomento è dimostrata dalla presenza della propaganda in tutti i testi presi in esame, imprescindibile per la setta di "pupazzi da ventriloqui" dell’Utopia Corp. (quanto identica alla struttura del partito-azinda! E quanto insensibile nel perseguire interessi che passano sopra la privacy, intesa anche come dolore privato, covato e nascosto anche a se stessi), ma presente in absentia anche in I nostri anni, dove si avverte l’urgenza di fare azioni dimostrative nei confronti di coloro che si permettono di asserire che "i morti sono tutti uguali" ("ma i moribondi no" s’indigna Natalino) o che si era in guerra ("Io non sono mai stato soldato", ancora Natalino) e tutte le altre campagne revisioniste (da Vivarelli in avanti i vari arnesi repubblichini che vengono fuori dalle fogne in questo periodo, in cui si sono addirittura camuffati da comunisti), rinfocolate dalla credenza che il male assoluto non esista, come dicono i ventriloqui della Utopia Corp.

Crvene Gumene ChizmeLa scelta delle immagini dei repertori: tra tutte una carezza, merce rara e inusitata in periodo bellico è lo splendido gesto che Gaglianone ha voluto incastonare tra le situazioni dei due amici ancora montate in modo alternato. Gli stivali rossi del figlioletto sono il repertorio che manca e sfugge anche alla vista della mdp di Crvene Gumene Chizme; ma è stampato nella memoria della madre e nei nostri occhi dal cappottino rosso di Schindler’s List. La prima volta che appare l’armonica, McGuffin del lavoro nipponico, è al collo dell’amico bruciato, viene mostrata in sogno e quasi onirica è la sequenza in cui i tre vecchi arrivano a passare il testimone al bambino, consegnandogli l’armonica.

Quella del sogno è una dimensione-alcova che è anelito di molti film mostrati in questi ultimi giorni: Romero, ma anche Aronofsky lo adottano come rifugio e luogo teatro delle proprie vendette, come i due partigiani ne fanno invece una proiezione del luogo dove andare a commentare la loro incruenta vendetta: insieme a Silurino, finalmente rappacificato con le loro coscienze, non certo con quella del vecchio fascista, che non a caso poi fu capo del personale, con il quale si può riattraversare quel ponte guadato con una scelta collettiva.

Adriano Boano