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reportage da festival ed eventi, interviste e incontri
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Torino Film Festival 2000Rapporti tra uomini e donne attraverso tempi e culture diverse, e modi diversi di fare ed intendere il cinema
(altre visioni al 18o Torino Film Festival)

Tre donne italiane sono le protagoniste del nuovo film di Piergiorgio Gay, "Guarda il cielo", che sembra così riproporre la formula a tre di "Tre storie". Tuttavia, mutatis mutandis, la storia sembra essere una ed una soltanto: a cambiare sono solo le facce ed i luoghi, e neanche sempre, dal momento che per i tre ruoli femminili Gay si affida sempre alla stessa attrice, Sandra Ceccarelli. E così vediamo come attraverso le epoche (si passa dagli anni '40 agli anni '60 ai giorni nostri) la donna si trovi sempre a dover cercare, faticosamente, di conciliare lavoro ed affetti, spesso non riuscendoci se non ad un prezzo molto elevato, se non costretta a scegliere tra le proprie idee e la propria famiglia. La metafora della stessa donna il cui volto non cambia attraverso le epoche è troppo evidente per non risultare alla fine banale (così come il nome di battesimo che inizia in tutti e tre i casi con la stessa lettera "S"), e la regia è talmente piatta da far pensare piuttosto ad uno scenggiato televisivo che non ad un film. "Guarda il cielo" risente dunque del difetto che finisce spesso con l'uccidere troppo cinema italiano: i contenuti, le storie, sono messi sopra a qualsiasi cura e attenzione verso gli aspetti formali della lavorazione filmica, quasi che questi possano nuocere a quelle.
Ben altro spessore dimostra da subito possedere un recente film di James Toback, "Two girls and a guy", presente nella personale che il Torino Film Festival dedica al regista americano. Qui le donne sono due, diversissime: bionda, femminile, elegante, colta e raffinata l'una, bruna, mascolina, sbarazzina e piena di iniziativa l'altra. Due donne tanto diverse da rappresentare quasi le due anime della Donna, e comunque da rivestire, insieme, una cospicua parte dell'universo femminile. Le due donne escono, senza saperlo, da mesi con lo stesso uomo: un ragazzo dalla personalità scissa e confusa, che si ripara dietro al suo essere un attore (ricordo con piacere un seminario cui assistetti tempo fa, quando andavo ancora all'università, cui partecipò il grande Marcello Matroianni; in quell'occasione, di fronte alla domanda di una studentessa, Mastroianni consigliò a tutte le donne presenti in sala di non innamorarsi mai di un attore, perché è impossibile capire quando recita e quando invece fa sul serio) e che, probabilmente, nell'accompagnarsi a QUELLE due donne, rivela il suo non saper scegliere una donna. E dietro ad un uomo che non sa scegliere una compagna per la propria vita c'è spesso un uomo schiacciato dalla figura femminile per eccellenza, quella materna (di qui l'insistere del ragazzo su Amleto, in quanto anima divisa in due e anima ossessionata dalla madre). In realtà la storia che racconta Toback è vecchia come il mondo: luo, lei, l'altra (e qui la ragazza bruna rivela la maggiore trasgressività dichiarandosi disposta a portare avanti un rapporto a tre). Ma ad un testo che potrebbe essere magnificamente rappresentato anche a teatro (l'azione si svolge nella quasi totalità nell'appartamento del ragazzo) un regista decisamente padrone del mezzo filmico riesce ad imporre dei guizzi formali notevoli, dal ragazzo che parla attraverso una parete semitrasparente dalla quale filtra solo la sua ombra, al ragazzo ripreso in un gioco di specchi che ne duplica l'immagine, per poi triplicarla ed includerla nel volto delle due donne (e l'appartamento stesso, per quanto "ereditato" come i personaggi ci rivelano nel corso della storia, sembra rispecchiare il carattere del ragazzo, essendo un ambiente indefinito, per lo più simile ad un loft, senza grande soluzione di continuità tra una stanza e l'altra).
Se il film di Gay ci conduceva, insieme ad un volto femminile pressocché sempre uguale, attraverso varie epoche, il film di Jillali Ferhati, "Tresses", ci porta di peso in un'altra cultura ed in uno spazio tanto vicino quanto lontano, il Marocco. Eppure la storia che racconta sorpassa tristemente i confini tra le culture: una bella ragazza vivace ed estroversa perde completamente la gioia di vivere in seguito ad uno stupro. La cosa si complica ulteriormente se lo stupratore è Hicham, il figlio del'uomo presso il quale la sorella lavora come cameriera, un noto avvocato che ha appena deciso di lanciarsi in politica e che sta aiutando la donna (un po' per vero interesse umano, ma soprattutto per procacciarsi voti rendendosi artefice di una buona azione) il cui marito è ingiustamente in prigione. La crudeltà della storia e la violenza, tanto sottile quanto manifesta, che informa di sé i rapporti tra i personaggi contrasta con un'ambientazione solare, bianca, luminosa. Nel gioco continuo di luci ed ombre (Saida, che veste sempre abiti sgargianti, ora porta un nero strettissimo, la sua allegria si chiude nel mutismo della vita interrotta per un atto di violenza), di bianco e nero si staglia il rosso del sangue di Hicham, colpito nella notte da un volontario politico della fazione avversa a quella del padre, e trovato dal fratello tredicenne di Saida che, sebbene incapace di dargli il colpo di grazia, si guarda bene dal chiamare aiuto, lasciandolo così morire. Quasi tutti i personaggi del film hanno un ruolo: sono sorelle, fratelli, figli, padri, mariti. E nella difficoltà dei loro rapporti si inserisce la figura, splendida, dell'intrecciatore di gabbie per uccelli. Un uomo semplice, silenzioso,ingenuo, che osserva a distanza, e che sembra essere quasi l'alter ego del regista, capace di raccontare, non senza appunto qualche ingenuità, una storia difficile di rapporti umani. Che, in fondo, potrebbe accadere anche qui, due piani più sotto o tre isolati più avanti.

Federica Arnolfo