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Panic Room
Anno: 2001
Regista: David Fincher;
Autore Recensione: adriano boano
Provenienza: Usa;
Data inserimento nel database: 25-04-2002


Panic Room
Panic room
Narrazione spazio-ribaltata

regia.......................... David Fincher

sceneggiatura................... David Koepp
fotografia................... Darius Khondji, Conrad L. Hall
scenografia................ Jon Danniels, Garrett Lewis
montaggio.................. Jim Haygood II, Angus Wall
musica.................. Howard Shore

Produzione
Ceán Chaffin .... producer
John S. Dorsey .... associate producer
Judy Hofflund .... producer
David Koepp .... producer
Gavin Polone (II) .... producer
distribuzione............ Columbia Tristar
Usa, 2001, 1h 52'.

cast:
Jodie Foster .... Meg Altman
Kristen Stewart .... Sarah Altman
Forest Whitaker .... Burnham
Dwight Yoakam .... Raoul
Jared Leto .... Junior
Patrick Bauchau .... Stephen Altman
Ann Magnuson .... Lydia Lynch
Ian Buchanan .... Evan Kurlander
Andrew Kevin Walker .... Sleepy Neighbor
Paul Schulze .... Officer Keeney
Mel Rodriguez .... Officer Morales














«Non ha un po' troppe scale?».
«È stata rimpicciolita questa stanza?».
I due rilievi relativi allo spazio domestico sono il viatico su cui s'incentra il racconto visivo, il cui canovaccio non ha alcuna importanza, come ribadisce più volte la sceneggiatura («Perché è così che finirà»): dunque l'intento che ha mosso gli autori va ricercato altrove.
I due agenti immobiliari sono imbonitori, subdoli ed evidentemente omertosi: degna introduzione a quello che è in realtà un lavoro sulle percezioni di quanto avvertiamo essere una realtà comunque manipolata dalle immagini, in maniera ancora più palese quando la storia si dipana sotto i nostri occhi, ripresa da molteplici punti di vista che corrispondono ad attese diverse. Il tutto mescolato all'impossibilità di comunicare con un lontanissimo mondo esterno all'involucro che racchiude innanzitutto la diffidenza (Meg non fa il gesto suggerito dal poliziotto, e questo non si spiega se non con la fiducia solo nelle proprie forze): infatti uno dei primi oggetti inquadrato a nostro beneficio subito dopo l'incursione è il cellulare abbandonato "fuori", estremo strumento di potenziale quanto improbabile comunicazione, la cui fallace ricerca è dilatata dal rallenti della missione.
Quelle due domande iniziali sono passaggi che accentuano la sensazione di trovarsi in meandri estesi non solo in senso orizzontale, ma soprattutto verticale, al centro tridimensionale del quale è sospesa la stanza del labirinto; quella del panico, ma anche quella della crisi insulinica, del ripiegamento fetale, della sensazione di insicurezza che già aleggiava nella perlustrazione con i due agenti immobiliari scostanti (che insuflano come telegiornali di regime il senso di insicurezza per scopi commerciali); è la camera degli orifizi, di cui spesso ci troviamo a diventare soggettiva insinuantesi nelle pieghe del racconto classico: sarebbe interessante che qualcuno avesse tempo e voglia di evidenziare le peculiarità dei tre gruppi di autori che hanno affrontato situazioni claustrofobiche classiche quest'anno, risolvendole in modi così disparati: Mullholland Drive - nelle solite componenti lynchiane dei luoghi chiusi che si deformano soprattuto nella dimensione temporale, confondendo le individualità, mentre Fincher preferisce agire sullo spazio per una più fredda deformazione quasi impercettibile - dal lato allucinatorio di costante ribaltamento e confusione spazio-temporale, The Others per il coté che risolve jamesianamente l'inquietudine dello spazio domestico, e questo Panic Room che ossessivamente cerca di delimitare gli spazi del proprio territorio, ritrovandosi poi per ciascun protagonista ad abitare l'altro spazio in un costante ribaltamento che coinvolge pure (e soprattutto) quell'interstizio dominante che sono le telecamere: non a caso la donna vince dopo averle distrutte, un gesto esemplare, paradigmatico, poiché il resto delle immagini che ci hanno narrato la vicenda sono parziali, contengono in sé già il giudizio sul livello di sicurezza che ogni ambiente conferisce: la dominante calda illude sull'accoglienza del ventre materno (Jodie Foster era anche - un caso? - incinta), che poi si rivela subdolo bunker soffocante, alla cui logica opprimente Sarah cerca di sfuggire elencando i dischi dei Beatles, ovvero quanto di più lontano l'immaginario collettivo associa all'oppressione della fantasia; l'esterno percorso da lame di luce è esposto al mondo di fuori, non in grado di intervenire e comunque di cui bisogna diffidare. Al punto che le uniche immagini del mondo estranee al kammerspiel fatto di piani sequenza raccordati dall'uso smodato della carrellata in avanti in soggettiva sono relegate all'inizio e alla fine: un inizio su grattacielli newyorchesi adatti al post september eleventh (che riprende idealmente il racconto da dove Fincher lo aveva lasciato con l'esplosione finale di Fight Club) e un epilogo al parco, aurora di una fase di più umile ridimensionamento dello status symbol rappresentato dalla magione scelta.
Ciò deriva dal fatto che la vicenda ha "messo in luce" quanto fosse distorta la rappresentazione della realtà vista dall'interno del bunker. Infatti le immagini mute in bianco e nero a circuito chiuso che asetticamente descrivono l'enorme casa tradizionale sono le uniche che danno la sensazione di onnipotente supervisione e controllo, proponendo una visione "obbiettiva". La presunta verità senza filtri dell'immagine elettronica. La claustrofobia che ne deriva è accentuata dal costante confronto tra dentro e fuori, un confronto affetto da astigmatismo (quello che si vede da un lato della porta del bunker - splendida la ripresa sulla chiusura automatica che "separa" i due mondi in un apartheid dello sguardo, che è cifra e valore del film - non riesce a coincidere con ciò che il grandangolo del resto della casa racconta attraverso immagini oblique), che si confondono in virtù degli apparenti ampi spazi della dimora - resa ancora più estesa dalla penetrazione in perlustrazione della mdp negli spazi - fatalmente ristretti quando convergono attorno al bunker, e si distinguono sì per le dominanti di colore, che dentro "la stanza" sono azzurrognole, perché ricevono dalla casa le immagini delle telecamere, mentre il resto della dimora immersa in un buio da racconto gothic (adatto ai racconti da incubo inventati sulla east coast ai tempi di Poe, evocato con l'allusione iniziale a Sepolta viva, paura atavica che fa da base claustrofobica alla paura per un mondo non interpretabile con i mezzi a disposizione) viene percepito come unico "fuori" possibile, evidenziando quel malaticcio ocra riflesso dalle luci di Manhattan (dunque ciascuna componente è formalizzata dall'involucro che lo contiene e che lo racchiude), ma soprattutto si distribuiscono lungo due ordini di riprese: quelle centripete che mettono nel fulcro del loro epicentro il bunker, che sono statiche, come sospese in attesa di poter tirare un po' il fiato - la condizione dell'assedio, il cui stato di immobilità forzata è incarnato dalla ragazzina androgina, rannicchiata contro la parete -, a cui corrispondono quelle centrifughe, molto dinamiche che rappresentano i rapporti tra i due mondi. Che l'azzurro sia la valenza cromatica del dentro - sempre comunque inquietante e pericoloso - si impone alla nostra percezione anche nell'episodio del gas, che diventa un boomerang in mano a un esaltato, fatto di lingue bluastre scatenate verso l'esterno, infido e percorso da ombre, fantasmi casalinghi che aggiornano i timori americani, una volta (The Others) provenienti dall'incapacità di accettare l'orrore emanato dalla propria storia, adesso non solo assediati dai diversi (come nel vecchio carpenteriano Precint 13th o dai morti viventi, comunque sempre prodotti autocratici), ma insidiati all'interno dei propri bunker, non così isolati come si potrebbe credere e nient'affatto sicuri.

Di nuovo si sottolinea che non ci possono essere rapporti tra i due mondi, quello di garantiti ricchi, che affogano dispiaceri in una vasca dove sorseggiare vino (la macchina da presa indugia a lungo sul bicchiere in primo piano o inserito nell'inquadratura in modo che sia evidente che le immagine associate sono frutto di una ulteriore deformazione, questa volta in una traslata soggettiva di Meg: stato di allucinazione alcolica progressiva sembrerebbe volersi convincere l'eroina al risveglio) e quello di poveri violenti che accerchiano il fortino - mentre Lynch, come sempre, metteva in scena incubi tutti compresi all'interno della propria mente e Amenábar faceva i conti con il passato nordamericano, qui si assiste a una metafora della paura degli eserciti di emarginati esclusi che premono sul fortilizio del benessere: la casa è accessoriata come le strade delle metropoli occidentali, occupate da telecamere che riprendono instancabilmente gli ignari passanti e mai il trascorrere della storia fatta di attentati e terrorismo di stato: più che una plausibile ricostruzione di una casa di cui permangono le vestigia della tradizione, è un'evidente metafora dell'atteggiamento dell'emisfero benestante contro il resto dei diseredati: speriamo che la fine sia quella di Fort Alamo -, tranne alla fine quando inopinatamente il "Ghost Dog" Whithacker diventa il deus ex machina, invertendo per l'ennesima volta l'interpretazione delle forme attraverso cui si impone l'intreccio, che così mette in discussione (spiacevole la coda nel parco a cui si demanda il "sugo" manzoniano, dove si dimostra ulteriormente l'assunto del film, esplicitandolo una volta di troppo) tutte le motivazioni che potrebbero legittimare gli apparati di controllo e repressione messi in atto per difendere il territorio da un nemico che rivela la propria umanità fin dall'iniezione salvifica che corona il più significativo ribaltamento del film, costellato da costanti capovolgimenti di spazi e situazioni: la sostituzione degli occupanti del bunker. L'attenzione alle forme, narrativamente significative, lascia poco spazio alla evoluzione dei personaggi, ingessati nei loro ruoli, perché sono riconducibili alle diffidenze infitte nei pregiudizi che rappresentano; tanto che la svolta finale preparata da fugaci sguardi del magnetico ciccione afroamericano, giunge irrisolta e non frutto di costruzione in sede di sceneggiatura, tutto regge per la professionalità di tre mostri sacri quali sono: Bauchau (il mitico Adrien della Collezionista di Rohmer, rilanciato da Lisbon Story e re magio per Citti e qui costretto a una immobilità, a un ruolo da fantoccio riuscitissimo per totale immobilità); il samurai Whithaker, il cui carnet vede Good Morning Vietnam a 26 anni e l'eccezionale cammeo di Smoke; della bambina Coppertone e genio precoce di Taxi Driver è inutile ricordare i fasti. Ma anche questo è la dimostrazione che il plot è sempre più un pretesto funzionale a realizzare combinazioni di diverse tradizioni narrative forse con lo scopo di individuare uno sguardo capace di arginare il pensiero unico, che produce anche tutte quelle chiavi riprodotte nel film - ammirevole perché riesce comunque ad amalgamarle in un unitario racconto - e scardinate dall'interno, lasciandoci soli alla mercè di un gioco (ricordate The Game?) claustrofobico che riproduce la nostra condizione di controllati e controllori, di sepolti vivi nelle nostre case isolate dal mondo; di fobici narratori di incubi, destrutturati dall'interno, facendolo diventare un esterno delle cui strutture più facilmente disfarsi, magari distruggendone le "telecamere". in realtà si direbbe un ideale proseguimento della lotta contro i nostri infiniti doppi già in Fight club, trasformati in nuove diverse paure: quell'interno ostile, che trovava emanazione in Brad Pitt nel film precedente, diventa qui una nuova forma di disturbo psichico, che fin da Seven ossessiona la filmografia di Fincher, una poetica perversa, che sporca ogni soggetto (e soprattutto oggetto) su cui posa lo sguardo.