Un regista spagnolo racconta la storia di una donna come se
Almodòvar e Carlos Saura non fossero mai esistiti (eventualità tutto sommato
non troppo grave). La donna si chiama Grace, ha il volto di Nicole Kidman e fa
pensare alle figure femminili del cinema di Hitchcock; senza nostalgia
patinata, però: The Others è senza dubbio, insieme a Le verità
nascoste e The gift, il presente del cinema sotto forma di thriller
metafisico. Il racconto è costruito nella più stretta osservanza delle regole
del suspense, in una declinazione appena più elegante della classica
ghost-story, nel sottogenere della casa infestata. E’ un meccanismo narrativo
così noto che il film può permettersi di rovesciarne esattamente lo schema
sotto gli occhi dello spettatore, senza che questi se ne avveda; lo
scioglimento strappa l’applauso e in più non costringe, come Il sesto senso,
a ripensare alla luce dell’ultimo colpo di scena quel che si è visto per due
ore – il cinema è di per sé una “seconda volta”, e a giocare con la memoria ci
si stanca.
Capirà il lettore
che sulle vicende narrate è meglio tacere, o al limite anticipare appena gli
elementi in campo, che sono: la madre di due bambini fotosensibili, una casa
tetra avvolta dalla nebbia, tre servitori che vi giungono per offrire “aiuto”,
e un contorno di strane presenze avvertite in forma di voci, rumori,
spostamenti. Quella che andiamo a rivelare, piuttosto, è la natura di un film
le cui immagini la forza di condurre l’intreccio, anziché farsi condurre da
esso. Ci sono personaggi notevolissimi (serviti da splendidi attori), in The
Others, e si percepisce l’eco distinta del cinema che più amiamo, da La
donna che visse due volte a Shining, passando per La camera verde
e il Frears di Mary Reilly; ma quel che permette di distinguere un film
concepito in forma di semplice omaggio, con tanto di strizzatina d’occhio al
cinefilo, da un’opera dotata di un valore autonomo rispetto ai tempi e ai
modelli, è l’impiego sistematico dei mezzi che adotta: e in The Others
si ha sempre la misura del contributo unanime e costante degli elementi in uso,
che vengono fatti interagire ad arte non banalmente per confondere, ma per
invitare a guardare il mondo dietro il mondo.
Il procedimento
non è estraneo a quello che conosciamo nel sogno: notava Coleridge (che deve
aver sognato tanto) come le immagini che ci si presentano in sogno altro non
siano se non la rappresentazione delle impressioni che riteniamo provochino; il
rapporto di causalità è pertanto invertito rispetto a quel che crediamo, come
ha ben spiegato Borges (altro sognatore) con l’aforisma: “Non sentiamo orrore
perché ci opprime una sfinge, sogniamo una sfinge per spiegare l’orrore che
sentiamo”. Le ombre immense che si riversano nelle stanze di Grace sono la
causa di un’atmosfera greve di angosce – o ne sono l’effetto, il prodotto
visibile? Ad Alejandro Amenabar, regista di indubbio talento, riesce di
edificare un sistema complesso a partire da un principio semplice, lavorando,
piuttosto che nell’ottica dell’accumulo e dello spreco (come il Craven di Scream),
in quella dell’economia narrativa e del dettaglio.
In un sistema
siffatto si fanno notare non solo i movimenti di macchina (meravigliosa la
panoramica orizzontale sulla Kidman, che la macchina da presa lascia andare
avanti per poi raggiungerla un attimo prima dello stacco) ma anche i punti di
vista, gli oggetti, gli spazi. Spiace che un Festival rispettato (per quanto
ancora?) come quello di Venezia abbia preferito le chincaglierie indiane o il
piagnisteo nazionale ai fantasmi di Alejandro Amenabar, uno spagnolo che
innesta su solide geometrie narrative una vasta cultura visiva al cui centro
riconosciamo la lezione luminosa di Barry Lyndon.