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Apri gli occhi
Anno: 1997
Regista: Alejandro Amenabar;
Autore Recensione: Adriano Boano
Provenienza: Spagna;
Data inserimento nel database: 01-09-1998


Apri gli occhi di Alejandro Amenàbar

Regia:Alejandro Amenábar
Sceneggiatura: Alejandro Amenábar, Mateo Gil
Fotografia: Hans Burmann
Operatore: Claude Garnier
Scenografia: Brigitte Brassart
Suono: Goldstein y Steinberg
Musica originale: Alejandro Amenábar, Mariano Marín
Montaggio: María Elena Sainz de Rozas
Effetti: Colin Arthur
Interpreti: Penélope Cruz, Eduardo Noriega , Najwa Mimri, Fele Martínez, Chete Lera, Gérad Barray
Direttore Artistico: Wolfgang Burmann
Produttore esecutivo: José Luis Cuerda, Fernando Bovaira
Produzione: Producciones del Escorpión, Sogetel,
Les Films Alain Sarde, Lucky Red con la participación de Sogepaq y la colaboración de Canal+ España

Formato: 35 mm.
Durata: 119 min.
Provenienza: Spagna
Anno: 1997


Esse est percipi: in questo caso il soggetto è lo stesso personaggio percipiente, che esiste solo in virtù del fatto che crea gli altri che interagiscono con lui, percependolo.

Periodicamente qualche autore si cimenta con il dubbio che la realtà sia un´illusione. Una circostanza legittimata anche dalla natura della rappresentazione cinematografica. Sempre, in questi casi, si giostra il racconto su vari piani, richiedendo la complicità dello spettatore, con il quale si decide di condividere la percezione di realtà assegnata ad uno dei mondi messi in scena come piano del reale rispetto a quelli surreali. Talvolta si tratta di pratiche maieutiche, che consentono di prendere coscienza di eventi negati dall´inconscio; spesso si risolvono con una arzigogolata spiegazione verbale nell´epilogo. Più raro è il caso in cui dai vari livelli di narrazione affiori un disegno unico gradualmente in grado di indirizzare sui binari della soluzione prospettata dallo sceneggiatura.

La vida es sueño trascolora in "una pura formalità", ma le situazioni sono così deja vu da non sorprendere. Forse però è un effetto voluto, vista la quantità di volte che si fa riferimento all´errore del cervello alla base dell´impressione di ri-vivere una situazione: tanto che si arriva a non stupirsi delle soluzioni prospettate nel finale del film. Tra i molti epiloghi aperti Amenabar propende per una spiegazione inquietante proprio in base alla preparazione, che fin dall´inizio fa riempire di sogno una angosciante Madrid surreale, demandando la presenza delle persone alla volontà del cervello. Lisergico.

Dunque ci si aggrappa ai pochi appigli offerti per districarsi nel labirinto onirico di epoche e ruoli più volte ribaditi come menzogna di attore allo scopo di abituarci alla rivelazione (che potrebbe coinvolgerci tutti) che ogni cosa è una nostra proiezione: César attribuisce azioni, luoghi, emozioni e vi fa capitare ciò che vuole, come se fosse in un film ("Gli attori non sono gente onesta: fanno sempre una parte"). Tra i primi indizi vi è la frase: "L´unica cosa che sembra reale", riferita al pavimento su cui si compie il travaglio di César alla ricerca di una sfuggente realtà sepolta nel ricordo che non vuole emergere dallo stato di prostrazione, ben evidenziato dalla suola della scarpa dello psichiatra che campeggia sullo schermo, schiacciando la figura mascherata e dubbiosa, rannicchiata in basso a destra.

Si inseriscono distrattamente le prime intromissioni dell´enigmatico Serge Duvernois, deus ex machina finale (l´aspetto meno azzeccato del film è il finale alla The Game, ma verboso: sarebbe stata un´alzata d´ingegno inventare qualche genialata per narrare gli eventi, pur mantenendo, come qui, una possibile ambiguità) E questa è la bravura del regista, capace di sottolineare battute e situazioni in un climax che gradualmente insinua dubbi nello spettatore nei momenti giusti per condurci al lento ribaltamento dell´universo di riferimento: così l´intreccio perde l´effetto sorpresa, ma guadagna in plausibilità ed in spessore filosofico.

 

Interessanti sono le apparentemente inutili ripetizioni di battute ("Credi in Dio?" gli viene chiesto tre volte) o di situazioni (gli innumerevoli risvegli di César o la ricorrente firma sfocata e irrecuperabile dalla memoria), che in virtù della loro iterazione sono capaci di offrire soluzioni all´intero plot.

Altrettanto pregevole è la sovrapposizione delle due figure di donna resa plausibile dal taglio imposto al plot (una femme fatale ricamata su Louise Brooks come Nuria, altra faccia di Sofia, Penelope Cruz che interpreta una mimo nel ricorrente parco delle fantasie oniriche di César), dal quale subito traspaiono segnali, che rendono insicura la percezione di realtà ed incerti i riferimenti.

In un´altra suggestione iconica godibile si osserva la maschera immota calzata sulla nuca di César che vomita con il suo volto deformato: si crea una schizofrenia di fruizione tra un volto immoto offerto al nostro sguardo e l´azione svolta da una faccia nascosta dell´attore.

 

La porzione di film meno sgangherata (l'aspetto debole si può individuare nei dialoghi iniziali: imbarazzanti) vede Eduardo Noriega (già impiegato nel primo film di Amenabar, Tesis, sbalorditivo successo della stagione 1996) impegnato in una buona prova d´attore, mascherato per nascondere il volto deturpato dalla vendetta di Nuria, ripiegato su se stesso nel confronto con lo psichiatra del carcere, impegnato nello sforzo di ricordare. Questo ambiente presumibilmente organizzato dalla sua mente è il brodo di coltura psicanalitico che genera finalmente una coscienza di sé e quella particolare spiegazione del mondo.
Risulta il momento migliore perché la presenza autoriale si fa più sfumata rispetto ai raccordi talvolta bruschi e legittimati soltanto dalla forte prescrittività del regista, al quale interessa mantenersi fedele alla sceneggiatura forzatamente rigorosa per la difficoltà della materia, ma poi si diverte a ricamare giochi sul tema, che diventano le pregevolezze maggiori, pur disorientando (o lo spaesamento è voluto?).

Peccato che l´orologio al polso di César riverso nella via dopo la discoteca in una Madrid notturna deserta segnasse incongruamente le nove di sera, rovinando proprio il momento scelto come perno del film: quella condizione era l´ideale per raccordare la vita vissuta e quella sognata post-mortem. Ecco quel dettaglio dell´orologio fa la differenza tra la meticolosa indagine condotta da Polanski nel film di Tornatore e questa piacevole pellicola di un regista di venticinque anni, recitata benissimo (la dolce Penelope Cruz occupa i sogni marcando una crescita del suo personaggio, da sbarazzina amante a amica preoccupata fino a divenire vittima incantata di un racconto che tocca tutte le corde della narrazione) e montata meglio, in una costante rincorsa tra i diversi ambiti descritti, collegati classicamente. Solo a tratti risulta stucchevole il ripetitivo gioco del sogno come incubo, che avrebbe potuto aggrovigliare molto di più l´intreccio, paradossalmente salvato dal proprio carattere derivante da situazioni tipicamente cinematografiche che compongono l´immaginazione del protagonista fino a renderlo sceneggiatore di se stesso.

In Spagna il successo fu travolgente, tanto da superare gli incassi di Titanic.