1. Dubbio: perché non vi siete ribellati? Il rabbino chiede cosa potevano fare, ma è proprio da lui che gli autori hanno cominciato a interpretare il libro di Arendt.

E Lyotard: "Nei campi non ci sarebbe stato alcun soggetto alla prima persona plurale. In mancanza di un tale soggetto, non ne resterebbe "dopo Auschwitz" nessuno, nessun Selbst in grado di nominarsi nominando "Auschwitz". A questa persona non sarebbe consentita nessuna frase flessa alla prima plurale: noi facevamo questo, provavamo quest'altro, ci facevano subire quella umiliazione, ce la cavavamo nel seguente modo, speravamo che, non pensavamo a ... e persino: ognuno di noi era ridotto alla solitudine e al silenzio. Nessun testimone collettivo, In molti ex deportati, il silenzio. La vergogna e la collera di fronte alle spiegazioni, alle interpretazioni, per sofisticate che siano, dei pensatori che dicono di aver trovato un senso alla merda" (J.F.Lyotard, Le différend, Les Éditions de Minuit, Paris, 1983, trad.it. Il Dissidio, Feltrinelli, Milano 1985, p.128). Ed infatti la sfilata di testimoni quasi afasici nel film denuncia il loro carattere di ombre, defraudate della loro natura di reduci e sono presentati singolarmente, privi di una qualunque caratteristica volta ad accomunarli. Eppure sono entità comune e ritrovano spessore di singoli e di comunità che ha subìto un torto nel momento in cui trovano modo di negare il sistema che li vide succubi, inermi: nella vendetta e nell'esecuzione del funzionario, ingranaggio fondamentale per il funzionamento della Shoa. Decisamente diverso il processo intentato da Tutu e Mandela contro l'Apartheid.

E Arendt: "I campi di concentramento e di sterminio servono al regime totalitario come laboratori per la verifica della sua pretesa di dominio assoluto sull’uomo" (cfr. op. cit., pg. 599). La Arendt si interroga, e noi con lei, sul perché uomini costretti ad indicibili sofferenze e votati a morte certa, non si ribellassero, non preferissero morire combattendo, se non altro per eliminare dalla faccia della terra alcuni dei lori aguzzini. "Presumibilmente si troverà qualche legge della psicologia di massa capace di spiegare perché milioni di uomini si lasciarono portare incolonnati senza resistere nelle camere a gas" (cfr. op. cit., pg. 623). La spiegazione sta nel fatto che coloro che venivano portati a morte, erano già "cadaveri viventi". Il sistema totalitario mirava ad uccidere prima la personalità morale delle sue vittime.

Le vittime, fa osservare Sivan, sono state messe al centro di tanti film sull'argomento, compresi quelli di Spielberg che "mostra le SS così come avrebbe fatto Leni Riefensthal" e di Benigni, autore di un film "pericoloso perché insegna ai bambini che i genitori possono anche mentire. A differenza che nel suo film io non ho voluto raccontare una favola, ma una cosa assolutamente vera, con un approccio politico e non religioso" (intervista di Fulvio Caprara per La Stampa)

2. Il travet alla fine gesticola, consapevole che la sua "logica" non ha fatto breccia: secondo la sua follia egli era come un Travet del trasporto, partecipava, ma era privato di responsabilità perché riceveva ordini. In gioco erano valori costitutivi: insomma un idealista. Arriva a dire che egli si sente umanamente responsabile perché era un ingranaggio del sistema di sterminio, non può negare di essere stato a conoscenza, ma si sente liberato dalla responsabilità. Insomma "Io non vuol dire Io", come dice il giudice.

Eichmann conferma l'orrore di far organizzare lo sterminio alle vittime stesse e confessa propositi di suicidio nel caso fosse stato assegnato allo sterminio diretto, vorrebbe fare un libro per evitare il ripetersi di atti tanto mostruosi, però non si sente responsabile perché erano ordini e aveva fatto un giuramento (rumore di treno lo condanna, unico elemento esterno al Kammerspiel).