b.Fonti Orali

3. Ausilio cinematografico, che ci viene quasi integralmente negato, perché non dobbiamo lasciarci fuorviare dalle immagini, parziali per quanto atroci, comunque riduttive rispetto alla portata immane dell'orrore, sicuramente falsificanti perché danno una dimensione contenibile in uno spazio bidimensionale di una tragedia incommensurabile: infatti la scelta è di consentirne la visione obliqua, surreale, quasi illeggibile di quadri sbiaditi; evocativa appunto di quanto sta dietro a quei pochi fotogrammi rubati, negando loro il valore di testimonianza.

L'unica testimonianza valida è quella in negativo delle carte sventolate da Eichmann o le parole dei testimoni lontane dalla realtà: la differenza con Spielberg è che qui è proprio ciò che si vuole dimostrare, là si crogiola in ricordi non tramandabili e anche l'approccio a testimonianze inserite con lungimiranza vanno ora interpretate e contestualizzate

Probabilmente perché il modo in cui ci sono state tramandate le immagini ha qualcosa di corrotto, malato, fuorviante ab origine, tanto da indurre Günter Grass nel suo libro sul secolo (segnato dall’esperienza del Male nazista, di cui quello indagato da Arendt è solo un aspetto, quello ‘normale’, anzi ‘banale’ come definisce la filosofa e chiosa Grass, quando narra dell’incontro con Heidegger) ad affidare i racconti degli anni di guerra ad un manipolo di nostalgici fotografi e reporter del Reich, si attaglia perfettamente alla materia trattata in questo breve saggio perché fa riferimento all'uso della fotografia documentaria di episodi, ma anche alla immissione dei prodotti di quei reportage tra i materiali su cui si condusse il processo di Norimberga; da notare che il fotografo protagonista dell'episodio si prospetta come cacciatore, quasi che la distruzione del ghetto di Varsavia potesse essere considerato un safari:

"Un tale che finora non aveva aperto bocca, un signore corpulento, tutto vestito da cacciatore, che, come appresi in seguito, entusiasmava una clientela appassionata di caccia con splendide immagini di animali e reportage fotografici di safari, si era trovato sul posto con la sua Leica quando, nel maggio del '43, più di cinquantamila ebrei del quartiere murato furono liquidati a colpi d'artiglieria e coi lanciafiamme. Dopodiché del ghetto di Varsavia quasi non rimase traccia.

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Come appartenente a un reparto di propaganda della Wehrmacht, lo avevano distaccato lì in qualità di fotografo: solo per la durata del rastrellamento. Inoltre - o per meglio dire: nel tempo libero - aveva riempito con le sue fotografie quell'album nero, rivestito in pelle granitata, che venne consegnato in tre esemplari al capo delle SS Himmler, al comandante delle SS e della polizia di Cracovia, Krüger, e al comandante delle SS Jürgen Stroop, massima autorità militare tedesca a Varsavia. In seguito comparve tra i documenti del tribunale di Norimberga come "rapporto Stroop".
– Quasi seicento ne ho scattate, di foto, – disse, – ma per l'album ne furono selezionate solo cinquantaquattro. Tutte accuratamente incollate su cartoncino Bristol liscio. Un lavoro riflessivo, in realtà, roba per pignoli. Ma le didascalie scritte a mano sono solo in parte opera mia. Ci ha messo il becco Kaleske, l'aiutante di Stroop. E il motto in caratteri gotici che sta davanti, "Non esiste più un quartiere ebraico a Varsavia!", è stata un'invenzione di Stroop. Comunque, all'inizio si trattava solo di sgomberare il ghetto, per un presunto pericolo di epidemie. E quindi ho scritto in bella calligrafia sotto le foto: "Fuori dalle fabbriche!" Ma poi i nostri uomini incontrarono resistenza: ragazzotti male armati, e anche donne, tra cui alcune del famigerato movimento Hechalutz. Da noi entrarono in azione Waffen-SS e un reparto di generici della Wermacht coi lanciafiamme, ma anche gente di Trawniki, che erano volontari lettoni, lituani e polacchi. Ovvio, anche noi abbiamo avuto delle perdite. Ma non le ho fissate sulla pellicola. In genere le immagini di morti sono poche. Più che altro foto di gruppo. Una che in seguito è diventata famosa dappertutto si chiamava "Trascinati fuori dai rifugi con la forza". Un'altra, altrettanto nota, "Verso il piazzale del raduno". Andavano tutti alla rampa di carico, infatti. E poi si partiva per Treblinka. Ho sentito allora questa parola per la prima volta. Ne hanno deportati quasi centocinquantamila. Ma ci sono anche foto senza didascalia, perché parlano da sole. Una è spassosa, coi nostri uomini che si intrattengono amichevolmente con un gruppo di rabbini. Ma quella che è diventata più famosa dopo la guerra mostra donne e bambini con le mani alzate. A destra e sullo sfondo alcuni dei nostri uomini col fucile spianato. E in primo piano un tenero birbantello ebreo col berretto che scivola di lato e i calzettoni. La conoscerete certamente. É stata riprodotta migliaia di volte. In Germania e all'estero. Persino come copertina. Ne fanno una vera immagine di culti, ancor oggi. Naturalmente senza mai nominare il fotografo... Neanche un centesimo ho visto ... ."

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La dimostrazione che l'icona grafica, l'immagine di culto che emoziona, non ha alle spalle un fotografo sensibile, ma un nazista chiamato dalle SS a realizzare un album fotografico, quindi quale valore potranno avere quelle immagini ?

Ma ancora più significativo è il punto di vista privilegiato dal premio nobel 1999 per illustrare il 1962: un ebreo tedesco a cui hanno massacrato la famiglia - e che non è riuscito nemmeno a ricostruire il viaggio, organizzato da Eichmann, chiamato a fabbricargli la gabbia al processo e che fa rilevare la stranezza della apertura della copertura anti-proiettile e, come si nota anche nel film, rimane colpito dalla improprietà confusionaria della lingua tedesca pronunciata dall’SS.