Reporter

NearDark - Database di recensioni

Africa

Godard Tracker


Tutte le
Rubriche

Chi siamo


Reporter
reportage da festival ed eventi, interviste e incontri
<<< torna al sommario

Festival del cinema africano - Milano, 2004
<<< Torna all'indice



Dal Cono Sur al Kazakistan passando per l'Africa
da Los Rubios a Malin'kie lijdi attraverso Ibali, The Wooden Camera, Saturday night at the palace
.
Forse non portano da nessuna parte, però è il caso di avviarsi

Il concetto di Africa è sempre più evanescente, almeno visto da qui, profondo occidente arrogante. Lo è ormai diventato anche visto da lì: dallo sguardo interno a quell'immenso continente attraversato da differenti. Di cultura africana poi è difficile parlare riuscendo a individuarla in mezzo ai pesanti condizionamenti esterni (soprattutto ora che anche Jean Rouch se n'è andato, portando via con sé l'idea di africanità sotto tutela o comunque di benevola indicazione agli africani di quale dovesse essere la tendenza della loro espressione culturale); e poi di quale zona di Africa si sta parlando? Di quali problemi e di quali società africane: quelle maghrebine, il sahel, la zona subsahariana, l'Africa nera o quella che si esprime in lusitano, in francese, inglese, spagnolo? Allora vale la pena di proporre un altro sistema di riferimenti, come da alcuni anni si preparava a fare il festival del Coe milanese: allargare il concetto di africanità ad altre nazioni geograficamente distanti ma altrettanto contrapponibili alla cultura coloniale dominante, a noi, nel nostro ridotto assaggio, limitato quest'anno a un giorno solo di festival per ragioni economiche (e peraltro abbiamo anche dovuto pagarci l'accredito) sono toccati il Kazakistan e l'Argentina.

Quest'ultima è un antico amore di cinemah: ce ne siamo occupati in momenti e sotto forme diverse, l'ultima volta durante la passata edizione del festival del cinema delle donne (lasciato colpevolmente naufragare da una miope amministrazione torinese che vede ormai solo anelli olimpici a cui impiccare qualsiasi forma espressiva, immolando la cultura al circo bianco), parlando di Los Pasos perdidos, un'altra pellicola che affrontava il terrificante sconvolgimento delle vite dei figli di desaparecidos adottati dai loro aguzzini, chiamati a riconoscere che tutto quello che sapevano di sé e dei propri parenti fino a quel momento è una solenne menzogna che non lascia nulla di autentico in ciò che sono state le loro esistenze. Anche Albertina Carri mette in scena quel dramma, ma lo può fare da un osservatorio privilegiato: se stessa, figlia di desaparecidos, quando lei aveva 4 anni.

E infatti sfrutta con intelligenza questa consapevolezza, delegando a un suo alter ego manovrato sapientemente l'Albertina alla ricerca di qualche dato per recuperare la memoria di quei due rivoluzionari che si era ritrovata per genitori, però ritaglia per sé il ruolo della regista, ma soprattutto di quella che osserva se stessa impegnata nella ricerca, in campo si vede anche lei, resa però meno vulnerabile dal fatto che l'Albertina del racconto è quella dall'altra parte dell'obiettivo, mentre lei organizza, dirige la recitazione, presenzia alle testimonianze, interlocuendo da una posizione di vantaggio derivata dal fatto che lei mantiene il proprio anonimato... prosegue la sua "mancanza di identità" - come avrebbero voluto i generali della giunta fascista - ma solo per affermarla con maggior forza nel momento in cui i ritratti dei genitori emergono con determinazione neanche narrabile dai ricordi affettuosi dei compagni sopravvissuti, incapaci in realtà di offrire analisi politiche e affidandosi invece a memorie sentimentali.
A lei è demandato il compito di spiegare metalinguisticamente quali problemi si devono affrontare per poter rappresentare la propria storia e non quella che la produzione si fabbricherebbe, mentre demanda a Analía Couceyro, il suo alter ego, anche la esposizione dei problemi di montaggio: come dire che dare una forma all'assemblaggio di ritratti del padre e della madre è una cosa che riguarda una Albertina impegnata a recuperare pezzi di sé; l'altra, quella capace di reggere la regia, ha già chiari in mente i pezzi che le occorrono per completare il puzzle.


Un assunto si evince dal film: il bisogno di denunciare l'ancora recalcitrante ritrosia a parlare di quelle enormità, anche anteponendo una disponibilità del tutto aliena da qualsiasi paura... persino da parte di chi ha subito la tortura, splendida la risposta di un compagno che dice di non aver parlato sotto tortura e che a maggior ragione non ci sarebbe riuscita una telecamera a estorcergli una testimonianza; ma anche persone meno coinvolte sono apparentemente disponibili, poi in realtà non vogliono o non possono offire ricordi diretti, che non siano filtrati dalla ripetitività del racconto, che consolida certi fatti, facendone obliare altri. Allo stesso tempo sono geniali alcune soluzioni registiche, come l'utilizzo dei pupazzetti, plausibili oggetti di gioco di una bambina di 4 anni nel 1977, per animare ricostruzioni degli eventi con gli occhi e con la fantasia di un'altra Albertina, quella di allora, quattrenne.
Inoltre a movimentare il docufiction si inseriscono una sorta di lenzuola virtuali bianche, che contengono frasi esplicative della spietatezza furiosa dei militari o del corpo molle della società ancora contaminata dall'inciviltà a distanza di vent'anni (un dato che dovrebbe far meditare non solo gli argentini: pensiamo soltanto al lascito di barbarie venefica che si protrarrà nel tempo sulla società italiana, ancora per anni dopo che finalmente Berlusconi uscirà di scena). Mentre le miniassemblee improvvisate per definire il prosieguo dell'avventura filmica, girate nel loro impegnatissimo bianco e nero, offrono una continuità con quelle che vedevano protagonisti i genitori di Albertina, facendo ben sperare nel legame con quel retaggio familiare che i fascisti non sono riusciti a spezzare.

Un discorso completamente diverso merita il film di Nariman Turebayev, ambientato ad Almaty con un'adesione alla reale atmosfera della capitale kazaka, perennemente immersa in una patina di trasandata trascuratezza rassegnata al fatto che quella periferia del mondo non assisterà mai alla storia. Qui non ci sono retaggi passati dove ricercare il riscatto, ma il presente è ancora più squallido e feroce del nulla di cui si compongono i viali alberati percorsi senza meta da frotte di persone.

Il nuovo si è innestato su un passato che aveva svuotato completamente la società e il liberismo sfrenato ha soltanto offerto opportunità ai furbi, ai piazzisti, ai parolai ("Non hai avuto pietà di lei", chiede il venditore umano all'altro, che risponde: "No, l'ho resa felice", vendendole oggetti inutili) di arricchirsi senza scrupoli ai danni degli altri (non vi ricorda nulla?). La provincia dell'impero si è trasformata in una zona sospesa sul vuoto, percorsa da avventurieri privi di cultura, che la saccheggiano e se ne vanno, dove la tradizione è smantellata - non trova spazio nell'inquadratura - e i nuovi miti sono incarnati dalla stupenda ragazza connotata banalmente dal vestito rosso sgargiante come una seducente e vogliosa donna libera e si rivela come una chimera recuperata direttamente al tavolo del ristorantino romantico dal marito (una metafora del libero mercato anche questa? che non solo è di facili costumi, ma al momento di soddisfare i legittimi desideri del ragazzo lo lascia a bocca asciutta).

<

L'ampio spazio lasciato alla cornice di edifici massicci, privi di spessore come trompe l'oeil, di cartongesso negli interni e altrettanto artificiali nella pomposa esteriorità, fatta di pretestuose sculture è la cifra di questa sonnecchiosa città, ma quanto è infertile e indeciso il protagonista verso quel mondo esterno che si è ammantato di un'aria ferocemente liberista (a cui cerca di partecipare con la sua divisa scura), altrettanto insicuro è tra le squallide e anonime pareti domestiche (iperrealiste nella loro manutenzione approssimativa e con effetto patchwork), dalle quali trapela di tutto senza riuscire a dare un senso alla vita, nemmeno di riflesso assistendo a quella degli altri. In particolare quella del suo compagno di lavoro, con cui divide l'appartamento, ma non lo stesso cinismo e lo stesso successo con le donne, bellissime, tipaz diversi sia nel taglio del volto (e degli occhi soprattutto) sia per forgia dei vestiti, a cui i due venditori sono attentissimi. In realtà alla fine anche la sicumera dell'amico svanirà e già cominciava a incrinarsi nel momento in cui dopo una sbronza si risvegliano nello stesso letto nudi - e il sospetto dell'attrazione omosessuale li getta in una crisi personale, risolta poi con la rivelazione che si era trattato di uno scherzo perpetrato da una delle tante ragazze passate dall'alloggio. Una delle sequenze esilaranti, che però non riescono - volutamente - a cancellare la profonda tristezza di vivere relegati in un luogo così privo di stimoli. E per accentuare questo aspetto di Almaty, il regista di Malin'kie lijdi (che significa Piccola gente) sceglie di effettuare riprese solo lungo uno dei viali principali, senza avventurarsi nel vivace mercato o alle terme, unici luoghi che lasciano immaginare un minimo di vivacità, agendo per costante sottrazione di emozione in modo da evidenziare il tratto più evidente della città: l'indolente decadenza.

Da un lato dunque la giornata di sciopero messa a frutto nelle sale del festival meneghino mi ha permesso di confrontare modi diversi di mettere in scena la macchina da presa adottati dalle culture esterne alla "fortezza dei privilegi", come dice Vattimo (e non solo sul manifesto di oggi, 28 marzo 2004: ricordo una lezione di quasi vent'anni fa in cui aveva usato la stessa immagine). Infatti, se Albertina Carri gioca in un sofisticato bianco e nero con la macchina da presa e con i ciak montati nel film a scandire i tempi della narrazione con quelli del metalinguaggio e del coinvolgimento dello spettatore alla produzione del film, mettendolo a parte di una altrettanto costruita fiction che documenta il bisogno di crearsi uno specchio (fusa nella sequenza finale del quintetto ripreso di spalle che si allontana), allo stesso modo - ma con molta più spontaneità - Ntshaveni Wa Luruli usa un'idea semplice e geniale per dare legittimazione alle riprese: mettere al centro del racconto la telecamera, che il ragazzino protagonista riceve come manna dal cielo nella sequenza iniziale del film; una dotazione divina, che piove letteralmente giù da un treno tra le mani di un morto...

Per fortuna almeno il portachiavi risponde al richiamo del fischio, come nel film di Ferreri ed il riferimento non può che ammantare di disperata nuova speranza l'epilogo del film, come avveniva in Ibali, il primo film, sudafricano, della giornata, firmato da Harold Holscher.

... dunque un inizio quasi irreale: nella spartizione del bottino tra i due ragazzini è racchiuso il loro destino: a uno la pistola - e fin da subito è tratteggiata la sua pista e la precoce fine di questa -, all'altro la telecamera, che diventa quasi immediatamente la caratteristica che lo contraddistingue e lo eleva rispetto al ghetto.
A questo punto avrebbe potuto essere un film banalmente giovanilista o scivolare nella retorica sia della denuncia sia del vacuo sentimentalismo, invece il regista utilizza questo spunto per insinuare la telecamera in ogni più recondito pertugio della township, mostrandola nella sua fatiscenza, ma anche nei suoi colori sgargianti che animano una delle produzioni di Madiba, il giovane cineasta adottato dalla comunità. La township, inconsapevole del trucco di nascondere la telecamera vera dentro un apparente giocattolo di legno con le sembianze di cinepresa per preservarla dalle mire di malintenzionati e salvaguardare il realismo delle riprese, diventa la vera protagonista, ma il risultato migliore è un montaggio di colori degno di Brakhage del tutto surreale, eppure contenente tutti gli elementi cromatici del mondo di Madiba. Lì c'è tutto il ghetto (un po' come era avvenuto in un altro film sudafricano proiettato in passate edizioni Walls of soap and chocolate): a quello spezzone estremo, mostrato attraverso il deus ex machina (da ripresa) bianco che insegna musica ed è benvoluto anche al ghetto, si aggiungono bellissime riprese che farebbero sparire qualsiasi dogma, se non si fosse suicidato da solo: i risvegli di Madiba, che documentano l'interno della baracca, le carrellate fatte dall'interno di una cariola all'inseguimento di un sacchetto sono una gustosa presa in giro - forse involontaria, ma Ntshaveni è stato aiuto di Spike Lee e Robert Benton, quindi probabilmente ha presente il film di Sam Mendes - di American Beauty; il sacchetto è in movimento, il vento lo spinge e questo permette di rivelare altri angoli della township.

Anche la storia con la giovane bianca è risolta senza birignao sentimentaloidi, e quello che poteva sembrare un banale caso di razzismo da parte del padre si risolve con un colpo di teatro rivelatore dell'origine nera dello sbiancato padre (di nuovo citiamo il manifesto di oggi nelle parole di Sepulveda che definisce "gente di colore" Codoleeza Rice, Bush, Wolfowitz, Cheney, Rumsfeld, Negroponte, Blair, Aznar, Berlusconi, Colin Powell e Le Pen, "di un colore dubbio"). Questo modo di affrontare l'apartheid dopo la fine del regime nazista dei boeri risulta gradevole nel film, perché lo supera senza dimenticarlo, ma come se fosse un reperto archiviato; i problemi sono altri e anche lo sguardo sui ragazzi che sniffano colla non è caricato di fervorini e la parabola dell'amico armato non subisce i soliti accenti fatalistici, quelli sono stati concentrati nell'apologo del poco probabile inizio.

È tenero il rapporto che unisce la ragazza bianca e Madiba, fin dal primo incontro, che riesce a mantenere un po' di gusto sbarazzino, anche per la situazione all'interno di una libreria, dove la giovane ruba un libro per mantenere vivo il legame con quel buffo ragazzino accompagnato da una impossibile telecamera di legno, alla quale ha demandato il compito di esprimere il suo amore per lei; e di nuovo il vecchio musicista bianco sarà il messaggero d'amore, mostrandole il montaggio di riprese che la vedono protagonista: una videolettera d'amore. È come se si fosse finalmente realizzato il film che Haroun aveva affidato, al nipote, lasciando finalmente al termine di Bye bye Africa l'uso della telecamera, contando sul fatto che forse ancora lui è dotato di uno sguardo africano che era sfuggito a Haroun, ormai europeizzato, ma non a Wa Luruli, ancora permeato di quella magia di inquadrature.


«Come tante altre cose ormai, me la lascio alle spalle, sentendomi stupido, come uno che ha perso la strada tanto tempo fa, ma continua per una via che forse non lo porterà da nessuna parte».

La citazione da uno scrittore sudafricano come Coetzee si attaglia bene al protagonista del film kazako. Vale anche per il giovane Kabiso, nato dalle acque e adottato dal vecchio Moses, il guardiano delle acque, un corto piacevole in ogni sua parte: i colori, l'uso degli effetti, che scioglieranno nella natura il vecchio che si è fatto accompagnare a morire "facendo l'amore con il mare", il significato recondito del film; la tutela non solo dell'acqua, oro blu futuro motivo di guerre, ma anche delle leggende a lei legate.
E anche il litigio tra maestro e allievo è funzionale alla crescita del secondo che si fa le sue esperienze, in modo da prepararsi alla rivelazione: quella che è contenuta nella cabina proibita.
Una bella idea che aggiunge un elemento di mistero ctonico alla simbiosi del ragazzo - e del vecchio Moses - con l'acqua, eppure contemporaneamente evita l'atteggiamento ispirato e pontificante: un rubinetto ripreso in grandangolo, dilatando enormemente l'ambiente in preparazione del fatto che, una volta aperto, assistiamo allo riempimento di una polla d'acqua sulla spiaggia dove Moses consuma il suo reincontro con il mare - e con la morte - e mentre lentamente l'affossamento si colma d'acqua, si compie il prodigio della dissoluzione in acqua del corpo di Moses.



Saturday night at the palace è un testo ripescato dagli organizzatori dal passato del Sudafrica nazista: nel 1987 Robert Davies aveva il coraggio di ideare un film con una tensione interna che agiva in climax per raggiungere l'apice della tensione nel momento in cui si è consumato l'omicidio: l'idea geniale sta nel fatto che l'attesa catarsi non si compie ancora con l'assassinio di uno dei tre protagonisti di quella sorta di claustrofobico universo concentrazionario di rancori razziali. No, il peggio sta nello scaricamento di responsabilità del bianco apparentemente più "sensato", che non solo giunge a uccidere l'amico che lo ha sempre surclassato con le donne e lo ha sempre sfruttato, l'elemento più dimesso (ma con il mito di Clint, come si vede nel poster alle sue spalle) si rivela il più spietato, al punto da far ricadere la colpa del suo delitto perpetrato con furore sul nero, proprio in quanto negro: continua a ripetere ossessivamente: «I've not the blame».
Il film è la dimostrazione che in una situazione teatrale si può innescare un processo non solo criminale con conseguenze omicide, ma soprattutto riesce a far percepire ancora adesso come potessero insistere su uno stesso territorio due universi paralleli che facevano riferimento a valori e configuravano i loro mondi differenti a partire da presupposti così diametralmente opposti da non potersi incontrare, anzi ogni incrocio non poteva che essere foriero di sopraffazione e deriva ideologica.

Adriano Boano