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Bye Bye Africa
Anno: 1998
Regista: Mahamat-Saleh Haroun;
Autore Recensione: adriano boano
Provenienza: Ciad;
Data inserimento nel database: 01-04-2000


Bye Bye Africa

Bye Bye Africa

di Mahamat-Saleh Haroun, Francia Ciad, 1998, 86´

10° Festival Cinema Africano

Milano 24/30 marzo 2000
regia di .......................... Mahamat-Saleh Haroun
soggetto di  ...................... Mahamat-Saleh Haroun
fotografia di  .................... Stéphane Legoux, Mahamat-Saleh Haroun
montaggio di  ..................... Sarah Taouss
suono di  ......................... Ousmane Bougoudi
interpretato da Mahamat-Saleh Haroun, Garba Issa, 
Aicha Yelena, Mahamat-Saleh Abakar prodotto da ....................... Les Production de la Lanterne distribuito da .................... Les Production de la Lanterne, 8, avenue de la Porte de Montrogue 75014 Paris.
Tel: 331-45 39 47 39 Fax: 331-45 39 02 96

Filmografia:

1994 Maral Tanié
1995 Goi-Goi le nain
1997 Sotigui Kouyaté, un griot moderne
1998 Bye Bye Africa, Un thé au Sahel

É difficile per noi come per il regista risalire al punto in cui abbiamo smarrito l'identità che ci conferiva l'appartenenza ad un quartiere: potremmo parlare del cinemino di periferia dove abbiamo visto trent'anni fa i primi film da soli, ma non sarebbe lo stesso, anche se pure quello ha lasciato il posto ad un supermercato. Potremmo riportare lo scetticismo dei parenti di fronte alla Beaulieu super8 da cui uscirono ambizioni irrealizzate (e alcuni di quei ragazzi improvvisati cinefili sono diventati davvero dottori per salvare le proprie madri-Africa) e potremmo discettare su quali immagini ci aiuterebbero a salutare i nostri luoghi, riuscendo a non rilevare le autentiche sensazioni che percorrono ora il quartiere in cui si è cresciuti, ormai impermeabile ai nostri percorsi della memoria. Sicuramente il metalinguaggio è patrimonio comune e unico mezzo a disposizione per riappropriarsi della nostra storia di incantati dalle storie, perché Haroun lo desume dall'analisi della estetica occidentale, però a noi europei mancherebbe la supposto naïveté – che è invece sensibilità culturale non ancora del tutto globalizzata –, lasciandoci nella nostra disperazione, mentre Haroun e Gabra hanno ancora qualche speranza di uno sprazzo di luce cinematografica, magari sfuggito alla cinepresa fatta di lattine di un giovane nipote suggestionato dalla poetica figura del regista.

L’intero film si svolge in Ciad, dopo un prologo francese inserito prima dei titoli e utile per inquadrare il protagonista come cineasta sradicato, godardiano nella mente, colpito nella realtà dal lutto per la morte improvvisa della madre, che diventa anche smarrimento per la dissoluzione dei propri intimi riferimenti africani: cos’altro sarebbero sennò i pellegrinaggi in quei santuari sconsacrati o semi-smantellanti che sono le sale cinematografiche – uteri distrutti o ridotti a un funzionamento precario?

L’Africa perde la propria immagine, che le viene sottratta e tutti i suoi intellettuali quarantenni si sentono orfani a causa della globalizzazione che sostituisce i griot con le antenne paraboliche ("Le culture più deboli in un’epoca in cui le distanze non sono più un problema non possono più difendersi", Aimé Césaire). Infatti costante presenza che attraversa il testo nella sua integrità senza mai essere realmente inquadrata è la voce della nonna, la cui stanza – altro antro misterioso e attraente – è ridotta a piccole porzioni di quadro, ritagli tenebrosi colmi di rimembranze e affabulazioni.

I cineasti si interrogano, non capiscono più le correnti che animano N’Djamena come Bamako (forse anche per la lontananza e da qui discende la scelta di lasciare la telecamera al nipote dapprima incompreso e vilipeso): Haroun si aggira sperduto per le vie della capitale ciadiana inseguendo l’ispirazione per un film di cui non trova il bandolo e si scontra con la consapevolezza di chi, vivendo lì, ha una precisa percezione del "furto di immagini" perpetrato dal suo occhio meticcio (addirittura fermato dalla polizia senza documenti), ma soprattutto dalla consapevolezza di quale impatto abbia sull’immaginario africano la potenza del cinema, che riesce a confondere gli uomini perché incide sui tradizionali modi di rappresentare la realtà mescolandosi ad essa e diventando autentica esistenza, quindi Isabelle – protagonista (nella finzione?) di un suo film precedente nel quale muore di AIDS, per cui per la comunità ciadiana rimane appestata anche nella realtà: un incubo da cui non esce nemmeno dopo essersi sottoposta all'analisi – ha bisogno di rivendicare la propria esistenza attraverso la morte, un'esistenza che ha l'urgenza di essere conosciuta come carne pulsante, sana e non come personaggio, contagiato dall’AIDS, come nel film: "Vigliacco, io esisto. Tu hai paura della realtà", ma poi per dare spessore alla sua morte, la deve riprendere con la telecamera sottratta in discoteca. E noi rabrividiamo al pensiero che sia davvero esistito il film precedente e che Isabelle abbia potuto darsi la morte in diretta.

Non c’è via d’uscita al metalinguaggio che s’impone nel momento in cui ci si chiede per chi si producono immagini e se il cinema è destinato a morire: allora interviste con piglio nouvelle vague, domande da cui emerge lo stato dell’arte (sale, distribuzioni in mano ai bianchi, mercato dell’home video) e alla fine si trovano i motivi per mantenere i legami con poche immagini, conservando un dna di gran rispetto: Godard, Césaire, Sankara.

E allora da una vita allo sbando si finisce con il recuperare la dimensione del racconto: si recuperano dapprima i filmini perché la prima preoccupazione è il linguaggio e fondamentalmente "per chi e in che modo continuare a fare cinema?", ovvero: "Fabbricare dei ricordi", come si tenta godardianamente di spiegare al padre del regista che lamenta l’impossibilità di comprendere il film pieno di parole pronunciate per un pubblico non africano: infatti capirà il valore del lavoro di Haroun solamente guardando un vecchio film che ritrae la moglie morta. C’è bisogno di immagini, e non di sproloqui – più adatti ai bianchi – e quelle sono state sottratte, forse dal retaggio verbocentrico di Freud ("Un tuo amico?"). E allora diventa urgenza il solito bisogno di filmare e altrettanto indispensabile è la scelta metalinguistica di montare le riprese del film, parlandone – "É un film a scatole cinesi", di cui non si capisce se l'involucro è la realtà o il cinema e se c'è differenza – e ponendosi i dubbi relativi alla realizzazione, che investono il suo distacco dalla attualità africana (le immagini della camera a mano sono in un bellissimo quanto inverosimile bianco/nero), vero motivo per cui il progetto Bye bye Africa non riesce a decollare, almeno finché Haroun si comporta da bianco, negando la telecamera al nipote o con un atteggiamento di inammissibile machismo con Isabelle, o rubando le immagini, lui il regista sposato a Bordeaux, lui che non vive più lì, in un luogo che la professione di cineasta ritiene non possa offrire occasioni, mentre invece mantiene peculiarità tanto originali da costruire intrecci e luci e situazioni irripetibili, se soltanto si gratta via la superficie da cartolina o la zavorra neo-coloniale (come si vede anche dal film altrettanto metalinguistico sulla proiezione di La Vie sur terre di Sissoko e presentato lo stesso giorno al Decimo Festival del Cinema Africano di Milano: La Projection di Marie Jaoul de Poncheville). Lui, che prepone una ricerca delle tracce di quello che era la proiezione cinematografica a N'Djamena vent'anni prima, senza la quale non potrebbe aver chance di capire quali immagini sia possibile documentare.

Un'impasse la cui soluzione è vicinissima e se ne intravedono le tracce disperse lungo tutte le riprese, che inopinatamente si soffermano sullo spiraglio della camera della nonna dapprima completamente oscurato e ridotto ad un ritaglio di ombra da cui esce la voce, poi gradualmente si allarga, mai completamente aperta: lei gli ha insegnato a raccontare ed è caldissima presenza verbale: parole evocative, non come quelle occidentali, astratte. Lei parla per immagini, ma la sua immagine rimarrà offuscata anche quando ne vediamo la figura minuta ripresa in controluce con un forte teleobiettivo che ne scontorna la silhouette: "Quando sono lontano mi è sufficiente chiudere gli occhi per rievocare la sua dolce voce". Tutte le affabulazioni dell'Africa.

Il lavoro procede a tesi che si sviluppano parallele (le prospettive del cinema e i suoi fasti ormai in rovina, le persone indistinguibili dai personaggi, la produzione del film con i provini – in tutto simili a Salaam Cinema –, e le molteplici pulsioni a produrre immagini eterogenee: set e luoghi di proiezione), ma queste non sono esplicite e l'ordito si ricostruisce solamente quando ogni aspetto giunge a compimento, gradualmente intessendo i problemi di distribuzione dei prodotti del continente, i ricordi di un'Africa ormai inesistente: i ruoli cinematografici dei personaggi, unico modo di restituirli alla vita (o alla morte, almeno come personaggi) vengono sintetizzati dalle oscillazioni tra l'ardore degli spettatori cinefili ("Vado al cinema almeno dieci volte alla settimana" rivela un'ombra in bianco e nero tra i molti intervistati, che costituiscono un prezioso apporto sociologico) lo scetticismo disperato di Garba, l'amico proiezionista del Normandie, la sala smantellata, che ha smesso di fare film e non crede nel futuro del cinema, affidandosi ad un'improbabile lotteria statunitense, rifiutata una volta vinta ricevendo il massimo rispetto dello spettatore commosso dalla sua rinnovata voglia di promuovere cinema in Africa, cercando di cambiare lo stato di cose fotografato da Sankara nella frase citata: "L’imperialismo è in ciò che si mangia"... E in ciò che si vede.

E in ciò che viene rimosso: anche da Koulsi Lamko (Bir Kimbo), un collega congolese che invia una lettera struggente, ulteriore contributo a ribadire il corollario di sale dell'adolescenza smantellate dai paraboloni, dal calcio e dalla guerra ("La guerra è diventata cultura nel Ciad").

"La gente di qui non distingue tra fiction e realtà". É una forma diversa da The Man on the Moon o da Ed-TV o Pleasantville e i tanti altri film hollywoodiani sulla intrusione della fiction nella realtà, dove si finisce con il decretare come inesistente la realtà seguendo i dettami del nichilismo occidentale. Quei pochi film rivolti agli africani e realizzati sulla loro vita inducono facilmente alla confusione, che però è semplice evoluzione di quelle sequenze che nel cinema di Sembène Ousmane mescola piani di realtà con improvvisi rapporti surreali con antenati e spiriti: il riferimento in questo film al realismo della produzione del cinema africano è evidente quando si configura la stessa triste fine della giovane Isabelle, consumata come in Afrique, mon Afrique di Idrissa Ouedraogo, di cui ricorre anche il riff della canzone che dava il titolo al film burkinabé. Non è polemica peregrina, ma un afflato volto a ribaltare l’assunto, privilegiando la fiction; a cominciare dalle cabine di proiezione delle vecchie sale (Etoile, Sherazade, Normandie ...), prospettando una mappa di N’Djamena ridisegnata sui cinema: "Vale la pena realizzare i propri sogni", dice la figlia del vecchio proprietario dello Sherazade determinata a rilanciare l’attività per pura cinefilia.

Probabilmente il regista non arriva ancora a condizionare davvero la realtà attraverso la fiction, ma dà un quadro verosimile di quella società perché la sua vicenda confonde realmente il piano della realtà con la fiction e volendo individuare i momenti in cui maggiormente si avverte questo trascorrere da un lato all’altro della rappresentazione si possono rilevare alcune sequenze. Ovviamente quella della seduzione della ragazza che culmina con la frase pronunciata con disperazione da lei: "Il cinema è più forte della realtà": a questa sequenza, in cui si spegne la luce non per pudore, ma per sottrarsi per un attimo allo sguardo della cinepresa, fa seguito invece la intrusione ancora più invasiva dell’obiettivo, che come una malattia s'insinua. La soggettiva dal punto di vista del nipote che lo rincorre dietro alla motocicletta è un’altra situazione in cui emerge la forza del cinema sulla realtà, la soggettiva ripetuta due volte (la prima prolettica), ci fa sentire la presenza di una macchina da presa estranea al regista, che si aggira in motorino (un Moretti nero) inquadrato da tergo attraverso l’occhio del ragazzino che brandisce la sua cinepresa giocattolo, ma noi vediamo attraverso di essa, sancendo nella seconda volta il passaggio delle consegne ad uno sguardo più giovane che prende l’impegno di spedire una volta alla settimana una cassetta per restituire la precisa immagine del Ciad; quella presenza per contrasto acuisce la sensazione di coinvolgimento del regista, nonostante la sua confusione, un po’ attenuata nel momento in cui diventa solo attore, lasciando la macchina al nipote, nuovo autore investito della responsabilità del film. Una situazione particolare deriva dalla presentazione della sceneggiatura ad un produttore che consente di rimarcare le difficoltà finanziarie e per ridurre i costi propone l'uso della telecamera: è una scelta molto diffusa anche tra i più famosi autori africani, ma Haroun con il più nitido 35 mm. sottolinea la qualità di quei primi piani di un uomo che sta suggerendo di rinunciare a quella fotografia stessa che lo sta immortalando a tutto schermo in un controcampo che ritrae il regista meditabondo e con il solo primo piano allusivo alla incisività del 35mm. usato nell'esempio più classico per denunciare la deformazione della realtà (il faccione a tutto schermo), ma che rappresenta allo stesso tempo l'esaltazione della riproduzione del più infinitesimale dettaglio di realtà. E proprio mentre si immagina di ripiegare su mezzi più economici e privi del fascino del cinema.

Un fascino che non è alieno da rapporti autoritari, essendo interpretazione e registrazione della vita, dunque nei provini si assiste ad un campionario ricalcato sul film di Makhmalbaf (che sicuramente il colto regista ha presente), giocando sul rapporto aggressore/vittima, sulla determinazione e sulle remore culturali e tradizionali: in quella carrellata di tipologie (preparata da una plongée sugli aspiranti in tutto uguale a quella del film iraniano) si tocca il polso degli umori africani e la reale entità della penetrazione della globalizzazione, come l'incidenza ancora presente della tradizione più retriva. Poi ci sono gli aspetti antropologicamente culturali che Garba e Haroun s'incaricheranno di salvaguardare attraverso la riapertura del cinema del quartiere, dove c'è da scommettere che non si proietteranno soltanto film nuovi e hollywoodiani, che "non si spezzano".