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FUTURE FILM FESTIVAL 2002
Bologna, 16-20 gennaio 2002

16 gennaio - 17 gennaio - 18 gennaio - 19 gennaio - 20 gennaio

Seconda giornata, 17 gennaio 2002

Qualche altra nota negativa, sull'onda di quanto dicevamo ieri: anche presentare interessanti opere di animazione giapponese proiettandole in video (e per giunta video abbastanza rovinati) non ci sembra troppo professionale: persino il cineclub di cui faccio parte, che non ha mai brillato in capacità organizzative né ha mai potuto contare su fondi cospicui, quando lo scorso anno in una rassegna ha presentato "Akira" lo ha proiettato in pellicola.

Il fantastico mondo di Amelie, di Jean-Pierre Jeunet

Il talento visionario di Jean-Pierre Jeunet, già espressosi chiaramente in opere quali "Delicatessen" e "La città dei bambini perduti", si sposa qui, a tratti in modo deliziosamente sublime, con la commedia romantica francese. La tecnologia digitale impiegata nel film, di cui si parlerà in modo più diffuso dopo l'incontro con Antoine Simkine di Duboi, si presenta infatti quale mezzo efficacissimo per dare forma e luce al mondo interiore della giovane Amelie Poulain (che, curiosamente, in Italia perde il cognome), ragazza timida ed introversa che si abbandona spesso a fantasticare su ciò che è e ciò che potrebbe essere. Il film è un collage incantevole di scene visivamente splendide ed accattivanti, e di piccole cose sparse qua e là difficili da dimenticare, un po' come quelle piccole cose di cui Amelie ama circondarsi: il nanetto da giardino, l'album con le foto-tessera scartate, il collage di lettere, i golfini di Amelie, il quadro di Renoir che diventa, nelle mani di un ammiratore con molto tempo da perdere, quello che furono le ninfee e la cattedrale di Rouen per Monet: una ossessione.

Ma purtroppo la sensazione che rimane è che il totale sia inferiore alla somma delle parti.
La visionarietà esagerata e debordante che faceva de La cité il vero punto di forza del film (assieme alle musiche indimenticabili di Badalamenti) risulta qui a tratti un po' legnosa, forzata, fastidiosa, anche perché finisce per rallentare il ritmo di una narrazione che vorrebbe poggiarsi sulla tradizione ma mette in secondo piano proprio gli elementi che fanno della commedia romantica francese qualcosa di unico: i dialoghi, le battute frizzanti, le descrizioni spesso sferzanti di personaggi e situazioni. Peccato, perché di figure che si sarebbero prestate bene al tratteggio tipico della commedia francese il film ne è pieno. Qualche sogno in meno, qualche frase fuori campo in meno, qualche battuta di più in bocca all'ortolano, o al suo aiutante, o all' <<uomo di vetro>>, e il film avrebbe potuto essere il capolavoro che non è.


Incontro con Richard Taylor, della Weta Film

 Richard Taylor ci racconta degli sviluppi della Weta Film, fondata con la compagna (di vita e lavoro) Tania Rodger, sin dai suoi inizi, non semplicissimi perché, ci spiega, in Nuova Zelanda non c'è mai stata una gran tradizione di sviluppo di effetti speciali.
Han quindi iniziato realizzando piccoli spot pubblicitari e brevi documentari, per i quali costruivano tutti i modellini necessari. La svolta è avvenuta con una serie televisiva neozelandese, "Splitting Image", per la quale han preparato 72 diversi modellini.
In seguito Taylor e la Rodger hanno incontrato Peter Jackson, riscontrando da subito un sentire comune, idee che correvano in parallelo. Han collaborato con lui su diversi progetti, fino al fallito remake di King Kong, la cui produzione fu bloccata dopo mesi di lavorazione dalla Universal.
Peter Jackson chiamò Taylor e la Rodger per cercare di coivolgerli nel progetto "Il signore degli anelli" quando la Weta stava lavorando attivamente agli effetti speciali di Contact di Robert Zemeckis.

All'inizio Peter Jackson parlava di ridurre per lo schermo solo la prima parte della trilogia, "La compagnia dell'anello", salvo poi rivelare da subito che le sue intenzioni erano ben più ambiziose. La Weta Film ha accettato di occuparsi di parecchi aspetti del film, dal make-up alle armature, dai modelli ai disegni delle creature fino agli effetti digitali. Non si trattava certo di una responsabilità di poco conto in un progetto così enorme, ma l'esigenza di Peter Jackson di conferire una struttura organica e coerente, un tratto comune, riconoscibile in tutti e tre i film venne prima di tutto. I mesi di lavorazione non sono stati neanche tanti, se si prende in considerazione il fatto che il girato finale (ovviamente i prossimi due film devono ancora essere montati) supera le sette ore. Ma, ci spiega Taylor, il poter lavorare sempre in Nuova Zelanda ha notevolmente ridotto i costi di produzione, consentendo di investire soprattutto sulla realizzazione sceno-iconografica del film.
Sono stati ricostruiti più di 48.000 oggetti, spesse volte in diverse scale, a misura di hobbit e di uomini normali. Sono state adoperate migliaia di comparse (a questo proposito Taylor ci racconta di come la Nuova Zelanda abbia contribuito mettendo addirittura a disposizione l'esercito, che veniva pagato in bevute!). Sono state coinvolte diverse unità lavorative, per un totale di 148 persone comprese le unità mobili, delle quali la maggior parte di origine neozelandese e quindi non abituate alle mega-produzioni hollywoodiane.
Sono stati ricostruiti interi villaggi, battute migliaia di armi seguendo l'iconografia medievale, molte cose addirittura sono state create a mano. Questo dovrebbe darci una idea di quanto l'esigenza di fedeltà al testo di Tolkien e di credibilità rispetto al pubblico fossero molto forti nel progetto di Jackson. Molto software è stato proprio creato ad hoc, perché quello esistente magari non rispondeva alle esigenze di realismo del regista.
Tuttavia la pignoleria del regista si accompagna ad una grossa capacità di visualizzare il risultato finale mentre era ancora tutto in fieri, e questo a chi progettava è stato di notevole aiuto.
Taylor ci spiega poi alcune tecniche adoperate per esempio per rendere l'idea delle diverse proporzioni: gli hobbit infatti dovevano essere alti circa un metro e trenta, mentre i cavalieri neri superavano i due metri e anche lo stesso Gandalf era molto alto. Per raggiungere risultati efficaci si è passati dalle tecniche più semplici, come quella di mettere l'hobbit (per esempio Frodo) in ginocchio e Gandalf su dei supporti e poi di usare la mdp filmando da dietro le spalle di Gandalf dall'alto verso il basso, a tecniche più sofisticate, come quella usata quando Frodo e Gandalf sono sul carretto: i due infatti anche se non sembra sono messi ad una certa distanza l'uno dall'altro, poi è la mdp a far credere che siano vicini; fino a tecniche ultrasofisticate che si basavano sul filmare gli hobbit in ambienti costruiti secondo le loro dimensioni, Gandalf o altri di diverse dimensioni in ambienti costruiti in proporzione, e poi di legare assieme le riprese con una macchina che controllava i movimenti e faceva in modo che sembrassero svolti tutti nello stesso ambiente.
Per le scene di massa sono poi stati adoperati molti personaggi virtuali, alcuni davvero sofisticati (li vedremo soprattutto nel secondo film).
Molte scene sono state riprese da Jackson stesso con la macchina a spalla, inserito nella scena vestito in modo tale da sembrare invisibile (e qui Taylor non lo dice, ma la tecnica adoperata nelle scene di battaglia, con la macchina ad altezza uomo, ricorda molto la prima scena di battaglia del Gladiatore: ed è una tecnica estremamente efficace, perché sembra di essere proprio lì in mezzo).
Taylor ci mostra anche qualche piccolo montato di backstage, poco in realtà, appena sufficiente a farci desiderare fortemente di poter vedere, al più presto, il secondo capitolo di questa magnifica saga.


Federica Arnolfo