b.Fonti Orali
Se la testimonianza deve essere credibile e rendere partecipi di un'interpretazione, allora Arendt con parole e senza immagini - se non figure retoriche - riesce dove Spielberg-Moll falliscono per voler strafare, ribaltando l'assunto poetico di tutto il cinema spielberghiano, che vuole ricondurre l'intera storia dell'umanità al singolo: Arendt e i suoi epigoni, cercando lo stereotipo del funzionario, del tecnocrate, dell'aguzzino, trovano soltanto un individuo banalmente squallido in cui non si specchia la Storia, ma soltanto la Massa di Elias Canetti, non si scorge nemmeno un'oncia della figura eroica di Ernst Jünger o di quella angosciata e impaurita di Erich Maria Remarque: solo un travet.

Il dramma psicologico e la tensione emotiva provengono dalle testimonianze che danno luogo a un Kammerspiel, la cui componente psicologica è assicurata non tanto dai presenti nel luogo chiuso dove l'intero film si svolge, quanto dalle presenze. La mancanza di destinatario e destinatore delle frasi che si scambiano nella speculazione lyotardiana il carnefice e la vittima promulga la estraneità della parentesi di follia nazista da qualunque destino nella civiltà: mancano i destinatari in questo rapporto virtuale tra chi pronuncia Che egli muoia senza poter definire un soggetto, che per l'SS non esiste (e dunque si può impunemente uccidere senza sentirsi colpevoli), e chi subisce la frase É la sua legge senza poter interporre rilievi di sorta, ma in questo gioco linguistico vengono meno anche i testimoni.

Portelli in relazione a The Last Days a questo proposito sostiene che "Se uno scrive un libro usando le fonti orali, le trascrive, le monta, le riporta - e poi le analizza, immette la propria voce in mezzo alle altre, apertamente, si prende le responsabilità e si mette in gioco cercando di dire che cosa pensa che significhino. In video ancora non abbiamo trovato il modo di fare la stessa cosa senza ricorrere a mezzi inadeguati - le teste parlanti, la voce fuori campo.
Il risultato che, lungi dal palare da sé, la testimonianza resta sola e criptica, senza il supporto dell'analisi".

Ebbene tutte le carenze lamentate vengono superate dal lavoro di far entrare in fibrillazione la testimonianza con il contesto del presente diegetico delle riprese, con il tempo del montaggio e con quello ancora successivo della fruizione, con il ricordo del narrante senza dimenticare il rancore né la pena, ma - e questo è l'essenza - soprattutto con la mediazione di tutte le conoscenze e le esperienze di percezione visiva dello spettatore, non lasciato con la materia pura e semplice, come per un'indagine televisiva, ma offrendogli supporti ermeneutici. Dal solipsismo dell'analisi dei protagonisti di Spielberg, pure voci di archivio, nel film franco-israeliano è già presente un apparato critico fin dai presupposti di partenza, che si arricchisce ad ogni scelta di montaggio e di taglio della deposizione. Ma l'essenza della testimonianza che sorge a tutto tondo attorno alla gabbia di Eichmann, bestia imprigionata, è la descrizione sobria, in prima persona, inventata da Grass per illustrare il 1962 - l'anno della esecuzione di Eichmann - distante due decenni dai fatti, eppure individuato dallo scrittore come preciso momento per affrontare la questione più gravida di conseguenze per la coscienza tedesca; egli opta per lo sguardo dell'ebreo che ha fabbricato quella gabbia particolare, uno la cui famiglia fu sterminata e può assistere al processo. Apparentemente distaccato e con ironici (e bonari) echi di Arendt. Ciò che emerge è la inconsistenza dell'uomo, della sua ideologia, dei suoi valori: