Brani da un florilegio di Livio Ghersi su The Origins of Totalitarianism di Hanna Arendt

Nel 1951, all’età di quarantacinque anni, Hannah Arendt pubblicò a New York un libro che, immediatamente, le procurò una notorietà internazionale: The Origins of Totalitarianism. Come la stessa Arendt ha precisato nella prefazione scritta per la terza edizione americana del 1966, il manoscritto originario "venne portato a termine nell’autunno del 1949, oltre quattro anni dopo la disfatta della Germania hitleriana, meno di quattro anni prima della morte di Stalin". L’esperienza storica della Germania nazista (1933-1945) e quella dello stalinismo (dal 1929 fino alla morte di Stalin, nel 1953) costituiscono, appunto, il termine di riferimento per valutare quali siano le caratteristiche di "governi totalitari basati sull’appoggio delle masse".

Quando nel 1853 il conte Arthur de Gobineau (1816-1882), diplomatico francese, pubblicò il suo Essai sur l’Inégalité des Races Humaines, (Saggio sull’ineguaglianza delle razze umane), il suo monumentale lavoro (occupava ben quattro volumi) fu considerato poco più di una bizzarria. Cinquant’anni dopo, al passaggio del secolo, sarebbe diventato "una specie di testo basilare per l’interpretazione storica in chiave razziale" (cfr. op. cit., pg. 238). Arendt si misura, dunque, con questo Autore: "Certo, l’umanità ha sempre desiderato sapere il più possibile circa le civiltà del passato, gli imperi caduti, i popoli estinti; ma nessuno prima di Gobineau ha pensato di trovare un’unica ragione, un’unica legge che determina, sempre e dovunque, l’ascesa e il declino della civiltà. E’ strano come le concezioni razziste abbiano tutte un’intima affinità con le teorie della decadenza" (cfr. op. cit., pg. 238).
"A differenza di Spengler, che predisse soltanto il tramonto della civiltà occidentale, Gobineau previde con precisione "scientifica" nientemeno che la scomparsa dell’uomo - o, attenendosi alle sue parole, della razza umana - dalla faccia della terra. Dopo quattro volumi dedicati a riscrivere la storia egli concluse: "Si potrebbe esser tentati di assegnare una durata complessiva di 12-14 mila anni al dominio dell’uomo sulla terra, un’era che si divide in due periodi: il primo è trascorso e possedeva la giovinezza... il secondo è cominciato e assisterà al declinare della parabola verso la decrepitezza".
Si è giustamente osservato che Gobineau si occupò del problema della "décadence" trent’anni prima di Nietzsche" (cfr. op. cit., p. 239). Gobineau "era soltanto un curioso miscuglio di aristocratico frustrato e di intellettuale romantico". Il suo problema era quello di spiegare perché "i migliori, gli aristocratici" avevano perso ogni possibilità di riacquistare la posizione di un tempo. "Un passo dopo l’altro, finì per identificare la rovina della sua casta con la rovina della Francia, della civiltà occidentale e poi dell’intera umanità. Così arrivò alla scoperta, più tardi così ammirata dai suoi elogiatori e biografi, che il declino delle civiltà è dovuto alla degenerazione della razza, e la decadenza della razza alla mescolanza del sangue. Ciò implica che in ogni mescolanza la razza inferiore è sempre dominante" (cfr. op. cit., p. 241). Echi di questa teoria si rinvengono certamente nell’ossessione dei nazisti di porre la "razza ariana" al riparo da ogni contaminazione. Himmler, nel riorganizzare le SS (sigla che sta per "Schutzstaffeln", squadre di protezione), aveva dettato precise regole per il loro reclutamento: gli aspiranti dovevano poter documentare la loro ascendenza ariana fino al 1750 ed avere precise caratteristiche fisiche: occhi azzurri, capelli biondi ed altezza non inferiore al metro e settanta (cfr. op. cit., pg. 531). La "Rassenschande" (letteralmente: la vergogna, il disonore, della razza), cioè il rapporto sessuale con persona di razza ebraica, era forse il peggior tipo di colpa di cui un membro delle SS si potesse macchiare. Si veda, in proposito, un altro libro della Arendt La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme (Milano, Feltrinelli, 1992, p. 38).

Il potere illimitato che il regime totalitario esige "può essere ottenuto soltanto se letteralmente tutti gli uomini, senza alcuna eccezione, sono sicuramente dominati in ogni aspetto della loro vita" (cfr. op. cit., p. 625). Un dominio che non si realizza attraverso il controllo degli strumenti di informazione e la propaganda di regime; questo è soltanto un aspetto, e certamente non il più importante, del fenomeno. Il dominio di cui si sta parlando si instaura e si mantiene attraverso il terrore istituzionalizzato. "L’atomizzazione della società sovietica venne ottenuta con l’abile uso di ripetute epurazioni, che invariabilmente precedevano l’effettiva liquidazione di un gruppo. Per distruggere tutti i legami sociali e familiari, le epurazioni venivano condotte in modo da minacciare della stessa sorte l’accusato e tutta la sua cerchia, dai semplici conoscenti agli amici e ai parenti stretti. La conseguenza dell’ingegnoso criterio della "colpa per associazione" era che, appena un uomo veniva accusato, i suoi vecchi amici si trasformavano di colpo nei suoi nemici più accaniti; per salvare la propria pelle essi offrivano volontariamente delle informazioni e si affrettavano a presentare delle denunce per avvalorare le prove indiziarie contro di lui che erano inconsistenti; questo ovviamente era l’unico modo per dimostrare la propria fidatezza. Retrospettivamente essi cercavano altresì di dimostrare che la loro relazione o amicizia con l’accusato era soltanto un pretesto per tenerlo d’occhio ed eventualmente smascherarlo come sabotatore, trotzkista, spia straniera o fascista. Poiché il merito veniva "valutato dal numero delle denunce presentate contro i compagni più vicini", era ovvio che la più elementare prudenza imponesse a uno di evitare ogni intimità, se possibile; non per impedire la scoperta dei suoi pensieri più segreti, ma unicamente per tenere alla larga, in caso di futuri guai, tutte le persone che avrebbero potuto trovarsi costrette dal pericolo a provocare la sua rovina. In ultima analisi, fu con l’impiego radicale di questi metodi polizieschi che il regime staliniano riuscì a instaurare una società atomizzata quale non si era mai vista prima, e a creare intorno a ciascun individuo un’impotente solitudine quale neppure una catastrofe da sola avrebbe potuto causare" (cfr. op. cit., p. 447). Le periodiche "purghe" promosse da Stalin, non erano fatti accidentali, ma un metodo di governo, che appunto si fondava sul terrore. La Arendt spiega molto efficacemente i singoli aspetti del fenomeno totalitario: lo svuotamento di significato delle strutture istituzionali dello Stato e l’esercizio del potere reale da parte delle élite di partito; la funzione centrale della polizia segreta; l’assoluto disprezzo per la legalità che indusse i nazisti a non curarsi di abrogare formalmente la Costituzione di Weimar; le tecniche di disinformazione della propaganda di regime. Ma c’è un punto sul quale occorre soffermarsi: la funzione dei campi di concentramento. "I campi di concentramento e di sterminio servono al regime totalitario come laboratori per la verifica della sua pretesa di dominio assoluto sull’uomo" (cfr. op. cit., p. 599). La Arendt si interroga, e noi con lei, sul perché uomini costretti ad indicibili sofferenze e votati a morte certa, non si ribellassero, non preferissero morire combattendo, se non altro per eliminare dalla faccia della terra alcuni dei lori aguzzini.
"Presumibilmente si troverà qualche legge della psicologia di massa capace di spiegare perché milioni di uomini si lasciarono portare incolonnati senza resistere nelle camere a gas" (cfr. op. cit., p. 623). La spiegazione sta nel fatto che coloro che venivano portati a morte, erano già "cadaveri viventi". Il sistema totalitario mirava ad uccidere prima la personalità morale delle sue vittime.
"Le SS coinvolgevano nei loro delitti gli internati - criminali, politici ed ebrei - affidandogli la responsabilità di una notevole parte dell’amministrazione; li ponevano così di fronte all’insolubile dilemma di mandare alla morte i propri amici o di contribuire all’uccisione di altri uomini, per combinazione sconosciuti, costringendoli in ogni caso a comportarsi come assassini" (cfr. op. cit., p. 620). "L’alternativa non è più fra bene e male, ma fra assassinio e assassinio. Chi potrebbe risolvere il dilemma morale della madre greca a cui i nazisti concessero di scegliere quale dei suoi tre figli doveva essere ucciso?" (cfr. op. cit., p. 619). "I resoconti dei superstiti sono numerosi e sorprendentemente monotoni. Quanto più autentici sono, tanto meno cercano di comunicare cose che si sottraggono alla comprensione e all’esperienza umana, cioè sofferenze che trasformano gli uomini in "animali che non si lamentano". Nessuna di tali testimonianze ispira quelle passioni di indignata simpatia con cui gli uomini sono stati in ogni epoca mobilitati per la giustizia. Anzi, chi parla o scrive sui campi di concentramento è ancora considerato con sospetto; e se è decisamente ritornato al mondo dei vivi, egli stesso è talvolta assalito dai dubbi sulla sua veridicità, come se avesse scambiato un incubo per la realtà. Questi dubbi su se stessi e sulla realtà della propria esperienza rivelano semplicemente quello che i nazisti hanno sempre saputo: che, se si è decisi al delitto, conviene organizzarlo in grande, su scala enorme, inverosimile. Non solo perché ciò rende inadeguata e assurda ogni pena prevista dal sistema giuridico; ma anche perché l’enormità dei delitti fa sì che agli assassini, i quali proclamano la loro innocenza con ogni sorta di menzogne, si presti più fede che alle vittime, la cui verità ferisce il buon senso" (cfr. op. cit., p. 601).
I campi di concentramento come istituzione non sono stati creati in vista di una possibile resa produttiva; il lavoro forzato degli internati poteva al massimo servire a finanziare l’apparato di sorveglianza. "L’incredibilità degli orrori è strettamente legata alla loro inutilità economica. I nazisti portarono questa inutilità all’estremo, fino alla scoperta anti-utilità quando nel bel mezzo della guerra, malgrado la scarsezza di materiale edilizio e rotabile, costruirono enormi e costose fabbriche di sterminio trasportando milioni di persone avanti e indietro" (cfr. op. cit., p. 609).

"Il tentativo totalitario di rendere superflui gli uomini riflette l’esperienza delle masse moderne, costrette a constatare la loro superfluità su una terra sovrappopolata. La società dei morenti, in cui la punizione viene inflitta senza alcuna relazione con un reato, lo sfruttamento praticato senza un profitto e il lavoro compiuto senza un prodotto, è un luogo dove quotidianamente si crea l’insensatezza" (cfr. op. cit., p. 626).

"La tirannia della logicità comincia con la sottomissione della mente alla logica come processo senza fine, su cui l’uomo si basa per produrre le sue idee. Con tale sottomissione egli rinuncia alla sua libertà interiore (come rinuncia alla sua libertà di movimento quando si inchina a una tirannia esterna). La libertà in quanto intima capacità umana si identifica con la capacità di cominciare, come la libertà in quanto realtà politica si identifica con uno spazio di movimento fra gli uomini. Sull’inizio nessuna logica, nessuna deduzione cogente ha alcun potere, perchè la sua catena presuppone l’inizio, sotto forma di premessa" (cfr. op. cit., pg. 648).