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Torino Film Festival 2007

Panorama italiano

#05. In Fabbrica di Francesca Comencini

 


Francesca Comencini, In Fabbrica

Volenteroso, come il film con al centro il volto dolente di Heidi Giuliani, storicamente documentato e analitico, una ricostruzione della Storia del Movimento operaio con infinite singole storie...
Ecco, tante microstorie, ma tutte filtrate dall'occhio della tv di allora, del documentario fatto dall'intellettuale o dallo storico e quindi i luoghi comuni si sprecano, l'idea di "operaio" rimane quella ormai depositata nell'immaginario collettivo, i capitoli sono improntati al rigoroso già consolidato schema che prevede una situazione di alienazione scardinata con il flusso migratorio, i dieci anni di forte spinta propulsiva del Movimento operaio e il declino dopo la marcia dei 40 mila piciu... tutti aspetti autentici e incontrovertibili, persino gli ultimi dieci minuti, a colori per rimarcare le differenze, dedicati a un'orrida fabbrica vuota e asfitttica piena di consapevole appartenenza di maestranze capaci di seguire il flusso produttivo e fiere di essere parte di quella realtà produttiva, aziendalisti senza alcun conflitto (non perché non ce ne sia motivo, ma per incapacità di vederne l'esistenza e l'utilità) anche se esiste ancora qualche vecchia rsu che ricorda le vecchie parole d'ordine...
Ecco, spiace ammetterlo, ma l'intervento di Trentin risulta essere quello più lucido e interessante nell'insieme di testimonianze già utilizzate da altri film (Mimmo Calopresti, Guido Chiesa, Daniele Gaglianone) e mostre sull'argomento: nell'Ottanta diceva che il padrone stava cercando di cancellare la memoria, di eliminare la conoscenza di come e perché e su quali argomenti ci si contrapponeva. Infatti anche in questo film non si capisce come mai quegli operai immigrati venivano tenuti a ripetere movimenti, senza acquisire alcuna competenza, senza essere coinvolte nella produzione; eppure non si parla minimamente delle epurazioni concluse nella metà degli anni Cinquanta. Il padrone aveva voluto disfarsi delle avanguardie operaie, che erano anche quelli che sapevano lavorare e anche su quella base fondavano il loro ascendente sugli altri operai. Questo fa sì che non si colgano le cesure e i legami dei momenti diversi della storia operaia che invece in questo ambito ha molto a che fare con la capacità di essere protagonisti o schiavi.
Il padrone c'è riuscito a tal punto a cancellare quella memoria che questi film coscienziosamente fatti con ottime intenzioni storiche sono utili per raccontare ai giovani e a chi non ha (più) memoria di cosa si parla quando si parla di operai, ma non servono per riuscire a comunicare cosa fosse realmente vivere la condizione operaia (nonostante i molti spezzoni Rai - appunto, delle teche rai, il nemico di classe fatto comunicazione) e ancora meno mediare le differenti nature e i diversi approcci. Manca la fierezza e il contropotere interno; mancano le capacità e le competenze che sia negli anni Venti che negli anni Cinquanta fondarono l'aristocrazia operaia, quegli ex partigiani che furono estromessi dalla fabbrica con epurazioni perpetrate con ferocia paragonabile a quella di massa seguente ai 35 giorni da un padronato che vedeva nella consapevolezza del processo produttivo dal basso un nemico incontrollabile che avrebbe potuto far funzionare meglio la produzione, ma avrebbe anche potuto estromettere la dirigenza, che aveva nella sua capacità professionale lo stesso fascino sulla massa che gli derivava dalla sua integrità morale e politica... e questa era la aristocrazia operaia di cui nel film si sente la mancanza senza mai nominarla (non si dice mai la parola "capolavoro", il pezzo con cui si diventava operai specializzati. Tutto questo manca per fare spazio alla vulgata ormai consolidata, per quanto veritiera e da tramandare doverosamente sul lavoro minorile degli anni Cinquanta e Sessanta, sulla migrazione e sul lavoro parcellizzato che non consentiva nessuna crescita e tantomeno appagamento, sulla carenza di alloggi e di denaro e di sicurezza (da brivido certi spezzoni): quindi da un lato un'occasione persa da una compagna mossa da buone intenzioni, dall'altro una pregevole ricostruzione di momenti storici clou, carsicamente emersi nella storia del paese, ma che sono proprio soltanto gli eventi che più facilmente si ricordano, fanno parte dell'immaginario comune e soffocano il resto della storia della condizione operaia. Anche nella ricostruzione storica ci sono evidenti lacune. Alcuni esempi tra tutti: si parla delle lotte dei primi anni sessanta, precedenti all'autunno caldo, ma non si fa cenno ai fatti di piazza Statuto del 7 luglio 1962, e questo sarebbe il meno, ma non si accenna nemmeno agli scontri di corso Traiano (di cui si riconoscono alcune immagini, ma solo se si sa che si riferiscono a quelle)... Si parla di toyotismo e prima ancora di taylorismo, ma non si cita dell'orrido Romiti e del suo sistema che diede il colpo finale... e nemmeno si allude alla forza dei consigli di fabbrica; si parla della famigerata marcia dei 40 mila, ma non della Quinta lega di Mirafiori o di Pio Galli... Per fortuna si mostra quale grado di truffa siano le votazioni a cui si sottopone il sindacato con il mai abbastanza mostrato filmato della fine della lotta dei Trentacinque giorni, paragonabile alla truffa dei 5 milioni di voti a sostegno dell'ignobile Welfare di Dini.
Si dice che in 73 minuti si fa il possibile e perciò questo testo va considerato come essenziale per cominciare una ricostruzione, ma la fetta che rimane fuori è quella che potrebbero ancora raccontare gli operai ora ottantenni, prima che muoiano (se Comencini va a filmare l'attuale condizione priva di guizzi, allo stesso modo forse si potevano scovare i testimoni che possono ancora adesso raccontare la loro esistenza documentata approssimativamente archiviata in teche - finalmente per la prima volta si potrebbe dire, dopo che la storia l'hanno fatta quelli che controllavano la creazione dei documentari e ancora adesso hanno impedito a Wilma Labate di realizzare il suo Signorina Effe): è importante sentire quelli - garantiti - ora soddisfatti di aver conseguito il controllo su quello che producono (senza dimenticare la marea di precariato), ma lo è di più parlare con gli altri che organizzarono le lotte quando il rischio era elevato almeno quanto la organizzazione e la loro determinazione, quando bastava un fischietto tra le labbra di operai rispettati e capaci per fermare un intero reparto, nonostante le rappresaglie; o chiedere a chi ha partecipato agli scioperi del Sessantanove di commentare quel contratto che nel film risulta essere plebiscitariamente approvato (come quest'ultimo scandaloso referendum sul welfare) per scoprire ancora la rabbia per aver lottato mesi, aver imposto la capitolazione a Donat-Cattin (padre) che nel film appare non nominato, e ritrovarsi con poche briciole e migliorie soprattutto alla condizione impiegatizia.
Invece ricorre la voce stentorea dei film luce (gli operai come "stormo di passeri" che anelano solo di tornare a casa!!), la stessa che riprende le modalità del documentarismo di marca fascista, solo cambiando casacca (ma non del tutto, perché l'autoritarismo permane e la retorica la fa da "padrone" - è il caso di dirlo), restituendo una condizione umana dolente e non fiera, spesso reclinata su se stessa e non risoluta, che risulta incapace di capire i meccanismi in cui cercano di intrappolarla. Infatti si dilunga sui mestieri precedenti degli operai interpellati durante la prima immigrazione, un omaggio alla disciplina del sondaggio attuale, ma il materiale a disposizione non permette di approfondire nulla: quindi un ottimo montaggio di spezzoni dalle teche senza un processo interpretativo attuale che getti uno sguardo su quell'insieme di fenomeni che fu la condizione operaia per almeno tre decenni del dopoguerra


Francesca Comencini, In Fabbrica

Ci sono molte immagini che colpiscono per la loro distanza dalla condizione attuale o perché risultano esotiche ormai, ma non ci sono quelle che invece potrebbero dare idea di quale forza potesse mettere in piazza quella sensazione di essere classe e di avere qualcosa in comune, quella solidarietà che viene espressa in uno dei momenti commoventi del film: la valutazione della vittoria del Sessantanove da parte di un delegato di base: "Innanzitutto la consapecolezza di essere uomini e poi la compattezza". La sensazione però è che siano stati collazionati un po' di materiali conosciuti senza alcuno sforzo autoriale o storico dalla parte della ricostruzione della condizione operaia, della durezza di quelle esistenze, ma anche della capacità di elaborazione politica e di contrapposizione sindacale: un po' lo stesso criterio adottato da Alina Marazzi per la storia del femminismo, che non affronta i motivi della sua implosione o il lesbismo e i tanti fondamentali dibattiti interni al movimento (quelli sì inediti e sconosciuti all'essterno e bisognosi di analisi e diffusione).
Pregevole è il fatto che si parta da testimonianze prive di consapevolezza di quali dovessero essere le rivendicazioni e si arrivi alle maestranze che seguono l'intero ciclo produttivo: "Vuol dire che forse si aveva ragione a rivendicare forme di lavoro meno alienanti" (ma solo una rsu ricorda questo percorso), meno commendevole è che passi senza commento il fatto che questi nuovi attori dello spazio-officina siano appiattiti sulle posizioni padronali e non si rendano conto di essere pedine allo stesso modo di quell'odioso cronometrista (che non è scomparso, solo che svolge compiti uguali adattati alle esigenze padronali) e che dietro alla loro condizione ci sono migliaia di precari e terziarizzati o estromessi dal processo produttivo, molto meno visibili di quei compagni portati a forza all'interno della fabbrica da cui erano sospesi e che nei minuti riferiti ad anni precedenti sembrano alieni catapultati da un mondo che non viene ricostruito in modo comprensibile ai giovani che non sanno cosa sia "officina".
Altrettanto pregevole è il lungo spezzone dedicato al vigliacco che di spalle racconta il suo sporco lavoro da cronometrista e alla fine ammette che lui non avrebbe mai fatto quel lavoro che contribuiva a rendere insopportabile, ma non è nemmeno palpabile l'odio che produceva la sua figura, e questa restituisce la cifra del film: permette di capire quale distanza incolmabile ci sia tra i materiali a disposizione, l'encomiabile volontà dell'autrice e la forza dei sentimenti di rabbia e di esaltazione rivoluzionaria che si scatenarono per decenni attorno alla figura dei lavoratori in fabbrica. Questi ultimi sono ormai non più recuperabili, rimangono alcune immagini che lasciano immaginare parte di una condizione incomprensibile ai più.


Francesca Comencini, In Fabbrica

continua...

a cura di
adriano boano