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Torino Film Festival 2007

Panorama italiano

#06. Signorina Effe di Wilma Labate

 


Francesca Comencini, In Fabbrica

I titoli di testa sono molto interessanti, perché di ottima fattura e comprendenti già in sé le linee che possono aver informato la fattura del film: tutti fatti di materiali d'archivio... tutti con qualche riferimento alla Fiat, già: tutti comunque senza nessuna reale polemica nei confronti della azienda, sono tutti materiali innocui per la fiat, anzi a ben vedere sono materiali Fiat. La musica, i<>Crapapelada: è una bella canzone, senza un messaggio troppo rivoluzionario, ma significativa... peccato che sia milanese. Cioè non c'entra un cazzo con Torino e se si pensa al Canzoniere, ad Amodei, a tutta la tradizione anche precedente le due guerre fatta di canzoni di lotta torinesi, la rabbia monta, perché significa aver operato scelte superficiali, di chi non sa nulla della materia che si accinge a trattare... lo sfondo, ribaltando l'assunto che si è voluto vendere e che molti disattenti si sono bevuto (compresa la Castellina sul quotidiano bandiera dell'anti festival, che ha boicottato un po' per carità di patria nei confronti dei fallimentari colleghi Vallan e Turigliatto, un po' per scelta di campo a favore del ben più "coperto" festival romano): i 35 giorni sono un incidente su cui far scorrere una banale storiellina di amore contrastato per ragioni di censo. Non si aggiunge nulla al nostro arricchimento personale (qualsiasi cosa possiamo essere venuti a sapere in precedenza della Storia sindacale rispetto alla storia tra i due protagonisti del racconto).
Il soggetto del film poteva produrre un film divulgativo, con il risultato probabile di blandire lo spettatore medio che si lascia distrarre dalla avvenenza della attrice (compagna di Sandro Veronesi, e qui un elemento in più riguardo ai motivi della superficilità della sceneggiatura ci viene fornito) e dalla storiellina amorosa, oppure un affresco su quel passaggio essenziale della storia non solo torinese (addirittura europea dice Luciana Castellina, che non parla del film, ma lo prende a spunto per ribadire - a un parterre di lettori già informati come quelli del manifesto del 4 dicembre 2007 - la centralità di quella lotta operaia durata 12 anni e stroncata in 35 giorni); se si fosse intrapresa questa seconda strada, ci sarebbero stati altri rischi, come un'eccessiva pedanteria, o uno scivolamento nel movimentismo, che poteva produrre sperimentazione linguistica attraverso un recupero filologico di quelli che erano i codici (anche cinematografici) di quegli anni; si sarebbe addirittura potuto tentare di ricostruire gli scontri ideologici attraverso situazioni che allora erano naturali e adesso avrebbero il fascino dell'esotico, semplicemente proponendo situazioni collettive o approfondendo i discorsi che animavano i 35 giorni di picchetti... ma è troppo difficile fare lo sforzo di ricordare e essere credibili è contrario al mandato di chi paga il film e l'obnubilamento delle coscienze. Ancora più banalmente si sarebbe potuto proseguire sulla prima sequenza e proporre un po' di sana retorica e ancora più sana lotta di classe tra le presse, dove la signorina dei piani alti viene subito adocchiata dai dannati dell'officina, scivolando nel populismo o nell'operaismo, a seconda del registro che si fosse scelto: quello più rigoroso o quello più nazional-popolare, secondo la dizione gramsciana, che almeno i piedi in fabbrica li aveva messi e aveva l'abitudine di interpellare chi lavorava o aveva lavorato, prima di scrivere.
Ecco, non c'è pericolo: non solo la sceneggiatura non ha sfruttato l'idea geniale - unica intuizione - di collocare proprio lì, in quella contingenza estrema (in quel momento clou che ha segnato la marginalizzazione del lavoratore, da quella Caporetto la china ha portato alla ignobile legge Biagi, passando attraverso gli anni Ottanta di Craxi e poi l'orrore della flessibilità e della precarizzazione: tutti figli di quello sfondamento), la presa di coscienza di una proletaria, figlia di crumiro e mazziere immigrato, che cerca l'affrancamento con la carriera e la laurea in matematica, ma neanche il trattamento del soggetto sfrutta in termini di macro-storia l'epilogo che la vedrà arrivare a salire sulle barricate... per poi rifluire con la massa di sconfitti in fila alla bollatrice. Questa evoluzione del personaggio, in un film neanche tropppo sperimentale, ma appena appena neorealista, sarebbe stata una splendida metafora della fine di un'epoca; sarebbe stato sufficiente andare a chiedere a qualcuno che di fabbrica se ne intende come aveva fatto Guido Chiesa con Perotti. Invece...

Invece qui lo scontro di classe si indovina in sequenze più stereotipate di quegli spezzoni televisivi (Italo Moretti con la sua voce triste di giornalista di sinistra chiamato a ratificare le sconfitte dei movimenti radicali a cominciare dall'11 settembre 1973; Giancarlo Carcano, incapace di intercettare le emozioni nemmeno se gli transitassero davanti al microfono facendo la hola; Bruno Geraci, da allora in poi rimasto il fedele cagnolino sempre pronto a scodinzolare a ogni gesto di Agnelli) che inframmezzano la storiellina sempre più amorosa e sempre meno di affresco storico. Un affresco che non sta nemmeno sulla parete di fondo di quegli improbabili interni in cui si dipana la storia, quasi sempre giocata tra due persone che scopano, mangiano, parlano a vanvera senza fare del dialogo uno spunto di riflessione, del cibo una occasione di socializzazione, della scopata una possibilità di liberazione o di sfogo disperato (a seconda della perversione preferita), ma semplicemente rimane pour parlé televisivo, quello tipico di chi non sa quali parole mettere in bocca ai suoi personaggi che si aggirano come burattini nell'inquadratura e quale linguaggio del corpo adottare in un'epoca - allora - di liberazione sessuale.
E questo capita perché i personaggi sono semplicemente stereotipi che fanno parte dell'immaginario collettivo di chi non ha mai messo un piede in fabbrica e riesce a parlarne perché di quella fabbrica si è scritto tanto, ma senza che un'immagine uscisse dalle linee, se non quelle volute dal padrone (e adesso c'è solo più la sua memoria da saccheggiare negli archivi, come già si è visto nel film di Francesca Comencini). E allora assistiamo con raccapriccio all'ingegnere stronzo ma non troppo (con la faccia inespressiva di Gifuni), al trucido leccaculo che organizza la marcia dei 40 mila piciu e quando lo fa usa una serie di battute talmente improbabili da apparire persino innocuo, mentre invece ha informato di sé i 15 anni successivi proponendosi come classe impiegatizia grigiamente alleata del padrone. Dall'altro lato persino il corteo spazzacrumiri sembra un incontro molto urbano tra alcuni di passaggio negli uffici e dall'altra parte alcuni impiegati che non aderivano... ma per favore!! Erano due mondi che non si parlavano, una delle migliori operazioni di divide et impera perpetrate con sottili processi psicologici e di potere da parte dell'azienda, che non viene rappresentata se non attraverso improbabili riunioni di congiurati, mentre molto più veritiera è la sequenza dei crumiri alle 4 del mattino che scavalcavano per aggirare il picchetto, come ladri: ho partecipato - e organizzato - 15 anni dopo a dei cortei spazzacrumiri... erano una fiumana che travolgeva qualsiasi traditore si trovasse sul suo cammino e giustamente non si discuteva nemmeno: violenta era la loro scelta di segnalarsi come servo disponibile per avanzamenti di carriera e violenta doveva essere la reazione per salvaguardare una lotta che era sempre "dura" da affrontare e mantenere viva un giorno in più del nemico di classe. Ladri effettivamente di futuro e di risultati delle lotte altrui, criminali vigliacchi, senza neanche il coraggio di affrontare l'indignazione altrui erano quegli scavalcatori di steccati, quanto ladri di futuro erano i crumiri trovati negli uffici mentre per mesi si rinunciava a salari per ottenere condizioni migliori, potere d'acquisto, vita e dignità, pure per loro che non sapevano cosa fosse.

Francesca Comencini, In Fabbrica

Cara moglie è una canzone che ho sentito accenanre in uno dei due film delle due volenterose registe, impegnate nel tff2007 a rifarsi una nuova natura meno borghese, poche note, giusto perché a chi conosce la canzone scenda una lacrimuccia. Era una serie di note retoriche quant'altre mai, ma commovente per semplicità e perché sanciva il bisogno di tramandare alle generazioni future l'orgoglio di schierarsi con la propria fazione e sputare i crumiri. Ecco, quella sarebbe stata la cifra su cui battere: nessuno aveva mai richiamato dal sonno la figlia di famiglia crumira, perché andasse a sentire e potesse fare una scelta di campo: le imprese del padre mazziere non erano edificanti... invece le note svaniscono subito per lasciare spazio a nuovi stereotipi, altre maschere, come quella del compagno di stanza del giovane operaio intransigente: si buca, perché nell'immaginario legato a quel tempo c'è tutta la lunga scia di compagni eliminati dalla borghesia con la droga, ma questo è un ragazzo troppo simpatico - per quanto debole e con una natura incapace di sopportare l'orrore della fabbrica, come si è andata sviluppando dopo la cacciata degli operai "veri" già espulsi durante la Guerra Fredda quando inizia il film della Comencini, che non spiega come fosse stato possibile imporre il taylorismo senza consapevolezze del processo produttivo e senza l'orgoglio del mestiere, un processo che giunse all'apice proprio con limmigrazione chiamata anche a sostituire il know how degli operai specializzati ma troppo politicizzati - quindi il giovane coinquilino di una sorta di improbabile loft pulitissimo è troppo utile al plot da come lo hanno tratteggiato e non si può dare dispiacere al pubblico, facendogli fare la tragica fine che hanno fatto tutti i compagni distrutti dalla politica criminale degli stupefacenti padronali. Oltretutto serve perché la sua storia d'amore con la sorella della protagonista si intreccia con quella principale, speculare, come in una soap opera.

Francesca Comencini, In Fabbrica

Quello che indigna è che l'alienazione banalizzata dalla distanza del tempo fa piombare in un definitivo oblio migliaia di vite che alla fine degli anni Settanta si dibattevano cercando una soluzione all'esistenza occupata da un modo di lavorare terribile, spersonalizzante, oppure studiavano in Università avulse dalla realtà almeno quanto i luoghi di lavoro, eppure in quei posti ci si confrontava con veemenza... è vero che non c'erano rapporti con quell'altra parte - minoritaria - rappresentata dai 40 mila, prima occasione in cui l'uso dell'amplificazione fece l'evento anche perché ai sindacati andava bene accordarsi e cominciare a concertare, svincolandosi dal controllo dei lavoratori: anche in questo caso il film cita una sola volta dagli altoparlanti l'Flm e non parla minimamente di scontri interni alle varie anime della rivolta contro i 61 licenziamenti. Persino la sequenza evidentemente truffaldina della votazione sotto la pioggia, sempre riproposta senza commenti, diventa repertorio e ascritta alla sconfitta, quando dovrebbe essere il punto di partenza di ogni ricostruzione onesta. Vero che non si comunicava con il nemico - e questo sarebbe stato utile rimarcare dell'intuizione di partenza del soggetto, che ribaltava questa incomunicabilità a comparti stagni - ma invece molto vivace era quel periodo di confronto tra gruppi d'appartenenza, ma soprattutto tra singoli individui di una estesa e sterminata sinistra, soprattutto a Torino, dove squallidi personaggi a cui siamo abituati ora non avrebbero avuto neanche la possibilità di balbettare i loro sproloqui fascisti e razzisti e padronali a cui ora ci hanno abituato. Ecco, questo rapporto di forze, che però era anche fervore di idee contrapposte senza spazio per i deliri di destra, non si coglie: il famoso discorso di Berlinguer alla porta 5 sembra un proclama da marziano rivoluzionario, invece all'interno del film si doveva almeno riuscire a far comprendere che allora era vissuto come una posizione riformista, per quanto fingesse di blandire le scelte più radicali. Questo sforzo non è stato fatto, perché l'uso degli spezzoni d'epoca è stato adottato in questa misura massiccia probabilmente nel momento in cui ci si è resi conto che il flusso filmico stava perdendo il contatto con l'epoca di cui si doveva parlare per rilanciare una memoria pelosa che riesca in questo modo a porre una pietra tombale su quei momenti, proprio sdoganandoli dall'oblio da un lato, e dall'altro per nobilitare una pellicola non diversa da un qualunque sceneggiato televisivo o peggio ancora da qualsiasi Meglio gioventù ombelicale, vista la regista e la Sua Generazione, che poteva far sperare in qualcosa di meglio.

Insomma, il film di Wilma Labate con tutte le sue buone intenzioni è una conferma che l'unico modo di mettere in scena una fiction che voglia ottenere un plusvalore dalle lotte operaie può attingere soltanto alla tradizione dell'avanguardia (un ossimoro apparente, ma efficace per rivendicare linguaggi che si sono inventati appositamente non per caso), che solo ispirazioni affrancate dalle forme del romanzo borghese, anche senza attingere a linguaggi troppo ostici per un gusto ormai superficiale e elementare, ma almeno radicato in una formalizzazione meno compromessa con le modalità utilizzate dal padrone, possono consentire di ottenere un racconto che non sia già in partenza perdente, riduttivo e condannato a lasciare spazio alla Storia inventata dal padrone, dove i momenti di lotta sono ripresi con focali lunghissime, un po' dall'alto in modo da restituire la distanza invalicabile tra quelle pratiche "violente" e l'attualità di tolleranza perdente: eravamo diversi, ma proprio questo è una difficoltà in più per metterci in scena senza i condizionamenti dei vincitori di allora.

Francesca Comencini, In Fabbrica

continua...

a cura di
adriano boano