La
coquille et le clergyman. Germaine Dulac.
1928. FRANCIA.
Attori: Alex Alin, Eugène
Silvain, André Berley, Maurice Schutz, Antonin Artaud, Michel Simon
Durata: 110’
Senza apparente percorso
narrativo, un prete riempie delle bocce di un liquido scuro, e poi le frantuma
in terra. Ad interromperlo è un militare alto in grado. Il prete è ossessionato
dalla sessualità femminile e dapprima cerca di ostacolare il militare alle
prese con una donna, e dopo cerca di strozzare un altro prelato con il quale la
donna si confessa in chiesa. Il prete è in preda ad un vero e proprio delirio e
quando scopre il militare baciare la donna e desidera strozzarla. Fra le sue
mani cresce un palazzo sull’acqua. Il prete, lasciato solo in una stanza poco
prima occupata da tante domestiche, distrugge una grossa bolla di vetro piena
di liquido e poco dopo egli stesso ne beve. Dopo essersi liberato dell’altro
prelato buttandolo da un dirupo, si sostituisce a lui nel confessionale ma la
donna questa volta non si avvicina. Il prete le strappa gli indumenti
scoprendole il seno, sul quale appaiono due conchiglie. Strappate anche queste
il prete fa ingresso in una sala da ballo dove si celebra il militare e la sua
compagna su due troni. L’arrivo del prete interrompe la festa e l’uomo si ritrova
ancora una volta a rincorrere inutilmente la donna.
Scritto dal regista teatrale Antonin
Artaud, il film di Germaine Dulac (pseudonimo di Germaine Saisset-Schneider) è
un esempio originale di cinema surrealista, meno conosciuto di Un chien Andalou (1928) di Luis Bunuel e
Salvador Dalì, ma capostipite del filone. Costruito interamente sulla
percezione onirica (sostenuta dall’uso di deformazioni dell’immagine o
straniamento dei campi visivi) e molto vicino, già per quest’ultima
caratteristica, anche al cinema espressionista (e soprattutto nell’uso
l’illuminazione, e della scenografia essenziale). Non è da meno il tema scelto
per questa messa in scena, con un prete che rincorre senza raggiungere mai il
proprio desiderio (violento, viste le reazioni) rappresentato da una donna dai
capelli chiari e che più volte egli vorrebbe uccidere. È la carica del teatro
di Artaud, che unisce desiderio sessuale e desiderio di distruzione e che
caratterizza la schizofrenia del protagonista. E poi ovviamente, tutto ciò che
ha formalizzato il manifesto surrealista, con dissacrazioni, ossessioni per il
mostruoso, perversione ed ipocrisia sociale, elementi che nella composizione
visiva vengono esaltati non dagli aspetti del racconto, ma attraverso l’orchestrazione delle strutture visive,
rifiutando cioè ogni elemento narrativo, psicologico o drammatico, tributario
della tradizione letteraria [i]. Alla
base della teoria di Dulac c’è dunque la volontà di rifiutare il modello
produttivo ordinario, fatto di un solido impianto drammatico e recitato da
attori professionisti, teoria che più in avanti sarà ripresa quasi
completamente dagli sceneggiatori italiani più coraggiosi del neorealismo, come Cesare Zavattini. Il
problema sull’inclusione o meno di questo titolo nel movimento surrealista
deriva dal disconoscimento dell’opera finale da parte di Artaud, perché la
regista abusò di effetti visivi (la divisione in due della testa del parroco
per esempio) non dando così il giusto valore alle rappresentazioni sceniche in
sé, e perché (sempre secondo le critiche di Artaud) la Dulac diede
un’interpretazione troppo al femminile della storia.
Bucci Mario
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