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La coquille et le clergyman
Anno: 1928
Regista: Germaine Dulac;
Autore Recensione: Mario Bucci
Provenienza: Francia;
Data inserimento nel database: 22-06-2006


La grande guerra

La coquille et le clergyman. Germaine Dulac. 1928. FRANCIA.

Attori: Alex Alin, Eugène Silvain, André Berley, Maurice Schutz, Antonin Artaud, Michel Simon

Durata: 110’

 

 

Senza apparente percorso narrativo, un prete riempie delle bocce di un liquido scuro, e poi le frantuma in terra. Ad interromperlo è un militare alto in grado. Il prete è ossessionato dalla sessualità femminile e dapprima cerca di ostacolare il militare alle prese con una donna, e dopo cerca di strozzare un altro prelato con il quale la donna si confessa in chiesa. Il prete è in preda ad un vero e proprio delirio e quando scopre il militare baciare la donna e desidera strozzarla. Fra le sue mani cresce un palazzo sull’acqua. Il prete, lasciato solo in una stanza poco prima occupata da tante domestiche, distrugge una grossa bolla di vetro piena di liquido e poco dopo egli stesso ne beve. Dopo essersi liberato dell’altro prelato buttandolo da un dirupo, si sostituisce a lui nel confessionale ma la donna questa volta non si avvicina. Il prete le strappa gli indumenti scoprendole il seno, sul quale appaiono due conchiglie. Strappate anche queste il prete fa ingresso in una sala da ballo dove si celebra il militare e la sua compagna su due troni. L’arrivo del prete interrompe la festa e l’uomo si ritrova ancora una volta a rincorrere inutilmente la donna.

Scritto dal regista teatrale Antonin Artaud, il film di Germaine Dulac (pseudonimo di Germaine Saisset-Schneider) è un esempio originale di cinema surrealista, meno conosciuto di Un chien Andalou (1928) di Luis Bunuel e Salvador Dalì, ma capostipite del filone. Costruito interamente sulla percezione onirica (sostenuta dall’uso di deformazioni dell’immagine o straniamento dei campi visivi) e molto vicino, già per quest’ultima caratteristica, anche al cinema espressionista (e soprattutto nell’uso l’illuminazione, e della scenografia essenziale). Non è da meno il tema scelto per questa messa in scena, con un prete che rincorre senza raggiungere mai il proprio desiderio (violento, viste le reazioni) rappresentato da una donna dai capelli chiari e che più volte egli vorrebbe uccidere. È la carica del teatro di Artaud, che unisce desiderio sessuale e desiderio di distruzione e che caratterizza la schizofrenia del protagonista. E poi ovviamente, tutto ciò che ha formalizzato il manifesto surrealista, con dissacrazioni, ossessioni per il mostruoso, perversione ed ipocrisia sociale, elementi che nella composizione visiva vengono esaltati non dagli aspetti del racconto, ma attraverso l’orchestrazione delle strutture visive, rifiutando cioè ogni elemento narrativo, psicologico o drammatico, tributario della tradizione letteraria [i]. Alla base della teoria di Dulac c’è dunque la volontà di rifiutare il modello produttivo ordinario, fatto di un solido impianto drammatico e recitato da attori professionisti, teoria che più in avanti sarà ripresa quasi completamente dagli sceneggiatori italiani più coraggiosi del neorealismo, come Cesare Zavattini. Il problema sull’inclusione o meno di questo titolo nel movimento surrealista deriva dal disconoscimento dell’opera finale da parte di Artaud, perché la regista abusò di effetti visivi (la divisione in due della testa del parroco per esempio) non dando così il giusto valore alle rappresentazioni sceniche in sé, e perché (sempre secondo le critiche di Artaud) la Dulac diede un’interpretazione troppo al femminile della storia.

 

 

Bucci Mario

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[i] Henri Agel. Estetica del cinema. Casa editrice D’Anna. pg. 19