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11/09/2004
Siamo in carenza di Eresia #3a.
Bambine ignare in viaggio

In Grecia al pope si sostituisce Antigone.

(Voltaire come unico antidoto alla deriva religiosa)

La Storia alla deriva
La Storia a livelli di senso

Avevamo abbandonato in rete (come naufraghi o profughi su povere zattere alla deriva del senso) una supplica: "più eresia..." Il penultimo editoriale, all'inizio di questo anno di guerra e massacri e torture esibite - fino alla rappresentazione oscena indicibile di Beslan -, faceva un'esplicita richiesta, di uscire dalla palude del conformismo, del deja vu, della maniera priva di scanzonata ribalderia; l'ultimo era addirittura una serie di immagini utili a contrapporsi al conformismo, a partire da mercenari e puttane per arrivare a militari di professione e poeti maledetti uccisi da una rivoluzione non compiuta, anzi tradita subito dalla nuova leadership postcoloniale dopo La Battaglia di Algeri e Le Petit Soldat.

La classicità lascia senza fiato, ma ormai è incomprensibile
La classicità delle immagini mentali del Nuovo mondo
Il racconto si fa morte per risorgere sotto nuova formaMare dentro
Fishing Trout in America
Incubi infantili: ragnatele di ossessioni
Incubi infantili: ragnatele di ossessioni

A questo punto può sembrare una virata di 180° pensare di aprire una collana (sì, non una rubrica nuova, ma una collana, come quelle che solo i grandi editori si possono permettere, magari trasversale nelle rubriche, trasversale come piace adesso dire da quando si passa sopra alle differenze ideologiche e si va a braccetto con i fascisti, come fa Fassino alle manifestazioni o Bertinotti a palazzo Chigi rieditando l'unità nazionale, ma animata da una trasversalità che raduna idee di classicità enormemente più all'avanguardia di chi sbandiera la maniera dell'avanguardia, magari seguendo, da direttrice di festival, i sundance e succedanei per "il manifesto") dedicata ai classici, ma - se non consideriamo Big Fish, che è realizzato da un autore che è ormai diventato un classico, ma forse solo per noi - negli ultimi tre anni ci è capitato di vedere pochi testi che si possono considerare realmente classici. (Casualmente tre pellicole ripropongono la buona morte sotto forme diverse: Mare dentro, da un taglio toccante e tutto intimo, tanto da uscire dalla camera tomba solo per andare a morire altrove; Le invasioni barbariche, dove il viaggio è drogato, come si addice a radical chic borghesi e supponenti; e Big Fish, dove il viaggio è puro racconto, anzi la morte lascerà in eredità la "narrazione cinematografica" allo stato puro, secondo la tradizione letteraria di Pynchon e del suo Fishing Trout in America.) Forse per questo siamo più sensibili a questi e li individuiamo con sufficiente precisione. Uno insuperabile è l'ultimo film di Monteiro, ma qui si rientra in un concetto di classici puramente editoriale: cioè, è classico l'autore che ormai, per sopraggiunta scadenza della sua esistenza in vita, passa automaticamete tra i classici... o nel dimenticatoio. Monteiro lo collochiamo nella prima schiera.
A partire da un altro portoghese stiamo pensando a un'altra accezione di classici. Magari non godibili, spettacolari, rispettosi del codice cinematografico, puliti e condivisibili: di quei film dai quali si esce pacificati con il mondo, perché ancora contenuti in una bolla collocata in un'altra galassia, trasportati nell'ammirazione del regista, come ad esempio all'uscita dalla proiezione di Mullholland Drive del barocco Lynch o Spider del sulfureo Cronenberg; due maestri, inarrivabili (al punto che non ci siamo azzardati a recensirli, pur avendoli visti più volte entrambi; forse ora che Mullholland Drive è passato in tv si potrà studiare meglio l'intrico di ossessioni che diventano ragnatele che intrappollano l'immaginario e turbano, esattamente come gli incubi dei sopravvissuti di Beslan). Maestri appunto, ma non classici pensatori, un'altra categoria di prodotti invendibili, dai quali il pubblico rifugge: quante volte avete proposto a un amic* un film di Anghelopulos, già preparati all'espressione di sgomento che quella proposta "indecente" avrebbe provocato. Maestri che magari non calcolano l'effetto della singola sequenza, che non usano strafighe (benché anche la Detmers a suo tempo abbia fatto la sua parte per uno dei classici che proponiamo hic et nunc), che non fanno film, ma filosofia, o meglio elaborano concetti alla rinfusa senza averli nemmeno ancora organizzati in un saggio: cahiers di appunti fatti film.

Stupore per l'odio

Ecco, il testo di De Oliveira, l'ultimo: dal punto di vista cinematografico, un'accozzaglia mal cadenzata nei ritmi e appesantita da un intento smaccatamente didascalico. È un capolavoro di idee. E nonostante tutto è un film, di quelli alla Straub - senza la grazia della unità dell'opera, sempre rigorosa nell'attenzione a non uscire dal seminato, ma è proprio quello che rende classici del pensiero i maestri selezionati in questo scorcio di millennio caraterizzato da imbecillità e carenze di idee -, eretico e disattento, anzi avverso alla prassi di molcere il pubblico, costituito per lo più da impreparati accecati da abusi di tele-visioni. Oliveira ha messo insieme un apologo sull'Occidente, su tutta la sua plurimillenaria storia di "civiltà". Questa parola, "civilizzazione" è ripetuta nel film almeno quanto la prua della nave che fende le onde del Mediterraneo in un percorso verso il Medio oriente che ricalca l'attrazione coloniale periodica dell'Occidente per quel mondo; dopo il canale di Suez, nel mare arabico non mi pare che ritorni l'inquadratura-dettaglio sulla più suggestiva immagine che richiama la pulsione ad andare oltre - mito di Odisseo - che qui diventa riandare indietro oltre il tempo per recuperare il punto in cui si è inceppato tutto (e ricorre il dubbio che questo sia avvenuto con la comparsa in scena dell'inciviltà americana, o comunque di una civiltà diversa e priva di maniere). Alla a-civilizzazione corrisponde la assenza di storia... e di storie. Quella mancanza che Godard non smette di imputare agli "americani", che non sono tutti gli americani, ma si accaparrano il nome, che sono gli Stati uniti per antonomasia, scavalcando gli Stati brasiliani, la Federazione canadese o quella messicana: usurpatori sempre.

Maniera godardiana del testo esibito fisicamente La narrazione in sé, ma non quella metalinguistica di cui ormai sono tutti maestri, è centrale in Oliveira come nei libri "citati" da Godard in Eloge de l'amour, film colpevolmente censurato dal mercato italiano e fortunosamente ripescato in una sala del Museo del cinema di Torino, gramita in ogni ordine di posti a tre anni dalla sua uscita a Cannes 2001: le narrazioni sporche, non inserite in strutture accattivanti, ma affastellate su molteplici piani, sono la cifra della quantità indigeribile dei film di Godard, frammentati ed esplosi, su band a part contemporanee e tutte ipersignificanti, anche talvolta comunicando banalità, ma si tratta di banalità con le quali facciamo i conti tutti i giorni senza che un maestro ce le indichi, come invece il "classico" Godard si permette di isolarle e dare uguale dignità della tirata sulla civilizzazione che porta in sé la propria morte: qualsiasi civilizzazione è comunque mortifera, nel senso etimologico di portatrice di morte... e non solo ai danni di quelli che rimangono fuori dai suoi confini labili, sembra una precognizione di quanto sta avvenendo. Eloge de l'amour è la summa di tutto quello che si può inserire brutalmente in un testo filmico oggi, snaturandolo e facendo uscire lo spettatore attento, diverso nelle sue percezioni del mondo e nel suo approccio al linguaggio filmico. La classicità che scardina se stessa e i suoi modi di proporsi per diventare materia di meditazione, offrendo contemporaneamente già i mezzi per essere dirompente verso la realtà filmica che finisce con ottenere dopo sentenze, citazioni, anatemi, letture, storie e Storia... addirittura permettendosi una finzione di struttura a tre coppie, che più disattesa non è possibile: eppure, vuoi per magia musicale, vuoi per traiettorie misteriose sullo schermo (o saranno forse i colori saturi della seconda parte che corrispondono perfettamente al bianco e nero contrastato della prima), quando il vecchio maquis novantenne parla di resistenza, e lo fa senza retorica proprio perché premette che ogni volta che gli viene chiesto di ricordare quel periodo, ne viene sempre fuori lo stesso racconto: automaticamente l'antico meccanismo della civilizzazione si rianima, abbattendo le stesse pulsioni interne al testo volte a dissacrare, e di cui il maestro classico è consapevole. Ed è qui che la riedizione moderna del classico monologo dei Sette contro Tebe diventa potente emozione tragica nel film di Anghelopulos, poema da imporre in tutte le scuole del regno per evitare sia il flagello della guerra che la deriva morattiana.


Antigone

Oliveira non considera affatto il canone di equilibrio interno al film e dilata a dismisura la conversazione al tavolo, è un dialogo platonico, quasi che voglia maieuticamente costringere le tre vestali a sancire la fine della civiltà nella Babele di lingue e nella distruzione della biblioteca alessandrina: già lì c'erano i prodromi della consunzione. Quella situazione di chiacchiera fa al caso nostro e alle tre commensali del film apolide e poliglotta ci piacerebbe sostituire i tre registi classici. In una sorta di Simposio chiamato a dirimere la questione da loro messa in scena: Anghelopulos rappresentato da La sorgente del fiume, Godard al posto di Catherine Deneuve con L'eloge de l'amour e Oliveira stesso al posto di Maria Rosa; della Sandrelli possiamo tranquillamente fare a meno. Proprio Tim Burton potrebbe ambire a farsi rappresentare dal Big fish emblema della narrazione ripescata postmodernamente, che mette in scena la morte, tedoforo proprio di quella materia che nei tre film magnetizza il racconto, trascinato proprio lì; ma egli da un lato si rappacifica con la pulsione di morte e dall'altro proprio per questo affascina con una nuova narrazione, che non a caso è un favola palingenetica, che sostituisce alla morte dell'affabulatore il suo erede recalcitrante, laddove i nostri maestri classici hanno ben chiaro l'azzeramento della Storia come unico obiettivo plausibile (e dunque anche di ogni possibile narrazione). La rinuncia al minimalismo, malattia senile del realismo, è la condizione di poter realizzare un dramma come quello inscenato da Anghelopulos su una Antigone bellissima epitome del rifiuto delle divise e della guerra, al di là di ogni senno ormai perduto, simboleggiato perfettamente da quella litania ripetuta reclinata sulla panchina, ossessionata. Come 25 anni fa sulle riviste specializzate, questi stessi nomi si occupavano di rimeditare sul linguaggio cinematografico rivoluzionato dalla tecnologia o erano portati ad esempio per trovare un modo di narrare con le nuove immagini a disposizione, così adesso quegli stessi si ritrovano a meditare sulla fine della metafisica occidentale, antiipando le svolte che una guerra comporta sempre e che sono evidenti solo molti anni dopo che la guerra è ufficialmente finita, ma i suoi miasmi depleted non hanno ancora completato il fall out sulle culture coinvolte. E tutti loro trovano soluzioni per metterla in scena senza farsi condizionare dai canoni mercantili o da mezzi spettacolari, né tantomeno concedendo nulla al piacere. Anzi.

Altro aspetto che fa di un classico una certezza a cui appigliarsi è quello che consente a un autore, a un'opera, a un'immagine di rimanere sempre coerente con se stessa: recentemente la Fiat si è appropriata addirittura di "I'm a passenger". non è riuscita a renderci alieno o odioso un testo generazionale, bandiera di quel ribellismo disperato e senza idoli sostitutivi, ma ha scalfito parte della mia gioventù... e del ribellismo che stava dietro a quel pezzo. Però, quando vedo i soldatini targati Usa torturare e poi ripesco Le Petit Soldat dalla mia videoteca, capisco cosa significa definire maestro Jean Luc Godard, quello è un classico, come lo è Voltaire e il suo lucido e sarcastico illuminismo laico, perciò sulla scorta della ragione dei due grandi illuministi chiediamo la messa al bando universale di ogni forma di religione, di qualsiasi truffa mistica, di qualunque precetto divino, di qualsivoglia rito sacro o simbolo di devozione a chiunque, naturale o soprannaturale che sia.