Mostra del Cinema di Venezia 2008
26-29 agosto
Diario minimo - le impressioni registrate in diretta durante la Mostra
i film recensiti:
NOWHERE MAN di Patrice Toye
TUTTO È MUSICA di Domenico Modugno
NEL BLU, DIPINTO DI BLU (VOLARE) di Piero Tellini
WANMEI SHENHUO (PERFECT LIFE) di Emily Tang Xiaobai
DO VISÌVEL AO INVISÌVEL di Manoel De Oliveira
BURN AFTER READING di Joel & Ethan Coen
PA-RA-DA di Marco Pontecorvo
MACHAN di Uberto Pasolini
POKRAJINA ŠT. 2 (LANDSCAPE No 2) di Vinko Möderndorfer
JERICHOW di Christian Petzold
SHIRIN di Abbas Kiarostami
JAY di Francis Xavier Pasion
AKIRES TO KAME (ACHILLES AND THE TORTOISE) di Takeshi Kitano
HESHANG DE AIQING (CRY ME A RIVER) di Jia Zhang Ke
IN PARAGUAY di Ross McElwee
KHASTEGI (TEDIUM) di Bahman Motamedian
INJU LA BÊTE DANS L'OMBRE di Barbet Schroeder
GIRARA NO GYAKUSHU / TOYAKO SAMITTO KIKI IPPATSU! (MONSTER X STRIKES BACK: ATTACK THE G8 SUMMIT!) di Minoru Kawasaki
L'irruzione
del reale fa male agli occhi, al cuore
Molti hanno detto
che è stato un festival con pochi film davvero capolavori o
perlomeno opere impressionanti a tutti i livelli. Ma in realtà
le lamentele sono arrivate da coloro che confondono cinema con
passerella. E l'atteso glamour è mancato, solo perché
non c'erano film selezionati con star tipo Brad Pitt e Geoge Clooney
visti solo il primo giorno per il film dei Coen. Ma gli altri film
sono stati selezionati innanzi tutto per il loro valore “artistico”
e non certo per la presenza di divi: è già una conferma
che la direzione Muller è stata ed è una delle migliori
al Lido. Qualche volta la pacatezza di stile, di espressione nella
messa in scena di autentiche tragedie storiche ha fatto storcere il
naso a chi si aspetta da un film giocoforza un livello di
spettacolarizzazione. Contrapposizione tra due tendenze stigmatizzata
dallo stesso Paolo Mereghetti (l'autore dell'omonimo dizionario, per
chi non lo conosca) in un intervento sul Daily veneziano a cura di
Ciak, tra film con ambizioni artistiche e film irrigiditi su note
formule di sceneggiatura oppure sulla semplice riproduzione della
realtà. A ben vedere è proprio in questo filone che la
mostra del cinema veneziana 2008 ha regalato un surplus di pensiero,
di riflessione. Come mai prima, forse. E la causa potrebbe essere
l'urgenza della Storia di oggi, anzi la moltiplicazione delle storie
di tutti i popoli che si intrecciano caparbiamente ed anche le
possibilità di raccontare/raccontarsi con mezzi più
economici. La globalizzazione col volto intelligente che si assume la
responsabilità degli eventi da una parte all'altra del
pianeta. Che è poi tutto ciò che si vuole nascondere,
la causa legata all'effetto. La definizione di “irruzione del
reale” è stata pronunciata da Marco Muller, e sta certamente
a significare quanto sia forte, prepotente la comunicazione degli
audiovisivi di tutto il mondo, quasi permanentemente fissa su
accadimenti quotidiani, su fatti che hanno bisogno di essere
osservati, trasmessi, ed analizzati da tutti, perché è
questo il compito più importante della produzione di immagini
movimento, quella di testimoniare il mondo di oggi, al di qua, prima
dunque della realtà già confezionata dai poteri forti.
Però la fine del festival ci ha deluso, perché se si
doveva premiare un'opera in sintonia anche con la maggior parte di
pellicole viste quest'anno, era proprio la cronaca storica la vera
protagonista del festival, l'immaginazione libera al lavoro sulla
realtà. Poteva essere il film della Bigelow, il più
completo di tutti sulla guerra in Iraq. Ed invece è stato
premiato un film individuale, poco collettivo, familista, un Mickey
Rourke mattatore che è l'unico centro del film e gli altri
premi sono andati verso il riconoscimento di una fiction per certi
versi più rassicurante, sebbene si sia dato un premio al folle
Schroeter che rilegge la perpetuazione dei regimi in chiave
wellesiana.
Nelle giornate degli autori primo passaggio per
Nowhere Man della regista
Patrice Toye, goffo nell'illustrare la solita utopia di fuga dalla
quotidinità ordinaria (come premessa andava bene, ma poi... ),
che schiaccia ogni slancio della persona quarantenne o giù di
lì, con un rapporto coniugale al limite della noia, almeno per
lui. Fuga fisica in un paese tropicale, ma del terzo quarto mondo,
grazie ad un incendio in cui il nostro fa perdere le tracce, anzi
lascia i documenti in modo da farli ritrovare ai pompieri ed alla
moglie cosicché può considerarlo sicuramente defunto.
Dopo le varie vicissitudini all'estero, tra cavalli moribondi che
sferrano incredibili morsi invalidanti alla mano, il nostro torna
inspiegabilmente a casa e diventa l'amante della moglie. E qui
dovrebbe iniziare un altro film che però è fuori tempo
massimo. C'è da aggiungere altro? Non crediamo. C'era forse da
parte di Toye la pia illusione di creare quel minimo di tensione
quando il protagonista taglia tutti i suoi legami col passato, ma la
nuova vita non sembra proprio così desiderabile, a sgobbare
tutto il giorno per un po' di cibo e col rischio di esser preso pure
a botte...
La prima giornata ci accoglie un film fuori
concorso evento come Tutto è musica
di Domenico Modugno, scritto insieme a Franco Migliacci, autore di
molte canzoni di Modugno e qui assistente alla regia e da Tonino
Valerii. Sembrano tanti spezzoni (s)collegati e montati senza
criterio. Ma il film ha una sua bellissima dimensione di libertà,
di erranza in un mondo fantastico dominato da ogni tipo di creature.
Spicca la parte con Franco Franchi e Ciccio Ingrassia, laddove
l'apparizione di sirene molto particolari dà lo spunto alla
gag dei due noti comici le cui gag straconosciute rimandano anche al
celebre Rinaldo in campo di Garinei. Nelle altre parti Modugno fa se
stesso, ma con quella leggerezza sconosciuta a qualsiasi cantante di
oggi. Certo Modugno era proprio un'altra cosa e questo film è
davvero un gioiello. Speriamo che lo si possa rivedere in tv o dvd.
A seguire Nel blu dipinto di blu (Volare)
di Piero Tellini, sceneggiato da Ettore Scola e Cesare Zavattini
insieme a Tellini; musicaello su cui non si può aggiungere
niente tranne che si tratta di una commedia all'italiana in piena
regola coi suoi noti limiti di messa in scena, qualche volta che sono
i personaggi troppo abbozzati e le frequenti ripetizioni che fanno
perdere tensione al racconto spesso strumentale solo al numero
musicale del cantante di turno. Nel blu dipinto di blu
(Volare) è peraltro
passato anche di recente in tv. Non costituisce una sorpresa
all'interno del festival, giustificabile solo perché
all'interno di un piccolo omaggio a Modugno, che meriterebbe ben più
ampie retrospettive. Fa comunque piacere rivederlo in una giornata un
po' vuota (quest'anno il festival inizia per davvero solo il 27
agosto).
Prima vera giornata di “lavoro”. Il primo film
sorpresa ci sorprende veramente. Non si tratta del comunicato film
Tedium sui
transessuali iraniani, ma del film cinese Perfect Life
di Emily Tang. Ci sono quindi ben due film sorpresa nella sola
sezione “Orizzonti”. Emily Tang firma il suo secondo
lungometraggio dopo sette anni dal premiato a Locarno Dongci
Blanwei (Congiunzione). Produce
tra gli altri Jia Zhang-ke e ciò induce a pensare una forte
affinità della Tang con l'autore del Leone d'Oro Still
Life. Affinità che si
respira fin dalle primissime inquadrature, laddove di fronte a
vicende umane ordinarie eppure narrabili con ben altro piglio,
l'occhio della macchina da presa è piuttosto fisso a catturare
i piccoli segni dei personaggi e degli ambienti in cui si muovono. La
Tang così può descrivere in senso larghissimo la
vicenda di due donne di una Cina moderna, sempre irriconoscibile
nella sua densa varietà di passato presente e futuro. Ma a
fissarsi sono sempre più gli interni, le stanze dove ci si
prostituisce prima di un karaoke, c'è sempre qualcosa di
stupefacente e incredibile nella vita in Cina e l'amore negato,
perché la necessità di sopravvivenza costringe a scelte
economiche, per cui sembra svanire la possibilità di qualsiasi
sogno romantico. Eppure la Tang intreccia una storia curiosa tra lo
zoppo mercante d'arte e la protagonista ventenne. Ma si tratta di una
delle tante tracce disperse che s'aprono liberamente, nelle quali lo
spettatore può tuffarsi con tutta l'ingordigia di svelare
davvero un altro mondo.
Altri due film fuori concorso. Il
primo è il cortometraggio più atteso di Manoel De
Oliveira, Do Visivel ao Invisivel
di appena sette minuti, in cui due amici si incontrano nell'affollata
città portoghese di Lisbona e cominciano a dialogare, ma sono
subito interrotti dal trillo dei loro telefonini. La gag è
abbastanza prevedibile: la conversazione sarà continuamente
interrotta dai cellulari, finché i due continueranno a
parlarsi dal rispettivo telefono. Paradossale, ma assolutamente
lucido e riflessivo.
Il film dei fratelli Coen Burn
After Reading è un
gioiello di sceneggiatura, il ritmo è serratissimo e non c'è
davvero il tempo di annoiarsi. I Coen con un film apparentemente
demenziale toccano corde molto tese della vita di oggi: l'ossessione
per il corpo, la fitness a tutti costi, le operazioni di chirurgia
estetica, i rapporti coniugali ambigui e ipocriti, le relazioni
virtuali tra sessi che devono infine fare i conti con gli incontri
reali, l'ossessione per il denaro, la stupidità
dell'intelligence, dei servizi segreti, infine la facilità con
cui si fa fuori una persona sempre grazie alla presenza costante di
armi da fuoco.
Passa per la sezione “Orizzonti” il prevedibile
di Marco Pontecorvo, il figlio di Gillo Pontecorvo e noto direttore
della fotografia. PA-RA-DA è
la ronaca annunciata del lavoro di volontariato dei clown per salvare
i bambini vagabondi che vivono prevalentemente nella stazione
ferroviaria di Bucarest, Romania. Trae ispirazione da una storia e un
personaggio veri come il clown francoalgerino Miloud Oukili; il
grande attore Jalil Lespert che lo impersona riesce in qualche
momento con la sua energia istintuale a trasmettere quella follia che
ci vuole per essere veramente volontari mettendo a repentaglio la
propria vita. Quando il suo personaggio si cala nelle fogne rifugio
davvero riusciamo a cogliere tutto il degrado a cui quegli esseri
umani si sono abituati. E che la lotta per salvarli consiste nello
slogan ripetuto ad oltranza: “RISPETTO”. Rispetto per se stessi
innanzitutto, per comprendere che la dignità di una vita umana
è un valore da presumere, un inizio per un'esistenza con quel
briciolo di speranza e di ottimismo che ci sottrae dall'essere
semplicemente un essere bestiale. Purtroppo il film è
abbastanza scontato e certo non bastano le buone intenzioni del
tema.
Machan è
il debutto alla regia per Uberto Pasolini, produttore del noto film
Full Monty di Peter
Cattaneo, e nipote di Luchino Visconti. La storia prescelta dal
regista è veramente accaduta, sebbene si stenti proprio a
crederlo: una finta squadra di pallamano dello Sri Lanka riesce a
farsi mandare un invito dalla squadra tedesca, per un confronto
occasionale. I giocatori cingalesi sono tutti improvvisati, infatti
non esiste neanche la federazione nazionale di pallamano, vorrebbero
tutti emigrare all'estero ed escogitano questo piano sgangherato
sulla cui riuscita nessuno scommetterebbe. Comicità spesso
involontaria, anche grottesca ed invece delle lacrime e della
sofferenza che sgorgano a profusione da ogni personaggio.
Pokrajina
št. 2 (Landscape no 2) di
Vinko Möderndorfer è un'opera strabiliante per la
capacità di seduzione, di perversione continua, di voyeurismo
che sfocia nell'horror. E quasi alla fine si prova disgusto per esser
stati irretiti nella follia omicida di un serial killer fedele al
regime della ex Jugoslavia. E soprattutto nella capacità di
cancellare vite mettendone in scena la morte come in in macabro
rituale di messa in scena quale potrebbe essere un film di Dario
Argento. Ma qui c'entra infine la Storia e si sente tutto il ribrezzo
per quella mano assassina che si ostina a difendere la reputazione di
un generale collaborazionista infibulato per disfarsi dell'urina e
mal ridotto, ma che tiene ancora in vita la pantomima del potere. C'è
tanto in questo film così esuberante e ben scritto, derivato
peraltro dal romanzo dello stesso regista edito in Italia da Mesogea.
Sono folgoranti molte scene. Oltre agli omicidi ricordiamo le
numerose scene di sesso esplicito e poi il baratro della fossa comune
che sembra un'allucinazione ad occhi aperti e si fissa come la luce
di una stella cadente sulla quale non giureremmo dell'esistenza e che
invece si trova lì immersa nella profondità della
vegetazione boschiva rischiarata dalle mille luci delle candele
poggiate lì per ricordare le migliaia di vittime.
Jerichow
di
Christian Petzold dovrebbe essere un triangolo in stile Ossessione
anche
se è stato tirato in ballo Qualcuno
verrà
di Vincente Minnelli (non ce ne siamo accorti però!). La
tensione iniziale è accesa soprattutto dalle atmosfere
insolite create da personaggi abbastanza ordinari eppure immersi in
una sorta di mutismo misterioso che è fondamentale per il
livello di immaginario. C'è un'apprezzabile fusione tra
territorio astratto di una Germania di provincia e corpi che però
si avvita fatalmente su un obiettivo narrativo prevedibile. Per cui
il film cresce più nelle pause, negli intervalli in cui si
vaga liberamente, perde di bellezza nelle caratterizzazioni dei
personaggi, fissate peraltro in tratti che sembrano non essere nelle
corde degli interpreti, o almeno è proprio l'esasperazione, la
tendenza al minimalismo a tenere in precario equilibrio l'equazione
tra senso della messa in scena e sensazione del ridicolo, piuttosto
che quella dimensione grottesca, amara, che si vorrebbe sottolineare,
dal senso di non appartenenza di un turco in Germania, alla malafede
nei rapporti umani, agli spregiudicati affari che hanno sempre
bisogno di un padrone che sorvegli.
Shirin
di
Abbas Kiarostami costituisce il punto di non ritorno per un autore
che ormai si autodefinisce sperimentale, dando la sensazione,
purtroppo, di non sapere neanche di cosa parli. Inquadrare per un'ora
e mezza dei visi femminili tra cui quello dell'attrice Juliette
Binoche, spettatori di uno spettacolo teatrale o cinematografico che
sia (poco importa) ispirato alla mitologia ed alla leggenda iraniana,
il poema di Nezami Ganjevi del dodicesimo secolo, è soltanto
un'operazione infruttuosa che non articola alcun materiale simbolico,
né tanto meno si aggancia ad un sistema segnico degno di
qualche installazione d'arte. Lo sarebbe soltanto fuori tempo massimo
e qualora si tirasse in ballo la riflessione su una posizione
spettatoriale, sarebbe certo grezzo intellettualismo ricamarci dei
discorsi sopra (per esempio l'esclusione dei maschi, visibili solo
sullo sfondo dietro i visi femminili... ). Tanto più che
l'esposizione dei visi appare più legata ad un voyeurismo
estremo nei confronti della reazione del pubblico che Kiarostami ha
sempre mostrato ed amplificato nelle articolazioni narrative dei suoi
film. Paradossalmente Kiarostami riesce a seguire la propria unica
ossessione facendo a meno di una traccia e di personaggi. Il suo
tentativo di vedere oltre è oggi solo la frustrazione di poter
immaginare un qualcosa di costruito, di artefatto come le espressioni
dei volti, stimolati da falsi stimoli di visione.
Jay
di Francis Xavier Pasion è uno dei migliori film visti
quest'anno(e non solo alla Mostra). Prima di tutto riesce a mettere
in scena un set autentico, televisivo, con tutte le sue immoralità.
Tale mancanza di dignità umana, ovvero la pornografia
dell'immagine trasmessa corrompe chiunque. Basti vedere la scena in
cui viene richiesta alla madre che perduto il proprio figlio di
rifare la scena in cui scoppia in un fragoroso pianto presso la bara.
Bastano poche espressioni, qualche sguardo per farci comprendere come
la (non) moralità dell'occhio elettronico abbia frantumato il
senso di pudore, vergogna, rispetto di ogni residuale intimità
umana. Così Jay
appare davvero un capolavoro di mutazione antropologica in corso,
trasformazione di una specie sotto la spinta di un immaginario/reale
riflettore, macchina di cattura del reale, che deve in ogni caso,
esser presente per restituirci un reale ancora più vero e
seducente, un reale che vogliamo perché ormai incapaci di
limitarci all'attimo perduto nel tempo. La macchina di riproduzione è
la sola panacea di fronte all'oblìo dei sensi, della vita
tutta che sappiamo finirà un giorno ingoiata nel nulla
dell'universo. E l'illusione nel film fa continuo cortocircuito, tra
le varie operazioni di svelamento del “reale” Jay, omosessuale
con tutte le sue caratteristiche di essere vivente, e la sua
riproduzione/ritrasmissione vera e falsa, ma poco importa, e pure
avallata da parenti, amici, che con assoluta serenità
accettano questa continua ricostruzione videoelettromagnetica, anche
di fronte all'incidente vero del pulcino che soccombe per girare una
ripresa di un reale voluto, immaginato, in un certo modo.
Takeshi
Kitano con Achilles
and the tortoise
continua la riflessione sull'artisticità della vita. E questa
volta, rispetto agli ultimi due film, presentati entrambi a Venezia,
ovvero
Takeshis' e
Glory to the filmaker!
sembra più ossessionato dalla rintracciabilità del
talento in una vita e dalla definizione stessa di talento, o
semplicemente di creazione artistica, questa volta in campo
pittorico. Non solo quindi se tale capacità naturale appaia
presto nella vita di un uomo, ma anche che rapporto possa avere con
la Storia e con il mercato, laddove le opere possano trasformarsi in
merce ed assicurare la fama al suo creatore anche dopo la morte. Per
questo Achilles
and the tortoise
descrive il periodo di formazione individuale, dall'infanzia del
protagonista Machisu, la cui arte pittorica è certo indotta
dall'educazione familiare e scolare, fino alla adolescenza che si
scontra con i movimenti artistici astratti e poi fino all'età
adulta che fa i conti con le necessità della vita, quelle
ordinarie che ti costringono a rendere redditizio qualsiasi lavoro.
Da un punto di vista narrativo è forse una delle opere più
lucide di Kitano. La prima parte sembra soffrire per la mancanza di
quel senso di follia caratteristico del grande beat Takeshi, tanto da
apparire quasi un ritratto convenzionale. Ma la seconda parte è
più intrigante nelle aporie e nei momenti surreali di
produzione di un quadro, quando l'attempato artista insieme alla
compagna che lo sostiene pervicacemente, cerca tutti i modi per
trovare una via concreta per le sue pitture, pensa qualsiasi tipo di
tecnica che possa trasformarsi in gesto artistico tout court. Ma la
concretezza, ovvero il riscontro del pubblico, il riconoscimento di
artisticità di opere è un fattore non prevedibile.
E
Kitano non può che chiudere la sua storia con quel pizzico di
ossessione che non guasta, quell'insana, morbosa brama d'autore che
si trasforma in gelido cinismo di fronte alla morte di una figlia.
Paradossi e misteri dell'arte.
Heshang
de Aiquing – Cry Me a River
di Jia Zhang-ke dura soltanto una ventina di minuti, folgoranti
immersione nella possibilità di visione ancora aperta del
mondo. Jia Zhang-ke è davvero il cineasta più sensibile
al mondo, o almeno uno dei più grandi osservatori e creatori
dello spazio tempo cinematografico, che si apre alla bellezza di una
figurazione nuova, inedita, laddove non ci sono apparenti elementi di
interesse, eppure in breve, in pochi minuti respiriamo, scrutiamo
qualcosa che ci seduce, ci cattura fino in fondo. tanto che alla fine
dei venti miinuti ci vien quasi voglia di protestare: ma come solo
questi pochi minuti? Abbiamo bisogno di continuare questa storia
visionaria, ordinaria, bellissima, che è sussistenza dello
spazio, del tempo, dei corpi che si muovono in questa breve messa in
scena... spirituale ed effimera, necessaria ed inebriante.
Curioso
che un viaggio di adozione
In Paraguay si
trasformi in analisi di un paese a tutto tondo. Realizzato dal
regista indipendente Ross McElwee in sedici millimetri, quasi per
avvicinarsi all'oggetto di ripresa con più calore e verità.
Certo a tratti è irritante la voce fuori campo del regista,
con i suoi commenti ingenui laddove si scopre il collegamento diretto
tra i regimi sudamericani, come quelli del Paraguay e gli Stati
uniti. Ma c'è qualcuno che non ne sia a conoscenza. Eppure
all'inizio McElwee si chiede come mai ci sia tanta povertà in
giro unita al solito sorriso degli abitanti, i quali sembrano
abituati ad ogni sopruso e la “cessione” di un loro figlio alla
famiglia ricca del nemico potrebbe sembrare il gesto conclusivo di
disperazione di un popolo che ha perso davvero tutto. La legge
controlla gli spostamenti dei bambini soltanto per rendere più
difficoltosi le ben più tragiche operazioni di traffico di
organi dai bambini sani ai malati dell'occidente a cui servono pezzi
di ricambio organici a buon prezzo. Francamente la cronaca un po'
attutita della permanenza della famiglia McElwee non frega un cazzo a
nessuno. Però quanta ignoranza, falso rispetto, sordida
percezione delle cose.
Khastegi
(Tedium)
di Bahman Motamedian è una sincera rappresentazione della
diversità sessuale. Ovunque essa si presenti, in seno alla
famiglia, in strada, in altri luoghi pubblici e privati, costituisce
il principio di una reazione accompagnata da un pregiudiziale
rifiuto. Il film di Motamedian guarda sempre dal punto di vista
opposto: da chi subisce il trattamento discriminante e si trova a
costruire, articolare tutta una nuova esistenza, fatta di
stratagemmi, azioni, pensieri e sogni per sopravvivere comunque. E
qui conta innanzitutto l'espressione dell'identità, come
sgorga dalla propria intima natura. E l'inclinazione naturale appare
sacrificata dalla solita rigidità schematica che vuole un
mondo esclusivamente eterosessuale con la coppia maschio femmina
tradizionale e pure il maschio dominante ed il patriarcato.
Motamedian quasi incoraggia la riflessione e l'esposizione estrema e
radicale dei suoi personaggi, uomini che vogliono diventare donna e
lascia vedere quanto sia doloroso il loro confronto con una società
che neanche li vede, li sopprime anzi senza scrupoli secondo un dogma
che non è solo istituzionale, ma delle famiglie, del privato e
del vissuto più intimo. Se una madre ed un padre non si
rendono conto della condizione reale dei loro figli, chi può
mai considerarla all'esterno? Motamedian filma sempre dal basso, è
un cinema rasoterra, confessionale che ha la voglia e il desiderio di
documentare, nella speranza che il cinema serva davvero
all'evoluzione, al progresso spirituale e civile della società
umana.
Inju
la bête dans l'ombre
di Barbet Schroeder è un esempio di cinema mutante,
colonizzato da forme continuamente traslate nell'oblio del nonsense.
Per questo il film di Schroeder è senz'altro ambizioso negli
obiettivi, nel senso che non sembra fermarsi soltanto all'ispirazione
del romanzo omonimo da cui è tratto il soggetto, dello
scrittore culto Tao Hirai. Nel film c'è uno sdoppiamento
continuo tra vita reale e quella vissuta o meglio immaginata dalla
fantasia dello scrittore. In questo senso il film è vicino
allo stile di Cronenberg, laddove confonde le figure e le situazioni
creando lo stesso tensione come in un buon thriller. Il problema è
che tale tensione si fonda su uno stimolo suggestivo, quasi su una
illusione di regia che mette in scena situazioni enigmatiche un po'
alla Lynch. In questo contesto si innestano pure corpi filmici alla
Tarantino o duelli jidai-geki. Come noir è abbastanza
performante, peccato però che infine si abbia la sensazione
che Schroeder abbia inserito delle scene gratuite. Come se cercasse
di tenere uniti erotismo e mistero. Ma questa fusione, anche in
presenza di scene riuscite come la geisha che lecca i piedi allo
scrittore, dà luogo ad un senso generale di confusione, di
ipertrofia che il film senz'altro possiede, nel bene e nel male della
sua incessante e indiscutibile oscurità.
Girara
no gyakushu / toyako samitto kiki ippatsu! (monster x strikes back:
attack the g8 summit!) di
Minoru Kawasaki è tra i film più divertenti di questa
mostra. Sarà anche ripetitivo e prevedibile, però la
caricatura dei grandi della terra riuniti per il G8, è
modernissima ed efficace. E sul mostro di godzilliana memoria
rimbalzano tutte le arroganze nazionali fatte a colpi di paroloni, di
proclami, di celodurismi vari (e scusate la parola, ma non me ne
veniva un'altra più diretta). Veder i cloni dei vari capi e
capetti fa un bene terribile alle menti dei cittadini, vittime di
questi statisti esagitati, o meglio palloni gonfiati che andrebbero
immediatamente ridimensionati nel loro potere di fare e disfare i
destini del pianeta. Sono spassose le varie caricature dei capi di
stato, il parolaio italiano, il giapponese succube e col mal di
stomaco, il francese tombeur des femmes, la tedesca inguardabile
arpia, l'americano guerrafondaio, l'inglese sottomesso, il russo
pronto alla rivalsa attraverso i soliti servizi segreti. Come Z movie
è godibile anche per la parodia alla spiritualità
giapponese, fatta in templi oscuri dove si continuano a fare rituali
in attesa di dei salvifici. Ed invece il deus ex machina è un
perfetto beat Kateshi, come al solito irriverente e sornione al punto
giusto.
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