Mostra del Cinema di Venezia 2006
Diario 7 - 9 settembre (archivio diario: 01 - 02 - 03)
La Noche de los Girasoles di Alberto
Sánchez-Cabezudo attraverso la narrazione circolare è un ritorno al punto di
partenza: l’avidità umana, la crudeltà spietata, la banalità del male.
Presupposti intorno ai quali sviluppare i vari personaggi. Funziona più
l’ambientazione che trae ispirazione dalla scoperta di una grotta che può
essere più di un semplice buco nelle montagne. Ma l’anfratto è invece solo un
piccolo corridoio cieco, laddove lo spazio estremo sarà occupato dall’ennesima espressione
della brutalità umana, un cadavere fresco, che vuole essere solo un irrilevante
ricordo nelle esistenze di alcuni protagonisti della storia. Più che il giallo
in questione è dirompente il senso di corruzione dell’anima, la discesa agli
inferi, il desiderio vacuo di fuga dalla realtà o semplicemente dalla limitata
(seppur in apparenza) dimensione della provincia. Tanto che concreta
protagonista della vicenda appare la lotta contro una noia irredimibile. Vizi e
virtù di un’anonima provincia sono il segno chabroliano più forte di
quest’opera che va dritta verso un’oscurità immaginaria, “la notte dei
girasoli”sempre più sinistra e un po’disperata.
Nue Propriété di Joacquim
LaFosse esplora senza deviazioni amori odi repulsioni familiari, seguito di lacerazioni
matrimoniali e non o indicazioni segrete su gemelli eterozigoti, e
(sopra)vissuti in simbiosi. La contrapposizione netta tra generazioni madre e
figli che vivono nello spazio stretto della stessa abitazione. Ma soprattutto
madre e figli adulti, ognuno dei quali bisognoso dei propri spazi di vita. Il
senso del territorio da riformare dunque più che l’ennesimo dramma familiare
che peraltro LaFosse non filma direttamente o meglio, solo in parte, visto che
la lunga sequenza di soccorso ad uno dei fratelli è guardata da lontano, dagli
occhi dell’altro fratello, impaurito e fuggito alle responsabilità di qualsiasi
civile convivenza. La proprietà è il luogo da marcare, da possedere per
esercitare il piccolo grande potere dell’esistenza individuale. Il luogo non
condivisibile con altri che siano genitori o fratelli. LaFosse, grazie al
talento smisurato dei suoi interpreti tra i quali è sempre regina Isabelle
Huppert, mette in scena i combattimenti continui, le rappresaglie, le
schermaglie che diventano più intense e morbose. La violenza come germe insito
nella vita domestica, nel cuore malato degli insospettabili affetti, la vera
tragedia (greca) dell’umanità.
Rêve de Poussière di Laurent Salgues è il sogno perduto
nella polvere della fatica disumana dei poveri della terra. Miseria e nobiltà
di esseri umani di fronte all’unica possibilità di resistenza, di
sopravvivenza. Vivere in Africa significa direttamente sopravvivere, almeno per
la maggioranza dei suoi abitanti. Non ci sogno segni di modernità, ma solo
oggetti che comprano il futuro. I diamanti o l’oro, come in questo caso. Due
simboli dell’Africa ricca, nelle sue viscere e nella superficie, eppure
svantaggiata perché sottoposta al giogo dello sfruttamento. Sogni di polvere
appunto, vale a dire sogni inconsistenti perché non si traducono in concreto
sviluppo per tutti, ma solo per alcuni ai quali è forse garantita una via
d’uscita oppure una fuga dalla realtà più misera della quotidianità africana.
Salgues filma i corpi e la terra, risucchiato dai colori forti, dalla tattilità
disarmante dell’immagine “africana”. Che non è soltanto immagine “bella”, ma
semplicità del mondo, coincidenza di estremi, rapimento e stupore per la natura
delle cose. Così come il volto tumefatto e scheletrito di un bambino, le immagini
“africane” possiedono sempre questa sorta di ricatto immediato con i sensi.
Accettarle equivale a subirle, a imprimerle nella sensibilità individuale e
collettiva.
Belle Toujours è l’omaggio al
voyeurismo più perverso, esercizio estenuante, libidinoso, quanto inutile e
senza senso. Belle Toujours è il
cinema stesso che non ha voglia di significare alcunché, se non la stessa messa
in scena, laddove sono i percorsi individuali ad appropriarsi dei vari
materiali in gioco. La conversazione per De Oliveira continua ad essere
strumento introduttivo, quasi una pratica amorosa di avvicinamento all’oggetto
desiderato o desiderabile: che poi esista o meno questo non ha importanza. Si
discute sul principio di una donna perversa e di uomini perversi che hanno esperienze
erotiche con questa donna. Bulle Ogier o Catherine Deneuve vien da pensare.
Icone di un enigmatico quanto impenetrabile intrigo, da assaporare, ma da non
provare a conoscere, in quanto inconoscibile ed anche irrapresentabile. Belle
Toujours così è tutto un girare intorno
all’oggetto non rappresentabile, o meglio neanche visibile, forse immaginabile,
come il contenuto della scatoletta che è un semplice spunto suggestivo. Le
immagini nel cinema di De Oliveira sono sempre più sature dell’unico senso
possibile delle immagini cinematografiche: il gusto della messa in scena,
l’articolazione, attraverso il piacere, delle sequenze, con attori magnifici
come Michel Piccoli, che diventano i sacerdoti maestri di un rituale, una
cerimonia misteriosa (come i pranzi e le cene soggetto “unico”, autentico, di
alcune scene), il cinema con/senza orpelli da (non)vedere.
Koorogi (Crickets) di Ayohama
Shinji, film ancora terminale e apocalittico come le precedenti opere passate a
Cannes. Nello spazio vuoto-pieno dell’appartamento possono circuitare le
apparizioni fantasmatiche di una donna giovane e un anziano. Corpi che
paradossalmente si ridisegnano a partire dalle individuali mutilazioni.
Mutismo, cecità, e tuttavia sguardo che insiste perversamente sulla mancanza stessa
del rapporto tra uomo e donna, tutto squilibrato, eccentrico, sì da lasciarsi
vedere in modo del tutto impervio, fuori da ogni tipo di connessione logica
narrativa. Il cinema di Ayohama Shinji così si lancia nel vuoto di uno spazio
marginale eppure epico, mitologico, tanto da aprirsi nella seconda parte
all’avventura di una leggenda: un luogo segreto che ha accolto secoli prima
alcuni rifugiati cattolici, una zona misteriosa che custodisce rituali magici,
o soltanto il sapore di un ricordo sepolto che sta per riaffiorare, una
testimonianza del passato che sgorga improvvisamente dalle flebili tracce del
presente percorse da alcuni improbabili personaggi. Così Koorogi
(Crickets) si trasforma in viaggio nel
tempo e nello spazio nuovo, laddove sono i piccoli segni quali suoni e altre
percezioni il solco profondo e penetrante di un cinema che rimane sempre sotto
pelle pronto ad esplodere in un trionfo di sensazioni forti, contrastanti,
impreviste. Il cinema di Ayohama Shinji ha i tratti dell’essenzialità, del
rigore visivo quando lo sguardo è scrutatore di fenomeni invisibili, ma capaci
di disturbarci con le più piccole propaggini del senso. È un cinema di
superfici che scorrono di fronte alla macchina da presa che non ha mai il tempo
di catturarle, né di modificarle al suo passaggio. Semmai ci si ritrova lontani
in una posizione non più conosciuta, proprio al seguito di ogni movimento
dell’occhio. Il cinema di Ayoham Shinji è capace di rapimenti prolungati e di
improvvisi risvegli. Solo che è impossibile capire se veramente ci si è
svegliati o si continua a dormire profondamente.
Nuovomondo di Emanuele Crialese
Sull'idea di (non)visibilità, di sogno ad occhi aperti sbarrati chiusi, Nuovomondo
(parola unita, senza separazione) è
territorio di confine, d'urgenza, di attesa frustrata. Emanuele Crialese vede
la terra come concretezza, legame intrinseco, intimo, tra uomini e terra e
animali. Per questo la prima parte del film è rappresentazione naturale,
semplice, della vita in svolgimento nella Storia dell'uomo. Come in Respiro, la relazione tra uomo e natura è già (stata)
scritta dal tempo. Quello che invece inquieta di più, vale a dire la seconda
parte, è l'inizio di un nuovomondo "tempo". Il "nuovomondo"
amministrato, regolato dalla nuova immaginazione. Gli Stati uniti possono
essere così tutto e niente. Possono essere il sogno ad occhi aperti del bagno
di latte, che osservato più da lontano è il fiume in piena, la corrente che
trascina centinaia di corpi, che diventano solo numero, dei puntini quasi
invisibili nel flusso (della Storia). La seconda parte di Nuovomondo è già il sogno infranto sulla barriera dell'aridità
burocratica, della gestione contabile di quel flusso. Che non è più cuore,
sentimenti, passione, illusioni, ma soltanto certificati (di matrimonio),
sicurezza igienica, capacità di lavoro, forza e salute, come nella più
insopportabile selezione razziale. Ma non c'è, da parte di Crialese, accusa,
semmai senso pratico, ironia, sorriso, di fronte all'incontro tra due corpi.
Uno antico, diffidente e sincero, l'altro "moderno" reticente e
arrogante. Il secondo, però, si vede appena, si intravede da una finestra, o
meglio, è visto dai personaggi per qualche secondo... poi si ritorna a sognare
un'altra Storia (possibile).
Dopo Steamboy, già a Venezia nel 2004, il regista giapponese Otomo
Katsushiro, famoso per il bellissimo Akira e sceneggiatore anche di Metropolis di Rintaro, continua con Mushishi
(Bugmaster) il giro di vite della
cosmogonia fantascientifica, laddove l'immaginazione manga si fonde in modo penetrante,
qualche volta oscuro, ambiguo, con la Storia dell'uomo. In questo caso i
famigerati Mushi potrebbero essere virus o semplicemente una parte
dell'universo quasi sterminato di creature che popolano le tradizioni
orientali. Insomma l'animismo, la religione, la Storia, creano un mondo
originale dove possono incontrarsi faccia a faccia antico e moderno. E prevale
il desiderio per un mondo spirituale, per un luogo d'incontro tra forze del
bene e del male, ma in quieta lotta, che può diventare furente, apparire
sull'epidermide, altro che malattie occidentali, o visualizzarsi attraverso
l'inchiostro sulle pergamene. Perché il racconto dell'umanità in fondo è un
continuo incontro tra pulsioni molecolari, invisibili e visibili. E Otomo
Katushiro, più che seguire il racconto, tenta di individuare degli spazi di
visualizzazione estrema dell'eterno conflitto tra forze. Un gioco infinito
appassionato e appassionante, ma con i tratti spesso lugubri della tragedia.
Il mio paese di Daniele Vicari
Daniele Vicari sovrappone se stesso, il suo cinema a quello dei grandi padri
del neorealismo o se vogliamo ad un realismo sincero, onesto, etico. Quello di
Zavattini e naturalmente quello di Jori Ivens, e in questo caso il suo L'Italia
non è un paese povero, film del 1959, che
fa da contraltare alle immagini registrate oggi da Vicari. Il modo di filmare
diventa una necessità morale, perché il viaggio va fatto tra persone vere, in
clima di autenticità totale. Mentre De Seta con Lettere dal Sahara, mostra una certa difficoltà nel raccontare
attraverso la fiction una storia di lavoro, immigrazione ed emarginazione,
Daniele Vicari coglie perfettamente le pratiche filmiche che nel 2006 riescono
a costruire un discorso stimolante senza vagheggiamenti autoriali. Un discorso
costruito sull'aderente confronto con le pratiche filmiche del passato e quindi
con registi come Ivens, insuperabili quanto a capacità di penetrare i luoghi
minimi della quotidianità in corso. Perfetta allora la scelta di inserire
alcune scene di quel film, di richiamarlo ogni volta che poteva essere operato
un confronto diretto con il passato. Il risultato è un'articolazione più aperta
del linguaggio documentario, perché arricchita da fonti non solo dirette, ma di
quelle filmate nel 1959. A questo punto è lo spettatore chiamato, come
suggerito da Vicari nel titolo "il mio paese", a descrivere
intimamente il proprio paese. Il nostro paese che si snoda, che lo vogliamo no,
dall'estrema punta della Sicilia alle Alpi.
Still Life di Zhang-ke Jia
Ancora la vita è possibile nel mondo. Zhang-ke Jia continua il discorso sulla
rappresentazione di un mondo che sfugge alla vista. La percezione è strutturata
su una complessa somma di segni, che mutano in modo totale la terra. Per questo
l'opera precedente si intitolava semplicemente The world. Non tanto strano che in questi ultimi mesi siano usciti film
dal medesimo titolo, vale a dire The new world di Malick e Nuovomondo di Crialese. Troviamo in queste
opere la centralità assoluta della percezione di un territorio. Laddove il
senso di globalità si scontra in modo diretto e spesso drammatico con le sorti
di un piccolo territorio. Ma in queste porzioni di terra, palpita la vita. Nel
film di malick erano gli indigeni, in Still Life sono le azioni quotidiane di una popolazione
in un lembo di terra che subisce terribili modificazioni del proprio tessuto.
Zhang-ke Jia con The World pensava a un mondo fatiscente, falso, artificiale, con le sue
riproduzioni infinite di icone, che servono solo a ridisegnare uno spazio
omologato. Invece in Still Life, registra il movimento di resistenza, oppure la passività vitale dei
corpi che continuano la loro esistenza, noncuranti delle pressioni
globalizzanti, dello sterminio continuo del territorio storico. Per questo la
drammaticità delle storie messe in scena dipende dalla loro stessa appartenenza
viscerale al profilmico, se vogliamo allo sfondo, che non è solo sfondo, ma è
anch'esso corpo vitale. Ovvero ciò che non è riuscito ad Amelio: La stella
che non c'è,
infatti, non è in grado di amalgamare corpi e sfondi, semmai separa il pesaggio
umano da quello naturale. Il cinema di Zhag-ke Jia è, al contrario, sempre
consustanziale al movimento dell'occhio (mdp). Non c'è alcuna separazione, ma
ogni volta coalescenza. Una magica, straordinaria coincidenza di ogni estremo,
come se vedessimo perfettamente posizionati gli elementi in un mondo ancora
coerente, ma si percepisse al contempo la sua deriva frenetica verso una
direzione fuori dal mondo stesso e per questo inquietante e schizofrenica.
Tanto che può benissimo apparire una astronave aliena, perché è proprio il
senso di una diversità assoluta ad affiorare nel mondo tra le pieghe di una
Storia antica che sta per dissolversi davanti ai nostri occhi e che Zhang-ke
Jia riesce a cogliere nella sua sottile labilità.
El amarillo di
Sergio Mazza
L'esordio di Sergio Mazza, argentino, è un film di presenze, di elementi
materici in grado di risvegliare i sensi dalla sovrabbondanza di stimoli.
Stimoli che sono "altri" per Mazza o almeno, dovrebbero esser
"altri" per tutti. Il principio dello sguardo diventa
un'articolazione dettagliata dell'incontro tra esseri viventi. Soltanto in
questa parcellizzazione dello sguardo, che non è sterile gioco minimalista (al
contrario semmai) possiamo, di nuovo, percepire, attraverso sensi
"genuini", un nuovo rapporto con l'altro (spazio). Che non è solo
controcampo, ma posizione attiva, nella prospettiva intima di un occhio, quello
del protagonista.
El amarillo è un
film sulla pelle, sulla superficie, laddove si aggrovigliano tumulti e passioni
e nonostante all'apparenza sulla scena non accada un bel niente. Al contrario è
proprio il riverbero potente di un punto di vista, descritto a trecentosessanta
gradi, che riesce ad essere principio di una comunicazione assorta e
penetrante. Sergio Mazza ha spinto all'estremo la ricerca di un contesto visivo
e visionario che coincide con percezione dell'anima. Per questo motivo il
cinema di Mazza è del tutto in linea con le opere più estreme contemporanee in
cerca di una percezione "allargata", di una sensorialità estesa come
in grandi autori quali Hou Hsiao Hsien, Apichatpong Weerasethakul, Tsai Ming
Liang, tanto per citare i più interessanti.
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