Mostra del Cinema di Venezia 2007
31 agosto, 1 - 2 settembre (archivio diario: 01)
i film recensiti:
Redacted (Concorso)
Nessuna qualità agli eroi (Concorso)
L’Aimée (Orizzonti)
Geomen tangyi sonyeo oi – With a Girl of Black Soil (Orizzonti)
Andalucia (Giornate degli autori)
In the Valley of Elah (Concorso)
Les Amours d’Astrée et Celadon (Concorso)
It’s a free world… (Concorso)
Hotel Meina (Fuori Concorso – Venezia Maestri)
Cléopatra (Fuori Concorso – Venezia Maestri)
24 Mesures (Settimana della Critica)
Cassandra’s Dream (Fuori Concorso – Venezia Maestri)
La fille coupée en deux (Fuori Concorso – Venezia Maestri)
The Assassination of Jesse James by the Coward Robert Ford (Concorso)
Wuyong – Useless (Orizzonti)
Cochochi (Orizzonti)
Sous les bombes (Giornate degli autori)
The darjeeling Limited (Concorso).
Il film più estremo finora visto, Redacted, una sorta di punto di
non ritorno, luogo di coalescenza di immagini, sequenze registrate, che formano
un quadro severo, unico, imprescindibile della Storia. Già nel titolo, che fa
riferimento alla redazione di appunti sparsi, articolati per documentare, la
guerra in Iraq. Redacted è quindi un film già girato, già presente,
nello spazio delle immagini globali, che troviamo un po’ ovunque, televisione,
internet. De Palma lo fa (corto)circuitare all’interno dell’opera film,
dimostrando che il testo cinematografico politico, realmente militante, ha la
sola funzione di far esplodere pezzi di non fiction che sono fiction, che sono
pure altro, testimonianze dirette, brandelli di citazioni apparse su blog, ecc.
Materiali sparsi che deflagrano all’interno di una traccia continua, corposa e
sincera, nuda e cruda, ma con l’onestà, o la capacità di non eccedersi, di non
oltrepassare il limite dell’esibizionismo voyeur gratuito. Per questo la
ripresa digitale non può che esser ripresa digitale, non effetto dunque, ma
semplice registrazione quotidiana di eventi, non immaginario, ma immagini reali
che si accumulano nella loro terrificante ovvietà. La semplicità dell’evento
guerra è così la semplicità del male nell’uomo, la sua naturale esplosione
laddove c’è la concretizzazione di fatti congiunti che portano inevitabilmente
all’orrore. E Redacted riesce a documentare proprio questo: la
concentrazione di elementi che causano la guerra, ovvero i giovani sottoposti
allo stress continuo del check point, alla lontananza dalla propria famiglia,
alla rinuncia del sesso, loro che sono così giovani e dovrebbero dedicarsi
tutti i giorni all’amore ed invece sono sfruttati per un conflitto oscuro.
In Nessuna qualità agli eroi bisognerebbe partire dal titolo, che in
qualche modo fa riferimento alla figura paterna, o meglio ad una paternità non
eroica che deve essere naturale e semplice, al di là delle qualità
dell’individuo. Una paternità solo come amore diretto, non soltanto verso i figli,
ma verso il mondo intero. Una paternità, dunque, che è indicazione,
riferimento, modello. Nel film di Franchi, che è opera di straziante assenza
dell’elemento paterno, la ineluttabile peregrinazione dei personaggi maschili,
entrambi figli, corrisponde agli stati di depressione e follia. Da una parte
l’umore nero di Bruno/Todeschini (anche il nome è indicativo di un colore
oscuro), che lo porta a non volere fisiologicamente e mentalmente la nascita di
un figlio. Come se l’eventuale paternità dovesse esser negata, perché comunque
infruttuosa, o addirittura inconcepibile come gesto che non si concretizza nel
mondo. Dall’altra parte Luca (Germano) che reagisce con la psicosi, considerata
come lavacro ineluttabile della somma ingiustizia derivante dal padre. Le
storie non sono narrazioni affrontabili e percepibili su un piano spettatoriale
che è ormai lontano. Su questo punto l’asse principale è il rapporto corporale,
organico, con gli attori, con lo sguardo, i gesti, il sesso esplicito, che è
fuga e ritorno ad una realtà solo apparente. Il fallo di Germano è una presenza
confortante, un grido di liberazione. Ed è proprio la pulsione sessuale, in
qualunque modo si esprima, a superare il vincolo tra atto in sé e riproduzione
(inutile) della specie umana. Non c’è, insomma, nel cinema di Paolo Franchi, la
possibilità di (ri)nascita perché la vita stessa è concentrata sull’austera
attesa di un segno morale forte, preciso, che giustifichi il rapporto genitori
figli, la continuazione genetica. E l’espressione muta, assorta di Bruno
consiste nel sofferto sradicamento dal padre e dal paese natale che si sforza
di trovare quella radura limpida di vita che è processo di senso e non semplice
perpetuazione di una qualità solo presupposta ma del tutto assente.
L’Aimée è uno dei film più suggestivi, per stimolo alla fantasia, alla
creazione di una memoria che coincide con un vissuto virtuale. L’Aimée è
la storia di un personaggio del tutto assente come corpo davanti la macchina da
presa. Thèrése, la nonna paterna di Arnaud Desplechin è morta giovanissima di
tubercolosi, il padre di Arnaud, Robert, aveva appena diciotto mesi. Quindi non
ha alcun ricordo diretto, identificabile, ma solo qualche fotografia, poche
immagini intorno alle quali ha (ri) costruito una relazione vivissima con il genitore
scomparso. E attraverso gli spazi della casa che adesso è in procinto di
vendere, abitazione dell’infanzia, sono tutte le memorie che riaffiorano sotto
forma di testimonianza. E attraverso il dialogo intervista col padre,
Desplechin regista, con una macchina da presa 35 mm e qualche lampada, un’iride
ed un’equipe di cinque persone, registra con passione quelle tracce mnestiche,
apparentemente inesistenti, ma che a poco a poco si accumulano. Da queste
presenze evanescenti si passa magicamente al calore di affetti, di amore, che è
visibile nel volto del padre, espressione che si nutre di un amore diretto,
dalla madre Thèrése, che a poco a poco diventa personaggio penetrante,
profondo, articolato e ricco. Dalle lettere e dalle foto, dagli spazi più remoti
della casa, dall’immaginazione-ricordo di suoni è (ri)costruita un’esistenza
tutt’altro che persasi a causa di una morte improvvisa. Come se tutte le
testimonianze si fossero raccolte subito intorno al padre Robert e lo avessero
sommerso di quell’amore totale che proveniva dalla madre anche dopo la sua
morte. O meglio come se non fosse mai cessato, come se la morte stessa si sia
dissolta, grazie al miracolo della famiglia, della casa.
Una delle opere più dure finora viste è Geomen tangyi sonyeo oi – With a
Girl of Black Soil di Jeon Soo-il. Per la sua semplicità cronachistica, per
il dolore espresso dai personaggi senza alcuna sottolineatura drammaturgica. Il
cinema di Jeon Soo-il è fatto per compatire i personaggi, per immedesimarsi
completamente nel girone infernale della sopravvivenza, laddove il lavoro è
tutto. Ancora più doloroso se è la miniera ad offrire l’unica possibilità di
scampo, ma con il costo altissimo di una malattia mortale. Ancora più doloroso
se è una bambina di nove anni a diventare subito adulta di fronte alle
deficienze di un fratello handicappato e di un padre che perde il lavoro. Tra i
produttori del film, Abderrahmane Sissako, al quale certamente il cinema di
Jeon Soo-il è molto vicino per purezza e nitore espositivo. Ma quel che più
impressiona è di sicuro la corrispondenza di questi corpi e del paesaggio ad
una storia non raccontabile in altri modi, perfino superiore alla forza
contemplativa che è svelamento continuo della realtà del cinema di Zhang-ke-Jia
(e parliamo anche del film presentato in questa edizione, Useless). Ogni
sequenza è dettata dalla necessità spicciola della vita dei vari personaggi,
che sono elementi di una cronaca quotidiana, precisa e puntuale, non
rappresentata, ma percepita nella sua totale crudezza, quasi autoregistratasi
sulla pellicola. Di questa magia non sapremmo trovare altri esempi calzanti con
altro cinema. In confronto il nostro neorealismo sembra un fenomeno da
baraccone. Qui tutto è a livello di un’esperienza unica, della percezione
minuta dell’esserci, senza elementi disturbanti, ed è questo che sbalordisce e
fa più paura, come se avessimo sulle nostre spalle la storia che stiamo vedendo
(in assoluta diretta “cinematografica”).
Andalucia, di Alain Gomis, è cinema di attesa, speranza, incontro. Tutto
girato registrando il movimento anarcoide del protagonista Yacine, corpo che
già parla della distanza tra sé ed il corpo sociale, le istituzioni, la
convenzionalità delle appartenenze. Resta soltanto il girovagare per la città
di Toledo, alla ricerca di niente. Infatti, l’unico percorso possibile è quello
impossibile del viaggio senza una partenza ed un arrivo. Non c’è prestabilito
un punto, un riferimento. Si potrebbe dire che Yacine insorga contro il
tecnologismo esasperante che controlla e rende leggibili gli spostamenti. Allora
perché non pensare ai navigatori satellitari che riducono il nostro senso di
orientamento, perché spesso è solo voglia di spaesamento. Yacine sembra
consapevole che la città, il paese non potrà offrirgli la vita desiderata, al
di là delle omologazioni, perché la vita nelle città è già stata omologata da
un pezzo. Non c’è più spazio e tempo per movimenti diretti solo dalla fantasia
dell’individuo, dai suoi impulsi, già ritenuti pericolosi dalla società del
controllo totale. Tutto quindi è ghetto, e processo di ghettizzazione. Solo nel
finale onirico si può immaginare un volo catartico, ma forse esclusivamente con
la perdita concreta dell’unica vita che abbiamo.
Di fronte alla purezza di De Palma, un film tutto sommato cerebrale, di
sceneggiatura, di divi che comunque sono bravissimi a non esserlo, e
soprattutto di stantii simboli, la bandiera americana capovolta che issata è
segno di richiesta internazionale di aiuto, vien da chiedersi se sia possibile
dare un pieno valore al cinema di Paul Haggis. Che di simbolico possiede anche
il titolo: In the Valley of Elah, nella valle di Davide e Golia citata
dalla Bibbia, dove lo scontro è sempre impari dell’onestà di fronte al gigante
dell’ingiustizia e dell’arroganza. E laddove la speranza della vittoria di
Davide è l’ultima a morire. Come la possibilità di risolvere il caso di uno dei
tanti soldati tornati dalla guerra schizzacervelli ed uccisi da se stessi, o
meglio da quei compagni che si sono bevuti il cervello, ma non per colpa loro.
Come nel film di De Palma, questi giovani mandati al macello sono soltanto le
vittime di un sistema cinico, quel sistema che possiamo chiamare difesa degli
interessi di pochi che vuole il macello, che se ne frega della morte di
migliaia di figli, di poveri figli andati da qualche parte, in un angolo del
mondo, a difesa del nulla. Il cinema di Haggis in questo caso appare più
sottile, scritto con maggiore intelligenza del passato, proprio perché sono più
ambigue le sfumature, quello che immagini e parole sottintendono, ma lo dicono
con più calma o anche con più rassegnazione. La bandiera in fondo è proprio un
segnale di resa. Non c’è più salvezza per questo mondo, per questo paese, che
ha bisogno di aiuto. Aiutiamolo!
Nella rivista francese Positif di settembre 2007 a Rohmer è dedicato un
dossier. Per celebrare uno dei più grandi cineasti viventi, che adesso ha
ottantasette anni. Qui a Venezia, forse non era opportuno inserire il film in
concorso, ma nella sezione "Grandi Maestri". A parte queste futili
considerazioni, è giusto pensare Les Amours d’Astrée et Celadon come
ennesimo esempio della lucidità rohmeriana, della sua insaziabile voglia di
articolare spazi e tempi. Non c’è soltanto la semplice curiosità di penetrare
epoche storiche diverse, ma una vera ricerca che, a partire dalla fonte
letteraria, in questo caso il romanzo “L’astrée” di Honoré d’Urfé, è
catapultata in un nuovo spazio tempo che ha una relazione vivida con
l’impressione, la sensibilità di un (altro) tempo, e pure è qualcos’altro, di
artificiale sublime e di composto racconto laddove corpi, pensieri e sentimenti
si incrociano per concretizzare una vera e propria opera. Ed è questo il vero
senso del cinema di Rohmer: farsi sempre opera compiuta, con le sue dinamiche,
le sue azioni, ma soprattutto la sua messa in scena che è fatta di scelte
precise. Come quella del nudo, sulla quale abbiamo riflettuto a lungo durante
la proiezione ed elemento che troviamo citato nelle interviste a Rohmer: quando
si mostra un seno è perché nello scritto di Honoré D’Urfeé esso è mostrato. È
questa puntuale relazione tra il testo e la composizione filmica ad affascinare
che è un rapporto magico tra immagini, fra presenze letterarie ed assenze
cinematografiche. Tanto che i personaggi appartengono soltanto a se stessi, al
testo che li ha evocati. Rohmer si limita a immaginarli così come sono, ed essi
diventano automaticamente cinema, senza subire alcuna violazione, né
aggressione da parte della macchina da presa, che è sempre occhio contemporaneo
girato verso il passato e quindi limitato dal filtro del proprio punto di
vista. La moralità nel cinema di Rohmer allora è proprio questa abilità di
vedere chiaramente, senza orpelli, senza pesi ideologici. Insomma un cinema
puro che libera la mente ed il corpo dello spettatore.
Mentre De Palma non propone drammaturgie, semmai le indica più o meno
direttamente registrando un set del tutto artificiale, eppure nitido, lucido
nella sua “realtà”, Ken Loach continua a girare docudrammi, con riferimento ai
problemi dell’economia globalizzata. A leggere le premesse dalle quali è
partito il film, ci sarebbe da rimanere basiti perché poi It’s a free world…
è molto meno duro, laddove si
sofferma alla superficie di tanti fenomeni scabrosi e poco trattati dai nostri
cari “venduti” giornalisti (visto che pochi di loro fanno il mestiere di
informare). Loach si limita a narrare la condizione di alcuni immigrati in
cerca di lavoro, e soprattutto il punto di vista di una donna, Angie (Kierston
Wareing), che vuole organizzare una sorta di agenzia di reclutamento di lavoro
interinale, ma poi è anche tentata di sfruttare a sua volta il capitale umano e
derubarlo per arricchirsi in fretta. Una metafora di come funziona il
capitalismo rapace contemporaneo dove la filiera di sfruttati è pressoché infinita
e la “morale” prevalente è sempre quella che per sopravvivere occorre fregare
il prossimo. Loach però si lascia incantare fin troppo dalla sua energica
protagonista, con la consueta routine di eventi da buona sceneggiatura dove
primeggiano i dialoghi serrati. Gli obiettivi del film sono così adombrati da
colorite drammaturgie che appaiono spesso disgiunte dalle cronache dei nostri
giorni.
Delude Carlo Lizzani e il suo Hotel Meina. Per la semplice ragione che
le interpretazioni sono sempre sopra le righe. Fastidiosissime le
caratteristiche dei tedeschi oppressori, vicine alla macchietta, sia per il
linguaggio (quel tedesco che parla un po’ italiano… ), sia per la messa in
scena di episodi limite, come l’ebreo costretto a pulire le scarpe al militare
nazista, oppure la sfrontatezza dell’italiano collaborazionista. L’impianto
visivo è quello dei film tv, con set calligrafici supervisionati da Vittorio
Storaro. Il decor romantico e paesaggistico stride non poco con la storia che
sembra proprio abominevole, laddove è raccontata con questa serie di luci
morbide, o anche nette, con tanto lusso di cromatismi, laddove anche il trucco
ed i costumi sono approntati con quel luccichio che ammicca allo sfoggio e poi
macchina da presa immobile, ma tale fissità sembra solo carenza linguistica.
Oltretutto non c’è né pathos, né tensione drammaturgica. L’episodio storico
così raccontato non rivela assolutamente nulla, soltanto che alcuni tedeschi
hanno trattenuto alcuni ebrei italiani in un albergo prima di ucciderli brutalmente.
Julio Bressane gira un film imperdibile, Cleópatra, cinema allo stato
puro, dimostrazione che la messa in scena è tutto, che l’immaginario è prodotto
dall’arte cinematografica, anzi che l’arte cinematografica, quando è tale, può
nutrire ancora i nostri sogni, così come la grande pittura, la scultura, la
musica ecc. Ma a realizzare un capo d’opera, come in questo caso, ci deve
essere un principe dei sogni, un maestro d’arte, come Julio Bressane. Diciamo
subito che si può pensare, a questi livelli sommi e sublimi, solo
all’inarrivabile Carmelo Bene. Perché la capacità di Bressane di creazione del
set è così pura da lasciare estasiato l’occhio dello spettatore. Ecco che la
visione si trasforma in esperienza percettiva e non in semplice viaggio tra immagini
articolate e narrazione. I corpi degli attori sono corpi con tutta la loro
sensualità, con la sovraesposizione di tutte le nervature, i recessi e gli
anfratti più oscuri e segreti dell’organismo che diventano linguaggio, mera
espressione. E lo stesso vale per gli ambienti esterni o interni che siano:
forniscono entrambi una suggestione mitologica autentica. Un’alba primigenia di
miti e leggende e di Storia che si ripete nei suoi ancestrali versi. Bressane
impressiona il caos dell’universo, filtrandolo attraverso arcinoti episodi,
come l’avventura amorosa di Cleópatra, i rapporti interni/esterni tra
individui/stati/regni/imperi. La corte di Cleópatra è una sostanza inerte,
assente, eppure in grado di formalizzarsi come messa in scena ogni qualvolta è
proprio il segno a indicare il progresso della storia in Storia. E l’incontro
tra poesia e immagini, nel cinema di Bressane si traduce in impressioni
violente che s’imprimono nella testa, in un moto che simula quello dalla veglia
al sogno, autentica rivelazione dello spirito, della natura, del cosmo. “Ma
Cleópatra si sveglia e… tutto intorno Trema vedendola destarsi E si stupisce e
l’ammira Svien la luce, scolora in ciel la stella Persin la sfinge si smuove e
sospira Sveglia!”.
24 Mesures è un film al di là del battito “regolamentare” sia della
partitura “filmica” che di quella musicale, per quanto si riferisca proprio al
ritmo sonoro del blues. Le interpretazioni dirette da un altro attore Jalil
Lespert (attore di Laurent Cantet e Robert Guediguian) appaiono come libere
improvvisazioni, ma che hanno il sapore della vita vissuta. E registrata,
sorpresa, dalla macchina da presa senza pregiudizio o meglio senza alcuna
preparazione e disposizione austera del set. 24 Mesures appare quindi
come una relazione viscerale tra quattro personaggi che fanno i conti con le
proprie storie e la strada, ovvero la dura sopravvivenza di ogni giorno. La
scelta stilistica forte è rappresentata dall’ambientazione notturna che cala
queste vicende nel buio più profondo dell’anima e poi il Natale che fa
riferimento soltanto ad una possibile (ri)nascita, ma senza cascami religiosi o
apparizioni divine, o apocalissi. Jalil Lespert si limita a seguire, amandoli,
questi poveri corpi disgraziati, il cui destino è perennemente in bilico, tra la
vita e la morte, come è giusto che sia, per tutte le esistenze. In questo senso
la modalità di ripresa, così libera ed in movimento, ci aiuta ad avvicinarci al
sentimento prevalente di viaggio dell’essere umano, nella sospensione continua
del tempo.
Cassandra’s Dream è un gioco raffinato ma alla lunga stucchevole. Perché
i personaggi di Allen sembrano sempre eterodiretti, sia quando parlano, sia
quando gesticolano, simulando alter ego del regista. In effetti, qualche scena
poteva esser evitata, laddove la necessità è solo indotta da una drammaturgia
superficiale. Come se il tragicomico fosse un semplice obiettivo da
raggiungere, con tutti i problemi di coscienza e morale, ma alla fine la
rappresentazione consiste nella scanzonata performance corale degli attori. Che
diventano l’autentico punto di partenza e di arrivo dell’occhio di Allen.
Inutile farsi illusioni sulle trame quasi chabroliane.Ne siamo ben lontani,
laddove sono sempre i corpi e le relazioni pericolose ad essere il vero centro
di interesse. Corpi desideranti che mettono in moto storie diverse. E pure il
caso, perfino la malasorte, il presagio rendono le azioni subordinate alla
predestinazione che vuole sconfitta la banalità del male. E Allen credendo in
questo assunto si diverte ad accompagnare i due fratelli protagonisti, due
vivaci interpreti quali Ewan McGregor e Colin Farrell
verso la punizione “divina” che arriva puntuale come nelle classiche tragedie.
Insomma un Allen che non si allontana dal suo universo simbolico e cambia poco
se siamo a Manhattan oppure a Londra.
Dopo Allen vediamo Chabrol e confermiamo quanto detto appena sopra. L’ironia
chabroliana si distingue già nel titolo. La fille coupée en deux - La
ragazza tagliata in due, immagine a sé del finale ed immagine simbolo del film,
perché incentrato sulla divisione, corrisponde alla stessa voglia di far
circuitare corpi e personaggi, ma con il cinismo della vita vera. Quindi nessun
deus ex machina (il regista burattinaio). È l’uomo
stesso a costruire il proprio destino. Non casualmente Chabrol segue i suoi
personaggi nelle ossessioni principali, nei lati intimi del carattere che si
manifestano più o meno palesemente. In questo gioco di riconoscimento lo
spettatore è portato a immedesimarsi anche nella parte più turpe e squallida, o
semplicemente in quella che corrisponde all’evoluzione psicologica spirituale
di ogni individuo e quindi c’è poco da fare, la collettività diventa lo scontro
brutale tra esseri profondamente diversi fra loro che hanno pochi punti in
comune se non quello di esseri umani, di nascere e morire sulla terra. Tanto
per dire quanto è disincantato il mondo di Chabrol e pure osservato con la
stessa cupidigia che trasmette più che un sentimento di sgomento uno di
compassione. Perché in fondo tutti sono vittime di se stessi e degli incontri che
fanno. Le scelte sono vincolate alla prepotenza della singola personalità. Nel
cinema di Chabrol tutto quindi appare necessario, sia quello che vediamo che
quello che non vediamo. Ma questo ha poco importanza, perché le ellissi si
trovano proprio dove possiamo immaginare di più, al contrario, quello che
vediamo è meno significativo e quasi routinario, sono anzi i dialoghi ad
illuminarci più sugli intrecci. E quando nel cinema di Chabrol l’azione
esplode, è segno che un evento è arrivato al suo massimo grado di maturazione e
quindi è assolutamente attendibile. Dimenticavamo: Ludivine Sagnier è una delle
più grandi attrici del mondo.
The Assassination of Jesse James by the Coward Robert Ford è un film
necessario perché si avvale soltanto della propria capacità sublime di
immergere lo spettatore nello spazio amniotico del western. Dalle origini alle
mutazioni. Dalla grande rapina al treno di Edwin Porter ad Ancora vivo
di Walter Hill, passando naturalmente per Sergio Leone, lo spaghetti western e,
perché no, il kung fu western di Mario Caiano o di Quentin Tarantino e Miike Takashi. Un western dilatato in cui la nevrosi, la paranoia
sono palpabili come mai nel cinema. Al punto di pensare quasi a Sunchaser
di Cimino o all’ultimo Terrence Malick di The New World, ma anche a Jim
Jarmusch di Dead Man. Con i suoi centocinquantacinque minuti il film di
Andrew Dominik regala tutta l’estasi intima del cinema. La più meravigliosa di
certo cinema contemporaneo che grazie ad un massimalismo sconosciuto in
passato, ha il coraggio di approfondire la sensorialità del testo visivo per
trasformarlo in un territorio di multisensorialità spinta verso la tattilità,
il gusto e l’olfatto. Ed in fondo di questo film alla fine rimangono gli odori,
il senso stretto della materia, della carne offesa dalle armi, e poi i pensieri
diffusi dalle espressioni sfumate. Non c’è mai nulla di netto, di definito, il
racconto è sempre sospeso e quando la vicenda si chiude con l’uccisione di
Jesse, proprio la meccanica dell’omicidio ha bisogno di esser messa in scena,
ridicolamente, perché clonare un mito, un’atmosfera è proprio impossibile e il
povero Robert Ford troverà conferma alla sua preoccupazione: l’essere stato
solo la pedina, l’ingranaggio minuto, il pezzo secondario di quella favola che
aveva come più grande protagonista soltanto Jesse James.
Straordinario il “documentario” di Jia Zhang-ke, Wuyong – Useless. La
moda quasi disturba nel suo ovvio messaggio. L’usa e getta dell’abbigliamento
postcapitalistico è forse ancor peggio dell’omologazione del marchio. La
stilista Ma Ke intanto rivendica il ruolo di designer di vestiti come
possibilità di lavoro non venduto al profitto, realizzazione che non è solo apparenza
ma contenuto del vestito, stratificazione, tanto che interra gli abiti perché
ciascuno riceva un’impronta diversa ed unica dal terreno. Non è solo una
questione di marketing, ma l’essenza stessa delle cose quotidiane che ci
circondano. Jia Zhang-ke filma tutto con lo stesso grado di stupita
contemplazione, che alla fine commuove, per il suo livello di naturalezza, e
perché inchioda oggetti e corpi al loro significato e senso più intimo, sia che
si trovino nel contesto della fabbrica tessile oppure in qualsiasi luogo
anonimo, irriconoscibile della Cina contemporanea. Gli uomini e l’ambiente sono
parti di un tutto che ha un suo posto nell’universo, ma bastano il cielo e la
terra, mentre poca importanza hanno gli Stati, i paesi ecc. Con Wuyong –
Useless Jia Zhang-ke segue la magica essenzialità dei titoli precedenti, platform,
still life, the world, parole uniche e fondamentali che
pretendono assoluto rispetto. Il cinema di Jia Zhang-ke è tra i più lucidi del
cinema contemporaneo. È impossibile non essere risucchiati da sequenze che
tagliano il profilmico in orizzontale, laddove la macchina da presa coglie
sempre un po’ dal basso oggetti e personaggi, mettendoli in rilievo, senza
aggiungere nulla di retorico. Nella ripresa flagrante di Jia Zhag-ke c’è tutta
la bellezza ed il mistero del quotidiano, il respiro etico dello sguardo, la dolcezza
benigna della morale.
Di Cochochi della coppia Laura Amelia Guzmán e Israel Cárdenas (produce
la compagnia Canana di Gael García Bernal e Diego Luna) si rischia la
polverizzazione critica se lo si considera come film zavattiniano, naturalmente
il riferimento è a Ladri di biciclette. Infatti, le caratteristiche del
cinema neorealista oggi individuano più che testimonianze sociali e storiche la
normale presenza di esistenze residuali: non si tratta di popoli in estinzione,
per quanto ci sia anche l’intento di documentare un’etnia che parla una lingua
particolare. Si tratta però di modalità di vita del tutto eccentriche rispetto
alla folle corsa del mondo occidentale, del capitalismo ad oltranza, che divora
gli spazi individuali e dei gruppi umani. Cochochi
che probabilmente fa riferimento ad un luogo, la valle di Okochochi, magari
indicata dalla lingua raràmuri, inizia dalla visione quasi normale di un evento
conosciuto in ogni angolo del pianeta: la cerimonia di chiusura della scuola.
Anche se qui la celebrazione è piuttosto articolata, sembra una vera festa,
ovvero una sorta di recita che coinvolge tutti i bambini. Quindi niente di
straordinario. Però dopo apprendiamo più sotto pelle i ritmi della comunità, le
distanze, i tempi, i cicli naturali, il paesaggio che è inseparabile dai corpi
umani, tanto che una notte è trascorsa tranquillamente sotto le stelle per
terra in un giaciglio improvvisato. Mentre nell’oscurità notturna
improvvisamente può apparire un altro gruppo umano festoso, dedito alla conversazione
allegra accompagnata da grandi bevute. È un mondo, insomma, completamente
altro, che vive nel suo splendido isolamento. Senza tecnologia. Ovvio che il
cavallo sia l’altro protagonista credibile. La presenza o meno di un animale,
la sua scomparsa può diventare l’argomento principale, così come la bicicletta
nel film di De Sica. I due strumenti sono semplice pretesto ed è tutto quello
che sta in mezzo, dentro il film ad affascinarci, senza racconti particolari,
lasciando che la nostra attenzione si faccia elementare, lasciandosi
suggestionare da qualche piccolo elemento.
Sous les bombes di Philippe Aractingi ha il coraggio del paradosso. Come
si reagisce alla lacerazione improvvisa della guerra? Come ci si oppone al
bombardamento da parte di un altro Stato vicino, in questo caso l’attacco al
Libano da parte dell’esercito israeliano nell’estate 2006? Semplicemente si
muore, semplicemente si perdono familiari. Ai due personaggi protagonisti resta
il coraggio, la disperazione di proseguire in un cammino che sembra surreale.
Perché è un cammino di morte, di terrificante desolazione. “Sotto le bombe” è
così un grido di protesta nei confronti dei signori della guerra. Mentre c’è
una popolazione alla quale tocca solo resistere, ma dopo la perdita di tutto, delle
case, dei propri cari della stessa vita di ogni giorno. Ed in fondo il viaggio
di Zeina e Tony, lei scita, lui cristiano, due persone che la politica ipocrita
vorrebbe contrapposti, stanno insieme, quasi come innamorati ognuno della
sofferenza dell’altro. Ma si tratta di un rapporto di solidarietà fondato sulla
sensibilità offesa delle persone comuni, che hanno un sogno, lo coltivano,
quello di una vita felice, ma di fronte alle rovine e le devastazioni imposte,
sono soltanto personaggi oltraggiati, violati, che cercano ormai l’unica via di
salvezza. Ma come è stato possibile far accettare alle popolazioni che abitano
questi luoghi come fenomeno realizzabile la guerra che ha ucciso parte delle
famiglie? C’è chi ha perso fratelli, figli, genitori e lo comunica con parole
semplici, senza ostentare il pianto. C’è chi è disperso in questi frangenti e
non sa più come riunirsi, ritrovare i parenti. Insomma è l’abominevole tragedia
umanitaria conseguente a qualsiasi conflitto. Aractingi ne rappresenta gli orrori
assurdi magari con eccessiva tenerezza, con lo sguardo speranzoso di chi possa
reagire automaticamente a tali visioni. La sua docu
fiction speriamo che possa esser un pugno nello stomaco dei responsabili
assassini del massacro.
Ancora una storia visiva unica. Wes Anderson, dopo I Tenenbaum e Steve
Zissou, ci offre un’incredibile esperienza sensoriale, se vogliamo molto estrema
e netta, laddove la percezione dello spettatore è pervicacemente stimolata da
quelli che sembrano gli eccessi del film, vicini spesso ad un’apparente isteria
gratuita, ad un iperrealismo artificiale. Ma invece tutto corrisponde ad una
sensazione espressiva forte e soprattutto costante, che non si distende. Il
cinema di Anderson è come una pittura affascinante, un po’ astratta, un po’
eccentrica, dalle misure imperfette, irregolari. Ed è questo passo a tempi
diversi dei personaggi e della scena, tale effervescenza di un set esploso che
si trasforma in immaginazione libera, in cinema che ha il coraggio di muoversi
verso territori inesplorati. Inutile dire che proprio il treno è metafora di
questa tensione verso un percorso da rifare. Banale dire che il senso
d’ispirazione di un treno, figura ed oggetto costante in tutta la storia del
cinema, consiste proprio nella possibilità di attraversare l’universo confuso
della fantasia realtà. Per questo c’è sempre l’impressione nel cinema di
Anderson che anche la più incredibile fantasia sia intimamente collegata a
qualcosa di vero, di autentico. Fermo restando che non possiamo discernere nella
fantasia il reale dall’immaginario. È su questa (con)fusione che il cinema di
Anderson gioca in maniera sublime. Tutto quello che dovrebbe esser subito
riconoscibile non lo è e via di seguito, per cui ogni personaggio, ogni oggetto
risulta una scoperta, una novità da indagare. E a poco a poco tutto quel
materiale che sembra scoperto, irrilevante, prende forma, senso. Come nella
sequenza iniziale che segna l’abbandono di Murray/padre e la morte del bambino
che coincide con un’elaborazione diversa del lutto, poco occidentale, e che
possiede la misteriosa spinta e forza di farci ridere e piangere
contemporaneamente, perché in fondo la vita ci chiede proprio questo. The
Darjeeling Limited è un’esperienza spirituale, come suggerisce il titolo
uno spazio (l’India di Satyajit Ray) tempo limite, o (il)limitato, nel quale
rigenerarsi, più forti e sani.
CONFERENZA STAMPA The darjeeling Limited con Wes Anderson, Adrien Brody,
Jason Schwartzman, Bill Murray, Wally Wolodarsky, Roman Coppola (produttore e
sceneggiatore).
Inevitabili i commenti su Owen Wilson (a causa del tentato suicidio)…
Anderson: “Mostrare il film a Venezia ha un grande significato per Owen. Sta
bene adesso, sarà presto pronto e vi chiedo di aiutarci a difendere la sua
privacy”.
(a Murray) Che relazione vede tra tragico e comico?
Murray: “Questa è una domanda tragica ma cercherò di renderla comica. Sono
contento di lavorare nelle commedie. Ma in realtà si tratta della stessa
recitazione dei film drammatici. È più difficile fare piangere il pubblico piuttosto
che ridere. Per me recitare in una commedia è semplicemente esser se stessi”.
Quali sono le ragioni per cui ha girato un film in India?
Anderson: “Penso che il film indiano sia iniziato in Italia e dal legame
tra i due paesi”.
Coppola: “Penso che l’esperienza sia stata quella del viaggio tra fratelli”.
Perché questa attrazione per famiglie disfunzionali?
Anderson: “ Ho sempre voluto fare un film su tre fratelli. Ho sempre avuto
l’impressione che si crescesse con fatica e molti litigi. E così anche nel cast
c’è un rapporto tra veri fratelli”.
Il cortometraggio avrà sviluppo in un progetto più ampio?
Anderson: “ No, non ci sarà uno sviluppo ulteriore”.
(ad Anderson) Qual è il rapporto con l’aspetto visivo del film?
Anderson: “Volevo scoprire le cose non tanto inventarle, abbiamo trovato il
luogo, il set, tranne il treno che è stato modellato: veniva dipinto con
quadri”.
(ad Anderson) Cosa si aspetta dagli incassi del film?
Anderson: “Non credo che raggiungeremo gli incassi di Il Signore degli
Anelli…
(ad Anderson) Quanto il film si ispira ai fratelli Marx e poi ci dica
qualcosa sui colori e perché ha utilizzato le musiche dei Rolling Stones?
Anderson: “Amo i Beatles, ma non li potevamo utilizzare, è stata una
questione di diritti. Per quanto riguarda i colori, l’India è ricca di colori
ed è senz’altro il colore l’aspetto più magico del paese. Sui fratelli Marx,
dico che non mi hanno influenzato molto. Abbiamo cercato soprattutto di rendere
personale ed intimo il film”.
Brody: “È stato un grande onore essere entrato in questa famiglia. Mi sono
sentito veramente ben accolto dalla troupe del film. Penso che ci sia un legame
forte nel film”.
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