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Diario 28 - 30 agosto

Scenografia di Dante Ferretti

i film recensiti:
Venezia 75 (Fuori concorso – Eventi)
Enrico LXXV – Lucherini a Venezia (Fuori concorso – Eventi)
Gruz 200 (Giornate degli autori)
Bianciardi (Giornate degli autori)
Rec
(Fuori Concorso – Venezia Notte)
Kantoku Banzai! (Fuori Concorso – Venezia Maestri)
Continental – A Film Without Guns (Giornate degli autori)
Se, Jie (Lust, Caution) (Concorso)
L’Histoire de Richard O. (Orizzonti)
Sleuth (Concorso)
Sad Vacation
(Orizzonti)
Michael Clayton (Concorso)
Far North (Fuori Concorso – Venezia Notte)

La leggerezza della visione è esaurita dalla compattezza e necessità di concretezza plastica, di tempi che si riducono in una sola idea. Come quella di Dante Ferretti, il quale sfonda la scenografia del Palazzo del Cinema con un’enorme palla. I leoni sono vetusti. Bisogna girar pagina. E pure, nelle prime battute il calendario della settantacinquesima edizione pervicacemente si autocelebra con i lavori di Antonello Sarno, due brevi metraggi di circa trenta minuti: Venezia 75 e Enrico LXXV – Lucherini a Venezia. Sono omaggi che ci stanno tutti perché Venezia è sempre Venezia e il festival ha una storia incredibile. Sarno è riuscito con abili salti, un montaggio frenetico ma senza esagerazioni a raccontare il glamour di un festival più che la storia dei film e quindi un pezzo del cinema passato negli ultimi 112 anni. Buona l’idea di abbandonare la noiosa cronologia, così star più recenti si incrociano con quelle più datate. Un solo consiglio. Va bene una celebrazione, ma perché  dimenticarsi il gusto di una articolazione più audace, meno accademica ed ingessata? I ragazzini di vent’anni si annoiano quando non riconoscono più dell’ottanta per cento dei volti che passano frenetici. Ai più attempati e scafati fan del festival scorrerà qualche lacrimuccia… ma solo per il tempo che passa. Lo stesso discorso vale per Enrico LXXV – Lucherini a Venezia, il quale supporta bene il discorso del glamour, della suite da trent’anni all’Excelsior (per la quale siamo ovviamente invidiosi). Cinema uguale pettegolezzo, scandalo, e quando ci omaggiano la rivista “Grazia”, cominciamo a pensare e guardare storto. Non è che fra poco ci daranno anche Novella 2000 (scusate l’ignoranza sugli altri magazine di gossip: ho citato solo il primo che mi veniva in mente)?

Gruz 200

Nella sezione “Giornate degli autori” il primo film è Gruz 200. Titolo pauroso visto che si riferisce ai carichi di soldati russi morti che tornavano dall’Afghanistan durante la guerra con l’ex Unione Sovietica. Una delle numerose opere sullo stato di popolazione e territorio prima della caduta del Muro. Balabanov, di cui è molto noto Brother, ha un gusto spiccato per l’immagine diretta della crudeltà umana. Può sembrare un cinema fondato più sul voyeurismo perverso, laddove mette in scena sequenze brutali in cui uno dei protagonisti, Alexsey Polujan (capitano Zurov), si trova completamente a suo agio, amplificate dall’estraneità mentale, molto inquietante, dell’anziana madre, che infine vive tra mucchi di cadaveri e mosche attirate dalla decomposizione. Tutta una situazione che spinge lo spettatore verso l’incredulità. L’atto di accusa e se vogliamo di documentazione di Balabanov finisce per essere un’opera magistralmente interpretata da attori accademici, sempre pronti a regalare una definizione asfissiante dei personaggi e per questo un po’ falsa. Più appezzabili le articolazioni delle musiche, qualche refrain che diventa un po’ il climax della storia che comunicano il senso malsano delle cose, ma anche il lato più comico, l’umanità ingorda e spiccia, greve ed ambigua, che giace in poco autentiche sicurezze. Non casuale il confronto diretto/indiretto tra marxismo e religione. Lo scontro tra la riflessione filosofica, coraggiosa e laica, e la più intima paura quotidiana che diventa angoscia del nulla e spinge verso chiese, altari e rassicuranti battesimi. Altro che ateismo scientifico!

Bianciardi - Massimo Coppola

Nella sezione “Giornate degli autori” altro film di apertura è Bianciardi, dedicato esplicitamente allo scrittore eccentrico che dalla terra d’origine, la Maremma toscana e le sue miniere con tutte le tragedie umane al seguito, vede la possibilità di una rivoluzione che s’infrange nel muro di gomma dei salotti “intellettuali” milanesi. La ricostruzione è molto precisa e si serve di svariati materiali di repertorio. Il regista Massimo Coppola è un eclettico, ha condotto programmi su MTV, ha scritto libri, e partecipa a un gruppo di ricerca artistica che ha realizzato installazioni. In Bianciardi si percepisce vivamente la voglia di riscoperta, di non abbandonare, tralasciare particolari del vissuto. Tutti importanti eppure pronti a sgretolarsi a risultare nuovi e diversi attraverso le testimonianze dei personaggi. Un film che spinge a una lettura visione, magari più stimolante con l’antimeridiano Bianciardi che lo stesso regista ha curato.

Rec - Jaume Balaguerò, Paco Plaza

”Vorrai chiudere gli occhi, fermare quello che sta succedendo. Ma non puoi. Perché sei parte di esso”. “Corri… scappa… sopravvivi… ma non smettere mai di registrare”.  È il lancio di Rec dei registi Jaume Balaguerò e Paco Plaza. Nel corso di una notte intera, un’equipe televisiva accompagna una squadra di vigili del fuoco nei suoi interventi. Ma le cose vanno male e il reportage si trasforma in incubo. Più per gli spettatori, però, visto che il giochino tra cronaca live e fiction è abbastanza scoperto. Più sorprendente la parte finale che sfocia in un horror a tutto tondo, con i contagiati dal misterioso germe che mordono a destra e a manca. Lo splatter non dispiace, ma rimane solo a livello epidermico, con una discreta dimensione scenica che sfrutta la claustrofobia degli interni. Però è tutto prevedibile e le scene più concitate, dove i personaggi urlano come ossessi, e l’agitazione è tutta artificiale, fanno un po’ sorridere. Ma del resto il cinema di Balaguerò non ci ha mai attratto particolarmente.

Espiazione

Altro titolo rivolto direttamente allo spettatore è Espiazione: occorre espiare per qualcosa, anche per sopportare più di due ore di un film dimenticabile. Non  avendo letto il romanzo di McEwan è comunque chiaro che una serie di sottigliezze si perdono nella sceneggiatura di Christopher Hampton, laddove il trattamento cinematografico dello scritto sembra procedere verso il solido melodramma, con una love story travagliata dalle vicende storiche della seconda guerra mondiale, che fanno da sfondo sontuoso, inquietante per la bellezza perversa della fotografia. Sono questi riflessi di luce che abbagliano e danno senso ad una visione che è impoverita nella parte drammaturgica, anche se molti si commuoveranno per le traversie dei protagonisti. Ma questo è un altro film, e ci interessa di meno.

Kantoku Banzai! (Glory to
the filmaker) - Takeshi Kitano

Con Kantoku Banzai! (Glory to the filmaker), Takeshi Kitano continua il suo cinema autoreferenziale. Ancora più viscerale ed artificiale, tanto che in alcuni momenti siamo dalle parti di Tsukamoto Shinya, con protesi e materiali plastici e metallici che producono input sul set corroso (definitivamente) dall’assenza di scena. Infatti, Kitano si rivolge direttamente al pubblico circa l’ipotesi di un filo rosso per una sceneggiatura. Il gangster movie, di cui vediamo addirittura una sequenza di Brother è riproposta come possibilità censurata dalle aspettative cangianti dello spettatore: Kitano è solo un buon regista di gangster movies? E poi la commedia, con storia sentimentale di una famiglia in stile Ozu, che si evidenzia come caricatura e parodia di una visione “impossibile” per austerità e compostezza ormai perdute negli anni in cui viviamo. Alla fine l’unico filo rosso del film è l’alter (ego) di Kitano: un pupazzo di gomma con una divisa blu. A parte il discorso sulle omologazioni contemporanee e a parte i significati plurimi, quel che importa è agire liberamente su corpi differenti, a guisa di uno slapstick postmoderno, nel quale si oppongono “meccanicamente” azione e reazione, senza un vero e proprio nesso di causalità. Il cinema di Kitano è sempre più un cinema di apparizioni, di sensazioni, stimoli, che rendono sempre eccentrica la visione, la quale è sempre priva di riferimenti o di indicazioni. Per questo l’ultimo cinema di Kitano non è solo il suo cinema più maturo, ma quello più maturo che la produzione contemporanea può offrirci che ha soltanto rari esempi, pensiamo ad esempio a Takashi Miike, anche lui a Venezia e di cui più avanti parleremo.

Continental - A Film Without Guns, Stéphane Lafleur

Continental – A Film Without Guns di Stéphane Lafleur ci rende felici laddove dimostra che la rappresentazione cinematografica dei vissuti umani può raggiungere vette sublimi attraverso la disposizione di sguardo dell’autore regista. In questo caso il cinema di Lafleur non è inferiore agli acclamati Haggis o Anderson, o al limite ai fratelli Coen anche se molto più cupo. È soprattutto l’atmosfera anonima del territorio canadese a lasciare sbalorditi quando si percepisce con chiarezza il sentimento prevalente di solitudine, d’incertezza dell’anima che percorre il sentiero dell’esistenza. La messa in scena si esalta negli interni di un albergo, riuscendo a convincere su una svolta narrativa, la noia nei confronti della routine sessuale, che lascia intravedere altre possibilità, il voyeurismo, oppure la semplice fuga dai rapporti familiari verso l’ignoto. Su molte tracce abbastanza scontate, ad esempio le piante finte, oppure i prodotti per colorare i capelli per sentirsi più giovani, o l’ausilio di una nuova dentatura per sconfiggere i segni dell’incipiente vecchiaia, Lafleur riesce comunque a non essere pedante, a riattraversare il racconto lasciando affiorare l’inquietudine per la vita che lentamente velocemente si dissolve in poche battute, rendendo ancora più tristi ed inutili palliativi come il gioco, o la compulsione verso atti consolatori (lasciare un messaggio alla propria segreteria telefonica o chiamare i numeri verdi dei prodotti solo per comunicare con qualcuno, scattarsi fotografie con estranei), ma che ottengono soltanto il risultato di una più terrificante solitudine: la lucidità del tempo, del non esserci, o di esserci per poco.

Lust, Caution - Ang Lee

Lust, Caution di Ang Lee è un romanzo visivo irresistibile, nel senso che la scena è in modo esaltante dilatata fino all’estremo. Di tale rarefazione, che raggiunge i suoi vertici nei minuti (interminabili) iniziali dei personaggi seduti al tavolo da gioco, si coglie infine l’essenza formidabile di un processo di visione davvero raro per non dire unico. Ang Lee, già con Brokeback Mountain aveva portato alle estreme conseguenze questa forma di visione che consiste in un’amplificazione della stessa sequenza che s’imprime nell’immaginario in profondità nella percezione dello spettatore che si sente avvolto completamente dalla Storia. Un modo sublime, dunque, di articolare la ricostruzione di un passato, con al centro una città, Shangai, che evoca mille sensazioni diverse. Naturalmente Marlene Dietrich e Joseph Von Sternberg. Il film culmina nelle scene di sesso che suggellano l’equivalenza tra relazione erotica e politica. Collaborazionismo, sottomissione, voglia di vendetta e rivincita iniziano a letto, ma in modo meno definito, più perverso ed inquietante. La Storia è fatta delle stesse ambiguità, dei medesimi sguardi obliqui, di captazione di fremiti oscuri, meno che percettibili. La vita è allora composta di scatti, di fughe, di furbizia e intelligenza, come quella di Tang Wei che cela continuamente se stessa dietro una coltre in apparenza impenetrabile, costruita su segni inefabbili, su percorsi che infine turbano la visione, per quegli smarrimenti del corpo umano registrati durante l’amplesso ancorché strappato al suo consenso. Lust, Caution è articolato sulla pausa (della virgola), la sospensione del gesto che fa incedere e arretrare, avanzare e retrocedere nel caos della vita. La fotografia di Prieto, con i colori stratificati, è fondamentale per la riuscita del film che è senz’altro uno dei più belli di Ang Lee.

L’Histoire de Richard O - Damien Odoul

Con L’Histoire de Richard O. il regista Damien Odoul segue un percorso assoluto di concentrazione sul corpo umano: lo scontro diretto tra maschio e femmina, tra organismi coinvolti in amplessi che si svolgono come variabili atti fisiologici. C’è tanta compulsione nell’azione, che cela la paura suprema di un baratro al di là del corpo stesso, dentro il corpo medesimo. Tanto che la fine è conseguenza di un atto (d’amore), laddove la brutalità di un gesto trasforma la vita in morte, il movimento in immobilità. Il film è vita in quanto spostamento continuo del protagonista Mathieu Amalric da un luogo all’altro. La macchina da presa riprende i contatti come se bevesse da essi la vita, come se volesse carpirne il segreto avidamente e per assicurarsi una felicità che non si trova altrove. E l’intimità tra i due amici, due corpi diversi, uno tozzo, l’altro longilineo e dinoccolato è suggellata nel confronto affannoso della lotta, pelle a pelle, masse di muscoli contro ossa, cumuli organici che si schiacciano, si piegano, alla fine esausti. Odoul realizza un film impressionante per la sua visceralità dirompente, per il soffio vitale che cattura con inquadrature nitide, con movimenti suadenti della macchina da presa, registrando sempre il fremito più sottile del febbrile protagonista Amalric, vero campione dell’ennesima nouvelle vague francese.

Sleuth - Kenneth Branagh

A fare un remake cinematografico di un testo teatrale Kenneth Branagh non deve aver faticato più di tanto. E poi la sceneggiatura è firmata da Harold Pinter. E la coppia di protagonisti vede ancora Michael Caine, che adesso interpreta il ruolo allora impersonato da Laurence Olivier. La parte del giovane è affidata a Jude Law. Stiamo parlando di Sleuth versione moderna del film diretto da Mankiewicz nel 1972. Si tratta di una gara selvaggia tra performance. Il vecchio e il giovane Law (che è anche produttore). Battute stringate, fulminanti, piene di arguzia e intelligenza che al giorno d’oggi sono diventate curiose (da vedersi e sentire). Però alla fine il duetto-duello condito di metamorfosi e piccoli grandi colpi di scena annaspa a causa della stessa claustrofobia del kammerspiel che vuole pochi interni e pochi personaggi (qui soltanto due). I capovolgimenti che sanno tanto di piroette alla lunga sfiniscono nonostante i due attori utilizzino sempre una smorfia diversa per non annoiare. L’arredamento che è più volte violato perfino da i proiettili di una pistola (la cui presenza fa tanto thriller) fa parte dell’atmosfera, tanto da essere non tanto deuteragonista. E l’ambiguità sessuale infine cresce, anche se si percepisce soltanto come variante a uno script davvero sontuoso. Sperando in qualcosa di veramente eccentrico e fuori posto che non arriva…

Sad Vacation - Ayoama Shinji

Ayoama Shinji dirige, dopo l’interessante Koorogi (Crickets), Sad Vacation, un melodramma denso e ricco di poetico immaginario che scaturisce da ambienti e personaggi molto comuni, certo meno penetrante  rispetto a Crickets nell’obiettivo tragico e terminale che porta in modo inevitabile verso l’(auto)annientamento. Ma anche capace di surreale libertà espressiva come la gigantesca bolla di sapone che diventa pioggia battente. Eccellente appare l’abilità di filmare corpi sospesi che si muovono sinuosamente all’interno di spazi anonimi, laddove le storie, i vissuti, le solitudini, i sentimenti, s’incrociano attraverso questo incontro-scontro continuo nel peregrinare collettivo. Una sorta di ineffabile labirinto nel quale si aggrovigliano nodi familiari, ma anche vicende di paesi come il brutale fenomeno delle immigrazioni clandestine gestite da racket che non hanno nessuna intenzione di bontà e strappano, scambiano gli organismi a guisa di merci, oggetti recuperabili, oggetti che traducono in lucro.

Venezia 64 è stato il festival che… o te li vedi al mattino i film, molto presto alle 8.00, e pure fino alle 00.30, quando finisce un film in concorso ed inizia in un’altra sala un film della sezione Venezia Notte e vabbè, ormai si è cotti e morti dal sonno. Ci scusiamo pertanto per non essere riusciti a mandare più velocemente le note dal festival. Almeno saranno contenti quelli che hanno lottato per garantire l’embargo a favore degli accrediti daily. Tutti gli altri se pubblicavano qualcosa rischiavano di perdere per sempre ogni accredito…

Michael Clayton - Tony GilroyFar North - Asif Kapadia

A conclusione del primo resoconto un altro film in concorso Michael Clayton e Far North nella sezione Fuori Concorso – Venezia Notte.  Il primo è tutto quello che ci saremmo aspettati da un film con George Clooney: intrattenimento, grande appeal del protagonista, e infine storia che serve a riflettere tanto per dire che si tratta di un film impegnato, laddove condanna i grandi interessi aziendali così rapaci e immorali da fregarsene della salute di tanti individui. Si avverte la sagacia di Sydney Pollack qui anche produttore, con un eccesso di dialoghi conditi di tecnicismi legali tanto affascinanti (quanto si può essere attratti da discorsi che usano un gergo!), in cui proprio Pollack appare maestro di cerimonia. La regia di Tony Gilroy si limita a seguire il percorso degli attori, da Clooney a Pollack alla Swinton, fidandosi più delle doti di sceneggiatura. Però Gilroy non riesce a spingersi più in là di un modesto legal thriller e L’avvocato del diavolo, di cui Gilroy era sceneggiatore, al confronto sembra un capolavoro, anche se lì molto diversi erano gli spunti, più vicini al genere fantasy.
Far North di Asif Kapadia ama la tragedia, ma la tragedia non ama Far North, tanto che il triangolo di fuoco tra madre figlia ed amante appare troppo sommerso dall’azione silenziosa che si addice alle riprese in mezzo ai ghiacci della tundra artica. Là dove sono resistenti le mitologie, le tradizioni e i rituali che pretendono irrazionali atti di adesione da parte degli elementi di un gruppo umano. Naturale quindi l’allontanamento di un individuo, naturale la solitudine prossima alla morte, naturale lo spirito di sopravvivenza che è fatta di gesti crudeli, come l’uccisione di un cane da slitta per assicurare un po’ di cibo. Ma tutto un po’ scontato, freddamente meccanico, come il paesaggio che forse può bastare come riferimento cardine di una composizione di immagini che si percepisce come inesauribile percorso nello spazio e nel tempo.

Andrea Caramanna