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Diario 29 - 31 agosto

Su The Black Dahlia dice “bene” lo scrittore James Ellroy: “… lo sceneggiatore è l’anello debole della catena: il film appartiene al regista, al produttore e allo studio”.  Chissà in effetti cosa ne pensa veramente Ellroy di questa versione depalmiana di La dalia nera. Il romanzo è comparso tra le bancarelle negli stand della Mostra. E in effetti le due opere, film e romanzo, non si uniscono felicemente in matrimonio. I due testi sembrano invadersi freddamente a vicenda. Quando si legge Ellroy si ha già la sensazione di essere a cinema, perché le immagini si accumulano facilmente e presto si viaggia in un labirinto di spazi e situazioni nei calderoni bollenti dell’animo umano. De Palma tenta chiaramente di filtrare, condensandolo, l’essenza istintuale, primitiva di Ellroy che continua a scrivere a mano macchiando la carta con l’inchiostro. Le giungle d’asfalto, i giochini tra doppi, l’eros malsano, l’omosessualità femminile, però non riescono bene a colorarsi di memorie, e si ha sempre la brutta impressione che gli interpreti non abbiano ben capito il film in cui si trovano o peggio non si cimentino nell’autentica babele di tracce mnestiche che lo scritto originale suggerisce. Sarà anche colpa della sceneggiatura di Josh Friedman. Ma hanno letto tutti Ellroy?

Black Dahlia - De Palma - Ellroy

Si è fatto il facile riferimento a Hitchcock, ma la nota influenza nel cinema depalmiano sta per trasformarsi in una maledizione, perché Hitchcock irretiva con un solo movimento di macchina, mentre De Palma firma qui una sola sequenza degna del suo nome, quella della morte di Lee (Aaron Eckart), con i corpi che precipitano nella rampa di scala.

 

La Mostra del Cinema numero sessantatre inizia con i migliori auspici il 29 agosto con ampio spazio alla Storia segreta del cinema russo, in particolare del genere musical assolutamente dimenticato, rimosso, con registi quali Grigorij Aleksandrov, Ivan Pyr’ev, Pavel Arsënov, Gerbert Rappaport, El’dar Rjazanov, Igor Savcenko, Boris Barnet, Andrej Konchalowskij e l’omaggio al regista brasiliano Joaquim Pedro De Andrade. Pentiti di aver trascurato entrambi per due film “piccoli”, “minori”, ancorché i media potrebbero facilmente tradurli in visioni impegnative e colte. Ci riferiamo a L’etoile du soldat di Cristophe De Ponfilly e The U.S. vs. John Lennon di David Leaf e John Scheinfeld. Il primo è un viaggio nella storia recente dell’Afghanistan durante l’invasione sovietica. Con la soggettiva del giovane protagonista, cantante rock, Nikolai, che viene arruolato e sbattuto a combattere i rivoluzionari afgani tra le inaccessibili montagne. Dall’altra parte il giornalista francese Vergos amico fraterno dei rivoluzionari, e pronto a rischiare la vita per fotografare gli istanti più incredibili del conflitto. Non si nega al film di De Ponfilly una penetrante capacità narrativa, una densità di particolari, dettagli, che ci sbattono dentro i nascondigli dei rivoluzionari (e non terroristi, è una bella differenza). Ed è anche la voce over che accompagna con abnegazione i vari snodi del racconto a introdurci tra le pieghe più sottili della Storia. Manca il cinema autentico, lo sguardo impuro, che scombina le carte, perché  questa “stella del soldato” rimane solo nel territorio della “bella” rappresentazione.

The US vs John Lennon

Un altro film mancato è The U.S. Vs. John Lennon. Sull’onda dell’emozione musicale, il ricordo impresso di alcune famosissime melodie beatlesiane e non, si tenta di definire l’ultima “stagione” di vita di John Lennon. Quella seguita al distacco del gruppo e all’incontro con Yoko Ono. Un momento che coincide con l’evoluzione spirituale di Lennon, una prospettiva che si concretizza quale forte, inusitata esperienza politica: di un pacifista che aveva i mezzi per comunicare parole e pensieri. E la dimostrazione che al potere oscuro delle nazioni, ed in particolare degli Stati Uniti dell’epoca, traviati da Nixon e dalla guerra catastrofica in Vietnam, le parole e i pensieri fanno male se espressi. Lennon stava davvero sgretolando i meccanismi di azione dell’arroganza politica legata agli interessi economici delle potenti oligarchie. La provocazione non era provocazione ma semplice proposta intelligente. E fatta con gli stessi mezzi stritolanti delle campagne pubblicitarie, però nel messaggio di Lennon c’è solo la speranza di una riflessione collettiva così potente da scardinare le logiche imposte dai potentati economici. Il film non possiede particolari pregi visivi, tranne il fatto di fornire un resoconto emozionante di immagini d’archivio, di Lennon e non, in grado di ottenere una descrizione storica molto autentica del periodo.

 

Tornando a Joaquim Pedro De Andrade, ci rendiamo presto conto che il cinema ha bisogno spesso di follia. È la follia di un autore che getta già nei primi cortometraggi lo sguardo direttamente sulle cose, trasfigurandole, rendendole cose-simboli, capaci di accendere una sensualità appassionante, una voglia infinita di pulsioni scopiche che infine “assordano” la visione tanto caotica, surreale, è l’accumulazione. Come Vereda tropical, penetrazione multipla di un’anguria, celebrazione di una ossessione libera e serena, e condivisione spensierata al mercato degli ortaggi e frutta, serie infinita di possibilità erotiche da scambiarsi, tra risatine, benessere, complicità, tra frutti tropicali e zucchine, banane, cocomeri di ogni specie e forma: l’allegria della vita che scorre impetuosa senza ottusi stereotipi e moralismi. Una bellezza inarrestabile in pochi minuti di visione.

In O poeta do Castelo è penetrante, affettuoso, tenero, l’inseguimento del poeta Manoel Bandeira nei gesti quotidiani, calmi, bellissimi, di un uomo anziano che sembra gustarsi proprio la lentezza infinita del più piccolo movimento. Ed il segno della scrittura che procede tra sfioramenti di pensieri, stimoli esterni, una telefonata, un ricordo che affiora. Un capolavoro di semplicità e necessità.

Molto più sanguigna la commedia Guerra coniugal, che adora gli impeti della carne, li fissa attraverso il resoconto morboso del battibecco coniugale, dell’acrimonia infinita di una convivenza innaturale e forzata, laddove i coniugi giocano spesso il macabro balletto col cadavere del coniuge. Il finale è esemplare. Orgasmi di fronte all’incipiente decomposizione. Il sesso, il piacere, la soddisfazione che sgorgano direttamente dalla morte del compagno aguzzino. Una imprescindibile lezione di pensiero e morale, tra risate grasse e intriganti sorrisi a denti stretti, dalla parte delle vittime, dei sadici, o dei masochisti, o del semplice gioco psicologico continuo del ruolo riconvertibile in libertà più o meno grande.

Offscreen - Christoffer Boe

La sezione Giornate degli autori promette sguardi a 360°. La linea, in effetti, è quella della diversità di opere . Dalla Danimarca Christoffer Boe firma Offscreen, ossessione lugubre, che finisce per autoavvolgersi nella follia della ripresa infinita. La videocamera sempre accesa ovunque in ogni angolo della casa e fuori, che registra meticolosamente le espressioni del corpo regista attore (grandissimo Nicolas Bro) e la moglie Lene. Progetto di film, omaggio alla donna amata, che si trasforma in incubo di vita. Disastro amoroso, perdita della razionalità per sprofondare nello spazio buio di un corpo in agitazione. Il corpo del protagonista a pochi centimetri dall’obiettivo, primissimi piani di tutte le parti del corpo ed infine l’organismo nudo che si ribella alla civiltà, e in questo rifiuto solo l’urlo profondo, la bestialità carnale, la pulsione primitiva affiorano spronando verso l’omicidio, soddisfazione di sangue, di liquidi, di escrescenze, rifiuti. Nella sua desolante brutalità, Offscreen, propone come via d’uscita dall’isteria esistenziale e dalla nevrosi del filmare e del filmarsi, lo spegnimento della macchina (da presa), quindi la cessazione dello sguardo che procede, attraverso l’acumulo iniquo delle immagini, alla sua stessa autoeliminazione. In questo gioco multiplo, Boe dà la sensazione di muoversi senza veli, tra verità disorientanti la visione comoda dello spettatore, nel luogo disarmante delle crudeltà dell’occhio che si “fanno” automaticamente con la registrazione di qualunque spazio tempo.

 

Poco da dire su Quelques jours en septembre di Santiago Amigorena e prodotto da Paulo Branco. Thriller scomposto sui fatti che precedono l’undici settembre 2001. Retroscena ricostruiti sulle false piste spionistiche, laddove gli interpreti, Binoche e Turturro in primis, sembrano davvero tutti spaesati. Solo per chi vuole vedere Juliette Binoche impegnata in un action.

 

Anche Hollywoodland di Allen Coulter non offre impennate degne di rilievo. Fatta esclusione per l’immaginario su Superman, il cui corpo mirabolante rimbalza dal set televisivo a quello della strada, dove cattura l’impressionabilità ingenua dei bambini.

La stessa Hollywood perversa e corrotta vista mille volte.

World Trade Center - Oliver Stone

Sull’onda delle catasfrofi pure Oliver Stone con World Trade Center e Spike Lee con When the Leeves Broke. A Requiem in Four Acts.

Il film di Stone è davvero imbarazzante. Ispirato ad alcune storie vere procede sulla falsa riga di un sontuoso film tv, dove non ci sono sorprese né articolazioni particolari dell’immaginario. L’attentato alle Twin Towers è narrato questa volta veramente dal basso: è il percorso dei poliziotti condito di battute degno del peggior patriottismo ad accompagnare una visione quasi sgomenta per la mancanza totale di CINEMA. Che si conclude perfino con apparizioni religiose salvifiche in tutti i sensi, e predicozzi sulla solidarietà umana che è affiorata in occasione del terribile evento. Stone, in effetti, non vuole addentrarsi nell’ambito più politico della vicenda, ma il film rimane una cronaca fredda e inutile di due sopravvissuti al crollo delle torri.

When the leaves broke - Spike Lee

Ben più interessante il documentario di Lee sul ciclone Katrina. Il film dura oltre quattro ore. la divisione in quattro atti permette una estrema chiarezza. Che Lee raggiunge con i mezzi a lui congeniali: numerosa serie di interviste delle persone coinvolte, dalla quale deriva un’immagine tridimensionale dei protagonisti. Lee ha cercato di raccogliere le opinioni più diverse, ma tutti parlano in coro sulle responsabilità del governo, i suoi ritardi nel mandare i soccorsi e le conseguenze di questi ritardi. Più che altro è accresciuta la sensazione di una tragedia che si poteva evitare e non si è evitata per l’indifferenza verso gli abitanti di New Orleans, la maggior parte poveri e di colore. Afroamericani e creoli, cittadini  statunitensi di serie b, e per questo sfavoriti, penalizzati da una protezione civile riluttante ad intervenire tempestivamente dopo il triste evento. In quelle ore terribili di agonia e morte la percezione prevalente è di aver perduto la dignità di essere umano. Il cedimento delle dighe è stata la causa di tanto orrore, ma le reazioni ufficiali del presidente Bush e di altri politici non sono riportate solo per dare forza al documentario attraverso il sentimento dell’indignazione, ma per capire ancora una volta quanto alcuni interssi politici ed economici possano essere lontani dal tutelare i semplici cittadini. Tutt’altro.

Daratt (Dry Season) - Mahamat Saleh Haroun

Dall’Africa (il Chad) Daratt (Dry Season) di Mahamat Saleh Haroun, esplora con limpidezza (grazie alle luci della fotografia di Abraham Haile Biru) la vita del giovane Atim rovinata dalla guerra che infuria nel Ciad. Guerra che dal 1965, siamo sotto il regime di Hissene Habré, ha causato 40000 vittime tra uccisi e dispersi. La vendetta per la morte del padre può ben consumarsi, ma le relazioni umane aprono più orizzonti al protagonista Atim. Mahamat Saleh Haroun piazza la mdp sempre nel posto giusto, laddove respiriamo concretamente i minimi dettagli emotivi dei personaggi, ma soprattuto la costante fatica, il sudore, i dolori per continuare a sopravvivere giorno per giorno.

 

Il film di Vittorio De Seta, Lettere dal Sahara, racconta il viaggio di uno dei tanti disperati che lasciano l’Africa, il Senegal in questo caso, per approdare in territorio italiano, senza sapere bene cosa trovare al loro arrivo. Da una parte le informazioni viziate di altri connazionali già arrivati in terra straniera, dall’altro il semplice sogno di un mondo migliore, di una società civile in cui è possibile onestamente guadagnarsi da vivere con dignità e rispetto. Più belle le parti in cui De Seta si limita a seguire con immagini il viaggio del protagonista Assane. Molto meno riuscite le scene di relazioni tra personaggi che risultano goffe e pesanti e procedono verso la costruzione di una tesi ricorrente nel cinema di De Seta, vale a dire i trucchi della tecnologia e del progresso, la perdità di identità e radici culturali e l’immutabile aleatorietà della solidarietà umana (il razzismo è sempre dietro l’angolo). Poteva essere un documentario tout court e certamente ne avrebbe guadagnato…

Sang sattawat (Syndromes and a Century)  

L’unico capolavoro arriva dall’immenso Apichatpong Weerasethakul. Il suo Sang sattawat (Syndromes and a Century) ci sconvolge immediatamente. Non c’è una pausa, è davvero incredibile, perché ogni inquadratura è un segno vibrante che penetra l’occhio e scuote il cervello. Le zone remote del cervello, le parti che banalmente identifichiamo con inconscio. E il cinema di Apichatpong Weerasethakul ha l’effetto “oppiaceo” di ipnosi perduranti, di regressioni progressive. Quasi un rituale magnifico e stupefacente in cui si perdono alcune coordinate. Come provare un deja vu attraverso l’esaltazione dei sensi. Ma il cinema di Apichatpong Weerasethakul si spinge oltre gli spazi, nel tempo. Cerca connessioni, traversando alcune radure dell’anima, dei paesaggi che subiscono la piega del perturbante, ci costringono ad una perpetua assuefazione. Siamo perduti, perché queste visioni ci avvinghiano completamente ad un nostro stato dell’essere (umano/i). Uno stadio di presenza ed assenza che ha delle funzioni particolari: scivola tra sensazioni, desideri, pulsioni, movimenti, impressioni, forse del tutto inesistenti. Essere sognati, visti ripresi direttamente nello spazio tempo unico della mente (?). E poi ritrovarsi di nuovo di fronte a luoghi comuni:  esperienze narrate anche comiche, innamoramenti passioni, indecisioni, o trasmigrazioni dell’anima. È bellissimo e fantastico il “mutuo soccorso” tra passato e futuro, tra medicina tradizionale e scienza medica, che si incrociano nelle corsie ospedaliere dello spazio tempo infinito. Il cinema di Apichatpong Weerasethakul è così straordinario da rendere difficile una sua definizione. O forse non è possibile darla, perché ogni volta ci sorprende per un particolare in più, per un’ipotesi in più. Che sia una posizione della macchina da presa o un dialogo apparentemente a sorpresa fuori luogo, per uno spaesamento continuo di tutto il profilmico, che magicamente rimbalza dentro l’occhio della macchina e quello nostro di spettatori per trasformarsi in qualcos’altro. In qualcosa di comune e allo stesso tempo di inusuale. Un ritorno all’oggetto riconosciuto ma del quale non riusciamo a pronunciare il nome.

Andrea Caramanna