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Diario 1 - 3 settembre

Lezioni di action movie dall'estremo oriente. Dopo numerose prove incolori provenienti da tutti gli angoli del mondo, il primo gruppo di opere provenienti da Cina, Corea, Giappone, si risolve spesso in chapeau. Il giovane coreano Ryoo Seung-wan, già autore dei notevoli No Blood, No Tears e Cryng Fist, dirige Jak-pae (Il compare – The city of violence), storia di ritorni, di destini beffardi che si ripetono, alla luce della ineliminabile violenza giovanile e poi delle tragedie di adulti. Ma il film ha un taglio nettamente coreografico. Lo stile è orientato verso il balletto dei corpi. Materiale che farebbe sdilinguire Quentin Tarantino. Ryoo Seung-wan non solo dirige ma è anche produttore, sceneggiatore ed attore, ha inoltre molta cura nel far risaltare alcuni colori come il rosso, il giallo e il blu. l'azione è filmata utilizzando una macchina da presa super 16 mm, la quale rende molto più serrato il ritmo. Sequenze interminabili dominate soprattutto dalle masse dei corpi. Un piacere continuo che non cessa anche nelle scene "tradizionali", ma girate con primi piani molto spinti a cogliere espressioni deliranti, a volte comiche o grottesche. Il cinema di Ryoo Seung-wan è vibrante, non ha quasi pause, ma il movimento non è mai parossistico, sfocia nel fantastico lirismo, come nella sequenze in cui gli adolescenti piombano in acqua.

Passiamo a Paul Verhoeven, autore abbastanza controverso. La sua tendenza dichiarata proHollywood dovrebbe farlo riflettere un po' di più. Il suo Black Book, ispirato al libro Grjis Verleden (Passato grigio) di Chris van der Heyden, è abbastanza lezioso, poco corrosivo e problematico. Racconta una pagina meno vista della fine del secondo conflitto mondiale e i vari fronti, quello nazista, la resistenza olandese, la fuga degli ebrei ricchi tradita da innumerevoli tradimenti. Certo contiene un tema centrale molto intrigante, la continuità di traffici economici durante la guerra, l'avidità umana che trasforma i personaggi. In sostanza la maschera che nasconde ogni viso, lo rende ambiguo per tutto il percorso. Ad eccezione dell'arrivo trionfale degli americani, i veri buoni di turno in fondo & Non ci sono trasalimenti, il racconto procede nella combinazione dei vari fili. I colpi di scena non sorprendono affatto. La prostituzione femminile ed il trasformismo politico sono affrontati con rigoroso pudore, e l'unica scena di sesso, non male, è comunque visibilmente artefatta per ottenere un effetto estetico che fa rimpiangere l'erotismo malsano di Showhirl e Basic Instinct. Una prova minore rispetto ai noti precedenti da Il quarto uomo a l'uomo senza ombra.

Ben più complessa la visione di Heimat – Fragmente. Il film si spacca in due opzioni. Quella nostalgica, in cerca soltanto di materiali, immagini e scene da rivedere prelevate dalla lunga serie dei tre Heimat, e la seconda opzione, consistente nell'immaginare la babele di percezioni, i flussi in transito, le memorie che si cancellano o tentano di rigenerarsi, o si rielaborano continuamente. l'utilizzo della sovrapposizione di immagini digitali e non corrisponde proprio a questa ultima opzione e non è casuale che Edgar Reitz dopo le tre serie si trovi ad articolare un percorso di accumulo, di varie densità immaginarie. Ottima la trovata del fil rouge incarnato dal personaggio di Lulu. Il quale corrisponde alla parte attiva, in movimento costante tra i vari pezzi. Heimat – Fragmente è un film totalmente immaginario, ma immaginario come e più della realtà. Ed è impressionante che lo stesso Reitz, in conferenza stampa, abbia espresso questa esistenza concreta dei vari personaggi: erano reali. Forse la loro persistenza nell'immaginario li ha resi più forti, indimenticabili, ha prodotto quella catena di affetti, emozioni, che si ripetono come per le fotografie intime, nell'album dei ricordi più personali.

Piuttosto trascurabile The Hottest State di Ethan Hawke. Almeno dal punto di vista dello sguardo molto dimesso. Perché lo scritto funziona grazie ad un buon ritmo, con dialoghi che la macchina da presa si limita ad inseguire dalle pagine del romanzo scritto da Hawke, con lo stesso titolo, The Hottest State. Il viaggio dei due adolescenti protagonisti, con una prevalenza netta alla soggettiva per quello maschile, finisce col rendere un po' a senso unico la scena. Problemi familiari, padri fuggiti, madri assenti e così via, sulla traccia più usuale possibile di tutti i romanzi di formazione. Sarà per un'altra volta &

Coeurs - Alain ResnaisDa Alain Resnais ci si aspettava molto e molto abbiamo visto nel suo film Coeurs, titolo originale francese. La scenografia è ancora un segno linguistico molto forte per Resnais. In questo caso la continua serie di interni e l'esterno sottolineato prepotentemente da una interminabile nevicata. La neve che non si scioglie sugli abiti dà un tocco surreale alla serie di umanità rappresentate. Col solito ardore, la nettezza di un occhio in grado di centrare l'espressione del viso. Attraverso quegli interpreti, Azema, Dussolier, Arditi, Wilson, che sono una famiglia interiore per Resnais, siamo di fronte ad uno specchio dell'anima che si accende delle luci variabili di emozioni precise. Resnais, ispirandosi alla pièce teatrale di Alan Ayckbourn, lavora con i dettagli minimi dei "cuori", quasi solleticato, attratto, da quegli aspetti ambigui, inaspettati, che deviano il corso delle esistenze. Per questo ogni espressione si traduce in spettro di possibilità, tra incertezza e verità, pronte a suggerire nuovi incontri nell'emozione. La bellezza della messa in scena consiste nell'attivare più poli di attenzione. Ed i personaggi di Resnais riescono a lavorare proprio su questo terreno: essere poli di attrazione inevitabile, per ciascuna delle espressioni e per le parole pronunciate. E non è un caso che la sfida riuscita più grande sia il personaggio di Claude Riche, l'anziano Arthur bloccato a letto e di cui si vedono solo i piedi: invisibile, ma la cui verve incessante, gli sprologui, lo fanno essere personaggio carnale e presente quanto gli altri.

Il raffinato Stephen Frears conferma il suo dinamico eclettismo con The Queen, ottimo ritratto a tutto tondo dei personaggi istituzionali: la regina Elisabetta insieme alla famiglia reale e Tony Blair, appena eletto a furor di popolo, durante i giorni che seguono la morte di Lady Diana. Frears penetra con acume ogni aspetto della vicenda. Dai comici riti tradizionali di corte, i rigidi protocolli, alla intimità quotidiana della regina, alla crescente ascesa di Blair verso l'autoconservazione del potere acquisito (davvero sottile ed intelligente Frears a sottolineare anche questo aspetto), fino alla misurazione del fenomeno mediatico che culmina con la pressione alla regina, facendola recedere da cerimoniali e tradizioni antiche di secoli, per approdare ad un nuovo corso della monarchia in Inghilterra. E quella frase scelta dall'astuto collaboratore di Blair, per la principessa Diana, "principessa del popolo", davvero riassume la contemporaneità dei fenomeni globali. Perché la morte tragica di Diana fu proprio uno di questi eventi che allora cambiarono il corso delle comunicazioni planetarie. Situazione già  evidenziata nell'attesa spasmodica dei titoli dei giornali e delle televisioni. l'opinione pubblica è diventata la chiave di accesso per molti potenti, ma anche un elemento con cui devono fare i conti più spesso (speriamo & ).

Suely in the Sky di Karim Ainouz è la storia di una ragazza madre brasiliana abbandonata dal marito, che vive in un piccolissimo centro abitato, laddove sembra che il mondo consista soltanto nella folla di affari che assicurano la sopravvivenza, la prostituzione è un fatto comune. Ainouz si limita a seguire il personaggio con buona intensità, ma senza colpi d'ala, ottima la scelta di una prevalenza cromatica del giallo, dell'oscurità notturna che avvolge corpi, visi, animati da una vibrante energia vitale.

Le Pressentiment - Jean-Pierre Darroussin

Le Pressentiment di Jean-Pierre Darroussin è una instancabile ricerca spirituale. l'abbandono dei beni materiali, delle comodità coincide con una precisa scelta di vita. Il protagonista diventa un corpo errante in cerca di nuovi percorsi. Il cammino tenta di vedere raffigurati sui volti, le azioni dei vari personaggi, le loro sensazioni più profonde. Anche se dopo dieci minuti la messa in scena di Darroussin, spinta verso i consueti canoni dell'introversione di molti personaggi francesi, non fa più niente per rianimarsi. un'opera chiusa nella sua ansia teorica, che preferisce rappresentare con i soli mezzi narrativi. Però non c'è una macchina da presa che esplora abbastanza il mondo circostante, disprezza i bassifondi parigini, mentre sfiora dai finestrini di un auto i luoghi più belli del Lungosenna, come per sottolineare la divisione geografica dell'anima. Il benessere spirituale procede attraverso queste lacerazioni tra luoghi, tra geografie opposte già coincidenti con altri luoghi dell'anima umana. Laddove esiste una tenace corrispondenza tra modus vivendi. Esempio chiaro è il fitto colloquio intellettuale a casa dell'ex moglie tra artisti colti. Mentre l'arte, già innanzitutto stile di vita, è sicuramente altrove.

Opera distopica Children of men di Alfonso Cuarón intrattiene magnificamente come un buon action, ma presto si carica di simbolismi fin troppo pesanti, come la nave del progetto umano che si chiama "Tomorrow" ("domani"). Il fatto che nel 2027 la sterilità abbia colpito il mondo e non ci siano più bambini da diciotto anni è un presupposto apocalittico molto forte. Per di più il nuovo nato sarà proprio un immigrato. Immigrati che sono ormai diventati completamente criminali. Arrestati e deportati in gabbie. La lucida costruzione di un futuro possibile vicino è senz'altro l'elemento più sconvolgente della messa in scena.

Non prendere impegni stasera di Gianluca maria Tavarelli è il classico film italiano piagnone. Siamo (spesso) così (noi italiani), per carità, inutile negarlo. E i "nostri" problemi italiani, "stanchi di vivere" come dice la didascalia iniziale, vanno dall'attacco di panico, alla claustrofobia, alla noia di vivere dei cinquantenni che si trovano un'amante, alla voglia di rivalsa personale di un emigrante pugliese, alle incompresioni di coppia che rivelano l'incapacità di amare veramente l'altro, agli stili di vita, vegetarianesimo ecc, scelti solo per moda o per debolezza spirituale. Ma anche la paura insopprimibile per i mali incurabili, vero spauracchio del curatissimo e per forza longevo abitante dell'Occidente "ricco" e "civile".

Un mondo profondamente corrotto, laddove il suicidio si palesa come soluzione accettabile per interrompere il dolore sordo che avvolge ogni istante di vita. È un'orizzonte rappresentato attraverso un'oscurità scenografica quasi permanente. Tavarelli continua la sua disamina di tipi umani, in questo è bravissimo a tratteggiare le caratteristiche minime dei personaggi. Però è un cinema non alimentato da grandi immaginari, che vola basso, dando la sensazione di non concepire un disegno più libero, più pulsante sia di dolore che di felicità, come soluzione accettabile per interrompere un dolore senza rimedi, nel più cupo pessimismo, che avvolge ogni istante di vita.

Yi nian zhichu (Do Over)  di Yu-chieh Cheng come altre opere provenienti dall'estremo Oriente, respira cinema a pieni polmoni. Lo fa ordendo le fila di una visione circolare. Ma non è solo la ricomposizione del puzzle a colpire. Piuttosto la costante sospensione dello spazio tempo figurativo, tra luoghi che sono impregnati di visioni e personaggi sonnambuli che si animano, vagano come fantasmi in una scena diafana. l'ambizione figurativa decolla nella parte finale, quando viene completamente fuori la parte sognante del testo, con il viaggio e la passeggiata lunare, la visione lontana del piccolo pianeta terra, le strade che si interrompono per stimolare il grande salto dell'umanità verso nuovi mondi. E invece Yu-chieh Cheng rimane sempre in contatto con i suoi personaggi, debolissimi, umani, impressionanti. La vita si decide tra un ciak e l'altro, perché la vita è la più strana messa in scena. Per questo è insita la sottile coincidenza del set con la vita "esterna", che si confonde, non si distingue con l'"altra vita possibile". Il gioco di confusioni, di incontri tra desideri costanti, rimorsi o rimpianti, voglia di ecstasy, di abbandonare il senso compiuto delle ordinate immagini quotidiane. Perché il senso può essere interrotto a partire da una intenzione individuale che entra magicamente a contatto con tutta la serie invisibile di eventi; e il gioco del cinema rende visibile questo intreccio profondo, rigeneratore e rielaboratore di eventi, l'essere qui ed ora, ma anché lì in un altro tempo.

Hei Yanquan (I Don't Want to Sleep Alone) - Tsai Ming-LiangStessa opzione visionaria per Hei Yanquan (I Don't Want to Sleep Alone) dell'immenso Tsai Ming-Liang. Uno dei pochi capolavori sin qui visti. Ma il cinema di Tsai Ming-Liang ha sempre "navigato" lontano con le sue metafore acquatiche, con il senso carnale di appartenenza dell'uomo al mondo, alla vita, attraverso gli spazi architettonici più vari. A differenza delle più forti ossessioni dei film precedenti, vedi soprattutto l'ultimo, Il gusto dell'anguria, incentrato sulla sessualità grondante di un set porno vicina al senso mortifero di un'Apocalisse del presente, qui i segni di una fine del mondo sono trasportati come incanti nebbiosi. Le stesse polveri venefiche che tagliano il respiro, ma qui un coito si accende e perdura proprio durante l'assalto delle polveri, tra colpi di tosse sempre più assidui. In Hei Yanquann (I Don't Want to Sleep Alone) c'è il desiderio prepotente di realizzare un contatto intimo tra i corpi, un contatto spirituale che ha i tratti figurativi dei lavacri salvifici, dei sudari che custodiscono le parti preziose del corpo. Superfici dell'organismo da accarezzare, detergere dolcemente, riscaldare con l'abbraccio gentile di una veste. Per questo il film inizia con una lunga inquadratura sul corpo malato, in coma, con gli occhi sbarrati kubrickiani a guardare un mondo che può ancora esserci dopo o durante la morte/vita vegetativa. Uno sguardo nella ineliminabile possibilità di vita, rivolto verso l'esterno a chiunque possa raccoglierlo. E la masturbazione coatta altro non è che un atto estremo di sopravvivenza, con lo sperma che può ancora sgorgare da genitali che sembrano continuare a fare solo una funzione riproduttiva dell'esistenza, un'eiaculazione non mostrata ma che è dolcemente per tutti.

Nelle penombre dell'edificio acquatico, in perenne ricostruzione, non si ha la sensazione di una rovina, ma di una radura dell'anima dove possono riunirsi varie esistenze. Corpi che accolgono corpi, emozioni che si scambiano nel più assoluto silenzio, come in una cerimonia religiosa. Scena finale indimenticabile con i tre corpi sdraiati sul materasso galleggiante. Davvero Tsai Ming-Liang ci fa impazzire di gioia, commozione, piacere. Hei Yanquann (I Don't Want to Sleep Alone)  è un'inno "glorioso" alla sopravvivenza della più profonda spiritualità umana.

Paprika  di Kon Satoshi è dichiaratamente un sogno ad occhi aperti. La storia segue la falsa traccia dello squid di Strange Days della Bigelow e se vogliamo anche il doppio sogno di Schnitzler/Kubrick. Atraverso l'animazione digitale, Kon Satoshi elabora vari tipi di suggestioni che sono anche articolazione di antiche leggende, memorie personali e materiale vario. La donna che diventa gigante e risucchia un uomo asessuato ma brutale è l'immagine più interessante. Sintetizza perfettamente l'idea di un mondo più fecondo dalla parte femminile, ricco di dettagli che possono essere scambiati per maschere ed ambiguità. La parte maschile appare più viscerale e grassa, sebbene conservi un'aria di genialità sommersa. In totale libertà, Paprika ispira una serie infinita di organismi, corpi, elementi in una girandola a volte stordente, e che perde qualche volta la dimensione perturbante.

Paprika - Kon Satoshi

Conferenza stampa  Coeurs - Private Fears in Public Places

con Alan Resnais (regista), Sabine Azéma, Laura Morante, Pierre Arditi, Isabelle Carré, André Dussolier, Lambert Wilson,  (attori), Bruno Pésery (produttore)

Il perché della scelta del titolo originale Coeurs....
Alain Resnais: Il titolo francese non piaceva all'inizio. Così ho deciso di dare il titolo solo al montaggio definitivo, avevo proposto 104 titoli diversi al produttore, tra questi Coeurs era il più congeniale. Mi sembrava che si trattasse di qualcosa, come il cuore, in continuo movimento, in questo ho avuto l'avallo di tutto il cast.

l'ultima volta che è stato a Venezia era per Marienbad. Come ha sentito allora l'accoglienza al film l'anne derniere a Marienbad?

Alain Resnais: Il pubblico si è diviso in due parti, all'inizio consideravano il film come una commedia, poi c'è stata una risposta completamente diversa e alla fine il film è stato applaudito.

A Laura Morante: come si è sentita a recitare in francese?

Laura Morante: non posso lamentarmi dei ruoli avuti in Italia, ma l'occasione di lavorare con Resnais è stata la realizzazione di un sogno. Con Resnais ho provato la presenza nel set di una sorta di grazia.

Cosa le è piaciuto di questa storia di Alan Ayckbourn, qual è l'elemento prevalente?

Resnais: È una domanda complessa, diciamo che rispetto ai temi di cui si parlava tra attori, percepivamo tutti di essere un tessuto di contraddizioni, molto mutevole, si agitano in noi molti sentimenti, questi personaggi hanno voglia di fare qualcosa di meglio e compiono uno sforzo continuo per fare qualcosa che li porta anche a non fare nulla come il personaggio di Dan o fare altro come Charlotte. Il nostro destino cambia grazie alla presenza di persone, la scenografia sembra un acquario, è un luogo rumoroso, il film  è appena uscito dal montaggio nessun mio amico ha visto il film.

Relazioni tra teatro al cinema e perché il personaggio di Claude Rich non si vede e si sente solo la voce?

Alan Resnais: Non ho mai sentito la differenza tra cinema e teatro. So che le differenze tra cinema e teatro dividono gli spettatori,  E un po' come la diversità delle lingue, però i semiologi dicono che tutte le lingue sono particolarmente simili, le differenze non sono poi così forti. Adattare il teatro a cinema, credo che le due arti abbiano punti in comune come il fatto che non si  può più tornare indietro, a cinema ed in teatro, il pubblico non lo può fare. Una forma di schiavitù che hanno il cinema ed il teatro.  Mi sento molto a mio agio sulla trasposizione di una pièce teatrale a cinema.

Per quanto riguarda Claude Riche, ho pensato che fosse più suggestivo sentire questa collera senza sottolinearla da alcuna mimica. Claude Riche ha accettato questa opzione seenza provare alcuna frustrazione. È una opzione usata da Ayckbourn.

I personaggi femminili sembrano più vitali di quelli maschili.

Alain Resnais: Sono lieto che si riscontri questo. È vero che il ruolo delle donnne è cambiato molto negli ultimi dieci, venti, trenta anni. Mai si ammetteva nel cinema del passato che una donna potesse essere regista. Ora vediamo che ci sono tante donne registe, operatrici, montatrici. Mi sembra normale che Alan Ayckbourn abbia notato questo, vorrei che le altre persone qui presenti rispondano &

A Sabine Azéma. Mi sembra che i personaggi siano quasi come delle cavie di laboratorio, e il suo personaggio incarni la maggiore contraddizione

Sabine Azéma: Sì, è il personaggio che ha trovato, grazie alla sua fantasia, la religione, la possibilità di sfuggire. Non credo sia un personaggio finto, ha un mondo inventato dalla sua mente, un mondo che comunque è impossibile comprendere appieno, non sappiamo se questa persona sia un angelo o un diavolo, penso che possa cavarsela perché in qualche modo riesce a romanzare la propria vita, ha energia, crede in Dio e si diverte molto a manipolare.

Vorrei che Isabelle Carré e Laura Morante ci parlino della loro esperienza per la prima volta con Resnais.

Isabelle Carré: Sono stata meravigliosamente bene accolta, è stato un aiuto prezioso, questo ha aumentato la fiducia in me stessa, anche per me lavorare con Resnais è stato come realizzare un sogno. Sul set c'era una tenerezza costante, ho sentito molto uno sguardo tenero e non uno sguardo da entomologo, uno sguardo benevolente.

Laura Morante: Posso dirvi che la prima volta che ho incontrato Resnais mi ha detto che nel film avrebbe nevicato moltissimo. Come tanti altri attori perferisco un approccio al film impressionistico, non un approccio razionale.

Pierre Arditi: Sono l'anziano della famiglia di Resnais. Sono ventisette anni che condivido la vita artistica di Resnais, ma sul set non mi sento un decano, ogni film è diverso, ci sono degli elementi di eclettismo straordinari; con Lambert, André, Sabine ci conosciamo da molto tempo. Resnais, quando è arrivata Isabelle, rideva un poco, per l'accoglienza che si aspettava da parte nostra; però ci sentiamo sempre attori esordienti.

André Dussolier: Non posso che  confermare quello che ha detto Pierre. Tutte le volte è un soggetto nuovo, un sentimento ed un lavoro che condividiamo tutti.

Lambert Wilson: quando si fa un film musicale si deve superare una prova tecnica dopo il canto, la cosa particolare per me è che dopo la ripresa finisco con la certezza di aver compiuto un lavoro, è una cosa che attraversava il mio personaggio, finivamo le sequenze come se fossimo in equilibrio. Un immenso piacere, ma anche un enorme sforzo, perché nel libro di Ayckbourn c'è una sensazione di sospeso &

Conferenza stampa The Queen

con Stephen Frears Andy Harries (produttore), Peter Morgan (sceneggiatore), Helen Mirren (attrice), Christine Langan (produttrice)

Come si è sentita a fare un personaggio vivente?

Helen Mirren: È una situazione difficile, era un progetto che mi spaventava moltissimo all'inizio, ho avuto una coach che mi aiutava nell'impostazione della voce, è un ruolo che mi ha veramente spaventato e impegnato

Problemi legali sul film

Andy Harries: per un progetto di questo tipo, la famiglia reale di solito preferisce non intervenire, non fare commenti, e poi il film non è assolutamente diffamatorio

Sulla rivoluzione parola citata più volte nel film alla morte di Lady Diana &

e il rapporto freudiano tra Blair e la regina

Peter Morgan: la regina ha la stessa età della madre di Blair se fosse viva, è chiaro che Blair si trova di fronte una donna che appare come una madre, però certamente è una congettura che abbiamo fatto noi.

Stephen Frears: direi che in Gran Bretagna la regina è la madre di tutti

Helen Mirren: è difficile spiegare per chi non è inglese la presenza della regina, una presenza costante, è un'immagine, quasi una figura genitoriale, è come il divano dei propri genitori che si consuma si rifà ed è sempre lì nella stessa stanza, fa parte del nostro paesaggio mentale, ed è comunque qualcosa di enigmatico ed incomprensibile, è una figura materna, mia madre quando ero piccola, mi diceva che anche la regina soffriva delle stesse cose. Sono sicura che i mass media hanno gonfiato la reazione della famiglia reale alla morte di Diana, sono cose che passano,

Stephen Frears: non credo ci fosse stata alcuna possibilità di rivoluzione, è stata la concomitanza dell'elezione di Blair.

Helen Mirren: credo che il film cerca di districarsi nel concetto della monarchia, nell'eliminare tutta questa sovrastruttura, tra protocolli e cerimoniali, ho cercato di mettere in rilievo il contenuto umano.

Fino a che punto avete cercato di riprodurre gli eventi più sulla fantasia o su fatti realmente accaduti?

Peter Morgan: Abbiamo parlato con tanta gente sia dalla parte di Blair che dalla parte della regina, ho sentito la gente che lavora a Downing Street, per quanto riguarda l'intera corte di Buckingham Palace, Kensington Palace, ogni corte ha una versione diversa, lavorano dietro le quinte, riescono a tramare, abbiamo attinto a molte fonti biografiche e poi c'è il passa parola tra la gente, sono amico a persone vicine al principe Carlo, altre cose sono basate direttamente sulla realtà

Conferenza stampa Heimat - Fragmente

con Edgar Reitz (regista), Nicola Schossler (attrice), Christian Reitz (produttore)

Mi è sembrato che Lulu non sia un personaggio &

Edgar Reitz: Il personaggio di Lulu, ha ragione, è qualcosa come una specie di polo

Schossler: non ho l'impressione che sia un'attrice a recitare, è come un documentario, tornare negli altri film, si è riconoscibili come personaggi, ma non si è più  personaggi, è piuttosto essere trasportati dalla macchina da presa

Come è nata la collaborazione con suo figlio?

Edgar Reitz: il nome di mio figlio era già in Heimat 1 dove era alla fotografia e nel secondo si è dedicato alla produzione    

l'immagine delle foglie che è poi un bellissimo puzzle è del padre o del figlio

Christian Reitz: questa immagine è nata quale simbolo di tutta la storia, è un'immagine composta da vari elementi anche dal punto di vista tecnico, è impossibile ricondurre un'immagine a una sola persona è stato il lavoro di un gruppo, è comunque un'immagine nata al computer

Il film è diventato materia di studio in qualche università italiana. Come giudica i lavori sul passato come quello di Gunther Grass.

Edgar Reitz: la patria in Germania è un argomento in questi anni di grande attualità dopo la riunificazione dove molte persone hanno grandi preoccupazioni riguardo il loro futuro. l'insicurezza sul mercato del lavoro, ed anche un'insicurezza relativa al paese in cui si vive, il paese si trova in un mondo globalizzato dove i confini tradizionali non esistono più, cosicché si va alla ricerca di valori, come la patria "heimat", che ritornino ad interessarci dal punto di vista socio psicologico ed anche filosofico

Noi abbiamo un rapporto con Heimat, secondo lei il mondo non considera più la Storia?

Edgar Reitz: rispondo solo come cineasta, penso che il film abbia un ruolo per il modo in cui gestiamo le nostre esperienze. per esempio non riusciamo ad immaginare l'esperienza prima dell'esistenza del cinema, perché se diciamo "11 settembre" tutti ricordiamo immagini cinematografiche e quindi il cinema crea la memoria delle persone.

Dal punto di vista economico quali sono stati i cambiamenti per portare avanti un'opera così vasta?

Edgar Reitz: venticinque anni fa la situazione era molto diversa, la Germania era molto più ricca e disponibile per finanziare eventi culturali. Già quando abbiamo girato il secondo, fu la televisione ad avere un ruolo importante. Quando abbiamo girato il terzo tutto era cambiato, è stato difficilissimo ottenere i fondi per fare il film. l'ultimo è stato realizzato da fondi di un land tedesco, la Renania Palatinato.

Questo ultimo film si apre al futuro o resta legato a questo passato?

Edgar Reitz: dopo un'opera così grande che si è protratta per venticinque anni, considerando che abbiamo vissuto così intensamente i personaggi del film, ho avuto l'impressione che i personaggi del film fossero più reali della vita stessa; abbiamo vissuto insieme a Schabbak. Il primo dolore è dire addio agli interpreti del film e poi il cambiamento nella produzione cinematografica, perché il film esce sempre più dal computer, Fragmente è una riflessione sul nostro rapporto con le immagini virtuali del computer, con le immagini digitali.

Nicola Schossler: il personaggio di Lulu si trova in un limbo, di un personaggio che non abbandona il passato per il futuro.

Andrea Caramanna