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FESTIVAL DEL CINEMA AFRICANO, D'ASIA E AMERICA LATINA- Milano, 2005

Fama... boutula bela magd di Dalila Ennadre

«In breve, penso che sia in corso una guerra mondiale, ancora sparpagliata, per il controllo, e la riconquista, delle donne. Che il corpo delle donne sia il campo di battaglia e insieme la posta del famoso scontro di civiltà sembrava fino a qualche tempo fa un'idea balzana, o provocatoria: ora è quasi un'ovvietà. Ci siamo accorti che anche gli ultimi, quelli che non avevano da perdere che le loro catene, hanno da perdere almeno le loro donne. Quel che più conta è che se ne sono accorti loro, gli ultimi: da quando le distanze si sono così accorciate da renderli spettatori di un mondo in cui le donne diventano padrone di sé» (introduzione di Adriano Sofri a Non sottomessa, di Ayaan Hirsi Ali, Einaudi, Torino 2005).

Una reazione agli afflati di emancipazione chiamato integralismo religioso


El Manara di Belkacem Hadjadj

Il corpo delle donne dunque, come campo di battaglia e premio dello scontro di civiltà, già un po' spostato in un ambito simbolico e pretesto per una disamina in ottica maschile - laddove invece l'autrice somalo-olandese fa una precisa analisi a partire dalla propria esperienza di donna e musulmana di questa crisi delle certezze (maschili) islamiste.
Non c'è dubbio che Ayaat Hisri Ali abbia ragione a battersi contro l'interpretazione retriva sciovinista criminale che l'Islamismo dà rigidamente di testi scritti secoli fa, ha ragione come tutte le donne che hanno lottato contro l'oscurantismo di certo retrivo cattolicesimo trionfante fino a poco tempo fa e ora non certo definitivamente debellato, anzi è sufficiente il gesuitico profilo - basso - di Buttiglione per sentir scorrere un brivido lungo la schiena. e ha ragione quando dice che le donne stesse sono le più determinate a opprimersi nella tradizione, come già in Badîs

Potrebbe avere qualche fondo di ragione persino l'analisi del grafomane recluso a Pisa per meglio illuminarci sulla società che noi di fuori viviamo senza avere la sua lucidità a senso unico, se - come si tenta di accreditare nei due pamphlet da lui introdotti per Einaudi nel giro di pochi mesi (quello di Buruma Turgalit sull'Occidentalismo e questo doloroso diario di una donna sulla condizione delle musulmane) - esistessero semplicisticamente due contrapposti mondi: l'Occidente e gli Altri; quest'ultimi perlopiù etichettati come in qualche modo integralisti... Come se le immagini di stuoli di imbecilli che pretendono di prolungare l'agonia di Terri Schiavo oscillando in preghiera non abbiano lo stesso effetto straniante degli sciti autoflagellantisi, o se l'accanimento terapeutico su un vecchio papa che ha fatto infiniti danni sull'immaginario (in questo ambito basterebbe chiedersi la radio delle mille colline ruandese che aizzava all'odio contro gli "scarafaggi" da quali missionarie mani caritatevoli fosse controllata e quali sovvenzioni cattoliche le permettessero di sopravvivere) e sulla politica degli ultimi decenni (l'abbraccio a Pinochet su tutto, ma anche il riconoscimento prematuro della Croazia che gettò l'area nel genocidio coronato dalla santificazione del prete degli ustascia, o la politica sul corpo delle donne pervicacemente perseguita fino a ottenere l'obbrobrio della legge sulla fecondazione assistita... Pio Laghi!) non nasconda le stesse lotte per le investiture dell'integralismo ruspante del carroccio, vinte dal pargolo che imita da una finestra svizzera il becero gorgoglio paterno: "Padania". Ecco: l'integralismo globalizzato.

Lahna Lalhia (Une Place au soleil) di Rachid BoutounesEl Manara di Belkacem Hadjadj

Ma non è così semplice come piacerebbe ai maitre a penser dell'Occidente (o meglio dell'Occidentalismo): non si possono ricondurre tout court a un'unica tipologia quelli che stanno ai di là dei soliti muri o muraglie che la cultura, occidentale come orientale, erige. E spesso le contaminazioni contribuiscono a formazioni culturali di individui ibridi, non riconducibili a modelli. Da qualche anno si è accantonato il termine un tempo in voga di metissage. Forse perché nonostante settarismi e tentativi di incasellamenti è il processo che avanza maggiormente. A questo si impronta da sempre il festival meneghino un tempo riservato all'Africa, ora aperto a offrire un panorama su quegli Altri, che sembrano così ostili se visti nella descrizione di chi tenta di difendere aprioristicaente qualsiasi roccaforte culturale dell'Occidente e finisce con il farlo suo malgrado copiando la chiusura culturale di quel nemico dell'intelligenza che è l'integralismo a ogni latitudine (o longitudine, visto che si insiste con la distinzione occidente/oriente).

Uno dei più acuti film che vanno a incidere un solco profondissimo tra cultura maghrebina e Islamismo è El Manara. L'acutezza sta nella dolorosa rievocazione del processo che ha portato una società laica e progressista come quella algerina a essere infitta nella barbarie dell'ininzio degli anni novanta. La lucidità di Belkacem Hadjadj si avverte in due motivi del film: la distinzione esplicita - detta con una sorta di breve grido di sofferenza esposto dal giornalista protagonista - tra Islam e Islamismo, il primo comprensivo non solo di religione, ma anche e soprattutto di secoli di civiltà, il secondo di ottusa e feroce reazione a quello di cui racconta Sofri nella sua introduzione; e soprattutto la capacità di illustrare l'involuzione della società in uno scambio tra la Storia sullo sfondo che viene in primo piano talvolta, scambiandosi di ruolo con i singoli personaggi e la loro stessa parallela involuzione da quei momenti iniziali, che fanno pensare a un buon film nouvelle vague - incipit funzionale a restituire un'atmosfera ben diversa da quella retriva comune a tutto il mondo globalizzato dall'assenza di sicurezza indotta da media pilotati e da guerre preventive altrettanto mirate a eliminare sicurezza per ottenere consenso reazionario. Infatti piuttosto che un semplice atto di accusa verso il fanatismo - che potrebbe risultare sterile o retorico - il sentimento più presente al film è il rimpianto per un age d'or in cui tutto il mondo era più laico e in Algeria si poteva essere donne senza velo, impegnate nel teatro (e nella rivalutazione della tradizione culturale, e quindi anche di alcune forme di Islam), come l'intellettuale omosessuale di Le Soleil assassiné di Abdelkrim Bahloul), e conviventi di due uomini, amati con la stessa intensità, come se si chiamassero Jules e Jim, anziché Fawzi e Ramdhan.

El Manara di Belkacem HadjadjEl Manara di Belkacem Hadjadj

La pellicola si pone nella scia di Rachida di Yamina Bachir-Chouikh e L'Autre Monde di Merzak Allouache che ha messo per primo in scena i maquis islamisti, ma la sua potenza oltrepassa la denuncia perché non si limita ad accompagnare i protagonisti nel loro parallelo percorso con l'Algeria che piomba nell'oscurantismo, gli autori non sono soddisfatti di aver creato personaggi di contorno che consentono di dettagliare ogni possibile tipologia attraverso il coinvolgimento di ognuno in quella tragedia, in quel bagno di sangue islamista voluto dal Fis e dal Gia, ma documentano il cambiamento irreversibile dei tre ragazzi e l'impossibilità di poter ancora frequentarsi, vivere insieme: nessuno dei tre potrà mai più essere quello che gli anni di gioventù universitaria lasciavano sperare e per lo spettatore l'intera vicenda risulta non solo plausibile, ma getta una luce sinistra su qualunque integralismo... e non è difficile vedere negli occhi spiritati di Calderoli la stessa invasata determinazione dei militanti del Fis.

I ragazzi ripresi in auto, su quel maggiolino che li rende così giovani simili ai giovani di tutto il mondo (forse si potrebbe estendere alla categoria "giovani" - e non solo "donne" - il timore dei retrivi di tutto il mondo a cui faceva riferimento Sofri), la familiarità in casa, complice e seducente, le lotte all'università durante i primi atti violenti di polizia e islamisti, sono situazioni che da un lato documentano e aggiungono pathos nostalgico e rimpianto, dal'altro sono situazioni su cui gli autori insistono per restituire gli stessi spazi e le stesse situazioni rovesciate nell'angoscia e nel timore del momento successivo: quando il fanatismo (islamista o legaiolo, è lo stesso) la fa da padrone l'automobile diventa il luogo della scena del rapimento da parte degli islamisti; la casa si trasforma nel palcoscenico dei dissapori, quando si manifesta la conversione di Ramdane: dal simpatico disordine della tavola imbandita all'ordine nelle cose sosituito dall'incomprensione attorno a un altro desco di incomprensione; la casa dell'ulema illuminato, loro maestro, diventa da quel pacifico luogo di canzone intonata insieme dalle due ragazze il teatro del suo omicidio.

El Manara di Belkacem Hadjadj
El Manara di Belkacem Hadjadj

Ma quello che risulta agghiacciante è che lo spettatore non rimane spaesato, i personaggi evolvono linearmente e solo alla fine - e questa è la notevole bravura del regista - ci si accorge di quale enorme differenza ci sia tra le figure dei tre ragazzi disinibiti e progressisti e loro tre, o quel che rimane della loro determinazione, sopravvissuti agli eventi: in particolare per Ramdane, il medico, si tratta di una lenta evoluzione dall'impegno progressista a un'apertura alla tradizione per poi esserne coinvolto e divenire dirigente del Fis, rinsavire in parte, ma ormai trasformato dalla sospensione della ragione, deviata dall'infatuazione che lì è rappresentata dall'islamismo, inteso come deviazione stigmatizzata da Tariq Ramadan - e qui da padanismo o stalinismo: fascismo in ogni sua espressione e che Ramadan, dall'interno - nella sua richiesta di moratoria delle pene corporali in un ripensamento modernizzante la prassi islamica, proprio come la sceneggiatrice di Van Gogh di cui parlava Sofri -, dice esattamente le parole dell'amico giornalista che nel film ritiene "il messaggio islamico un messaggio di giustizia, ma quello che viene compiuto, in nome dell'Islam, è una vera ingiustizia. È da questo punto di vista che dobbiamo aprire un dibattito intercomunitario" (il manifesto, 30 marzo 2005).

El Manara di Belkacem HadjadjEl Manara di Belkacem Hadjadj

E questo film meglio di quelli che lo hanno preceduto ha restituito l'atmosfera algerina dal 1988 ai giorni nostri; nel film più volte si rigetta da parte del giornalista laico l'accusa di collaborare con un potere corrotto e violento (i 6146 desaparecidos algerini per mano delle forze di sicurezza algerine dell'Fln sono pienamente comprensibili dopo che si è visto il film più di quanto non fossero già immaginabili prima) e contemporaneamente emerge tutto l'orrore per quello che ha rappresentato il Fis, l'abominio del fanatismo diffuso, quello ignorante, cieco, fatto di slogan (tipo: "Padania!") ignoranti che però sono legittimati dalle affermazioni degli intellettuali che si trincerano dietro la metafisica per non affrontare la contradditorietà tra religione e scienza; fino a rivendicazioni agghiaccianti come: "La democrazia è un'idea estranea all'islam". Che può anche essere presa in considerazione, se come sostiene Ramadan, "Più l'Occidente dice che Islam è violenza, più il messaggio dell'Islam viene criticato, più si avranno musulmani che, per reazione, addiverranno a una comprensione limitata delal religione. Se qualcosa è meno occidentale significa che è più islamico", ma è inaccettabile se a urlare quella frase sia un invasato sgozzatore, che ha appena rapito la protagonista e il giornalista, il quale quasi sicuramente sottoscriverebbe l'altra proposta di Ramadan, che chiede ai non musulmani una presa di posizione che riconosca la specificità interna alla loro cultura del dibattito sulle riforme. Infatti il vero scontro messo in scena dal film è lo scontro tra bisogni di esegesi nell'Islam e chiusura dei tradizionalisti arroccati sulla difesa di quello che Sofri chiama le loro donne, o meglio la supremazia sul loro corpo. Infatti Hadjadj non rende protagonisti né Fawzi, il giornalista, né l'amico islamista Ramdane, ma al centro pone Asma, lei è quella che più ha da perdere e invece con un coraggio ammirevole immagina che faccia una scelta di speranza: andarsene con la figlia, che persino l'aperto e progressista Fawzi dubita che sia sua figlia e tenta di soffocare il maschilismo connaturato alla società, senza riuscirci. Pure la sua figura, così razionale, pulita, ribelle, viene contaminata dalla involuzione della società brutalizzata dal cieco integralismo, dopo il suo rilascio dal rapimento, muta il suo atteggiamento di contrasto non violento degli invasati e ribellione verso il potere e, preso dalla furia, arriva alla fine a torturare il suo vecchio amico per sapere dov'è Asma.

Certo che comunque anche per Asma nulla è più come prima e tutte le speranze di gioventù sono state spazzate dall'orrore che non è risprmiato in nessun aspetto, senza indulgere in morbosità. La normalità attuale è ambigua: permane l'angoscia e la scelta registica di rappresentarlo attraverso lo specchio in cui si riflette la coppia di progressisti che stanno rompendo il loro rapporto ("Dov'è il Fawzi di una volta?" si chiede e gli chiede Asma), una fine sancita dalla sottrazione delle maschere nel corridoio rimaste a rappresentare tre persone scomparse, travolte dalla storia, seppure ancora vive, diventa messaggio sul presente a completamento di quel passato che assume una tridimensionalità nel momento in cui viene storicizzato (come avviene nel film di Peck). Gli elementi per arrivare a questo passano attraverso l'esplosione del camion nell'attentato sventato all'ultimo minuto, come se gli autori volessero dire che il popolo algerino è riuscito a trattenersi dal cadere definitivamente nel baratro, nonostante le molte decine di migliaia di vittime della follia islamista. Ma anche in quelle immagini televisive inserite nel contesto del racconto come se la Storia emergesse in quel momento per scandire le tappe della trasformazione degli individui, tanto che ora - dopo il perdono concesso da Bouteflika a migliaia di radicali (quelli di Abassi Madani e Ali Belhadj), l'arresto e l'uccisione dei leader del Gia, la cattura di Abderrazak, leader del Gspc - in prossimità della solita amnistia (quegli stessi processi inutili, se non a sancire la fine di un'epoca, come quelli che hanno prodotto altri morti in Rwanda, o ben che vada servono a lunga scadenza a creare una nazione arcobaleno, come con la commissione di Tutu in Sudafrica), i laici progressisti, che avevano tante speranze alimentate da una società avviata al progresso, si trovano svuotati, senza punti di riferimento e defraudati del sogno di una società libera.

L'unico sogno praticabile è quello di un islamista fanatico che uccide, come nel sogno che racconta nella comnità riunita, uno dei dirigenti del Fis, per lotte intestine. Ma in realtà l'unico sogno è generato da un incubo: è quello che consente alle donne una sorta di solidarietà, di crescita, di comprensione: finalmente proprio nel momento di maggior sottomissione forzata, di oppressione prendono coscienza e mettono in atto il gesto di ribellione che riscatta anche e soprattutto la giovane che non ha mai osato alcun gesto, nonostante il film sia punteggiato spesso dalla sua esistenza in contrasto con quella di Asma, positiva e consapevole.

Fama... bontula bela magd di Dalila EnnadreFama... bontula bela magd di Dalila EnnadreFama... bontula bela magd di Dalila Ennadre

E ancora di più testimonianza della opportunità per le donne di affrancarsi da qualsiasi tradizione fallocratica religiosa di qualunque latitudine è la storia di Fama... bontula bela magd realizzata da Dalila Ennadre. Fama è una decisa partecipe alla lotta di liberazione dal colonialismo per il Marocco e poi pasionaria antimonarchica, incarnava l'emancipazione in ogni senso: femminile, dalla religione e dal re, seguita nelle sue giornate nomadi, da un amico all'altro, portandosi dietro le sue poche cose, avendo scelto di non avere una casa propria (la sua djellaba è la sua vecchia casa), una sorta di testimone nomade di come si possa essere stati incarcerati torturati da tutti e non esser mai domi.
E la lucidità estrema di questa donna capace di legare il Vietnam all'Iraq e alla Palestina con il suo destino di ribelle e di memoria storica che ha fatto crescere il movimento studentesco degli anni settanta, mantenendo vive le idee di liberazione e emancipazione. Le idee comuniste e libertarie, portate da lei nei luoghi visitati dalla telecamera: case di ex studentesse e studenti che la ricordano come maestra di lotta, quando dicono alla telecamera, ancora con convinzione: "Si rigettava l'intero sistema. Per noi doveva cambiare tutto"; case ora private, ma allora popolate di partigiani anticolonialisti che lei chiama ancora per nome, spiegando cosa sia avvenuto laddove adesso ci sono alcuni cuscini ammonticchiati, o di un gatto esattamente uguale a quello che vediamo scivolare tra le scale... i canti intonati di nuovo ancora una volta proprio dove ci sono ancora vestigia della frontiera di Pont du Loukkos, alternata alla testimonianza di persone che ricordano la sua attività di "Soccorso rosso" per le famiglie dei resistenti.
Emblematica la frase conclusiva: universale... e per noi italiani sicuramente condivisbile: "Il nostro paese è stato liberato, ma al giorno d'oggi è sotto occupazione degli ignoranti".
Purtroppo una scritta nei titoli finali ci disilludono: non ci sono più donne - e tantomeno uomini - di quella pasta: anche Fama ci ha lasciato pochi mesi dopo la fine del film.

Fama... bontula bela magd di Dalila EnnadreFama... bontula bela magd di Dalila EnnadreFama... bontula bela magd di Dalila Ennadre

Per fare quel tentativo di modernizzazione dell'Islam richiesto dallo studioso ginevrino sono importanti i musulmani che vivono in Occidente, come lo stesso Ramadan ammette, salvo poi dire che bisogna "accettare che una specifica civiltà può solo evolvere dall'interno". Forse sarebbe più corretto dire che evolve dal suo interno ma non può nascondersi i condizionamenti provenienti dall'esterno, come documenta Lahna lalhia, un cortometraggio che in un quarto d'ora riassume il dramma della solitudine di un arabo vissuto sempre in Francia, la cui famiglia è rimasta in Marocco. Quando raggiunge la pensione, viene insignito di un riconosimento di dedizione, ma la sua espressione, gli oggetti della sua casa, le foto che lo tenevano legato al Marocco finché il lavoro lo tratteneva in Europa, perdono consistenza; il suo stesso orgoglio di appartenere alla società che ha servito come netturbino, sfuma nella solitudine dello sradicato che non riesce più a stare in un luogo e non si sente di appartenere più all'altro.

Ancora diverso è il caso del beur che affronta il viaggio verso la Mecca senza essere per niente affatto un praticante, ma semplicemente è costretto ad accomapagnare il padre pellegrino in Le Grand Voyage: la dimensione di viaggio disloca i due protagonisti, li pone come in ogni road movie in uno spazio di confine che è terra di nessuno, non è il Marocco della tradizione paterna e non è la Francia con i nuovi affetti del ragazzo, perché solo lì si possono confrontare i due universi senza prevaricazioni e gli irrigidimenti dell'uno sono rintuzzati dall'altro, fino a riuscire a comprendersi, senza cambiarsi a vicenda, un esempio di tolleranza unico, senza buonismi di facciata.

Paradossalmente, dopo questa cavalcata di situazioni diverse in seno al mondo islamico, si trova invece nel confronto tra i due film sul Rwanda la chiave che mostra la differenza che corre tra il vero Occidentalismo - per quanto pieno di buoniste intenzioni - e il suo uso in chiave autonoma da parte di figli dell'Africa, perché non si può negare che l'uso del mezzo cinematografico più gradevole è quello che fa tesoro della storia di questa tecnica di comunicazione (l'alternativa è il pattume delle produzioni raffazzonate e trabalanti nigeriane), adattandola nelle sue forme espressive alle proprie esigenze: il primo aspetto, che conferisce spessore al racconto al di là della spettacolarizzazione e che fa la differenza tra Hotel Rwanda e Sometimes in April, è la storicizzazione: il fatto che da subito sappiamo che è la ricostruzione di una memoria intenta a sgravarsi il peso nella ricerca di un futuro vivibile senza fantasmi, senza essere assolutorio o consolatorio: elimina la concitazione hollywoodiana e colloca in una dimensione di rimeditazione dolorosa.
Peck, non avendo vip in cast, non ha dovuto studiare inquadrature che esaltassero la plasticità di certi gesti o degli ammicchi: non ha dovuto collocare per forza i suoi attori in una delle due porzioni di schermo in cui il regista irladese divide il campo tenendo sullo sfondo un po' sfocato il resto che esula dal suo personaggio che in quel frangente funge da macchietta. I personaggi di Peck sono reali, plausibili e attraversano gli eventi; quegli eventi che nel film hollywoodiano sono raccontati allo stesso modo ma senza attori, sostituiti dagli stereotipi occidentali sostitutivi, buoni da applicare in tutte le situazioni, quella dimensione che ci fa riconoscere immediatamente la struttura del feuilleton.
Peck è un po' didattico, forse volutamente: tanto che il militare si riconverte in maestro all'inizio del racconto, cambiando la prospettiva e fin dall'inizio sottolinea la arroganza delle forze coloniali di occupazione all'origine dei mali del Rwanda.

adriano boano