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FESTIVAL DEL CINEMA AFRICANO, D'ASIA E AMERICA LATINA - Milano, 2005

SCARAFAGGI IN ESTINZIONE
Due film dedicati al genocidio rwandese

SOMETIMES IN APRIL
(Qualche volta in Aprile)
di Raul Peck
Haiti/Ruanda, 2005

Sometimes in April
Proiettato fuori concorso nella sezione
“Panoramica sul cinema africano”
15° Festival del Cinema Africano, d’Asia e
America Latina (Milano, 14 - 20 marzo 2005)

HOTEL RWANDA
(Una storia vera )
di Terry George
Gran Bretagna/Sudafrica/Italia, 2005

Hotel Rwanda
Toronto International Film Festival
“Premio del pubblico come miglior film”
Festival di Berlino
“Evento Speciale”


“Un film coraggioso che affronta una delle pagine più dolorose della storia contemporanea: la guerra tra Tutsi e Hutu. La storia del genocidio è raccontata attraverso il destino di una famiglia, due fratelli hutu: Augustin che ha disertato le milizie assassine e Honoré che si è macchiato di gravi reati. Per cercare di mettere in salvo la moglie tutsi e i figli, Augustin è arrestato e perde le tracce dei suoi cari. Dieci anni più tardi ricomincia una nuova vita con Martine. Insieme a lei si reca al processo del fratello Honoré che deve rispondere dei suoi crimini di fronte alla Truth and Reconciliation Commission dell’Onu” (dal Catalogo del 15° Festival del Cinema Africano, d’Asia e America Latina, Editrice Il Castoro, Milano 2005, pag. 149).
 


Durante il genocidio rwandese degli Hutu contro i Tutsi, nel 1994, un manager hutu dal cuore grande e buono, Paul Rusesabagina, riuscì a salvare 1268 persone, nascondendole nell’hotel belga a quattro stelle che dirigeva.
Il racconto di questa carneficina etnica, consumata sotto gli occhi indifferenti delle potenze occidentali implicate e dello stesso Onu, che non mosse un dito per fermare il massacro in corso, è affidata alla messa in scena di una storia vera, compreso l’happy end finale, che vede l’ex direttore del Milles Collines Hotel di Kigali, lasciare il Rwanda con la sua famiglia (moglie tutsi, tre figli più la nipote adottata), per raggiungere Bruxelles, dove attualmente abita, impegnato in una compagnia di trasporti con lo Zambia.

Augustin Paul
Moglie tutsi e marito hutu Marito hutu e moglie tutsi

Il film di Raoul Peck, che aveva raggiunto la fama internazionale nel 2000 con la pellicola Lumumba (dedicata all’eroe dell’indipendenza congolese, Patrice Lumumba, brutalmente assassinato, su ordine del governo belga, dopo solo sei mesi di amministrazione per lasciare il posto a Mobutu, che imporrà una tremenda dittatura), inizia con una frase di Martin Luther King, che invita a ricordare non tanto il silenzio dei nemici, bensì quello degli amici, sovrapposta a una cartina dell’Africa, che va man mano a inquadrare il dettaglio ingrandito di una piccola nazione, il Rwanda: incastonato tra la Tanzania, il Burundi, la Repubblica Democratica del Congo e l’Uganda, evidenzia immediatamente la sua mancanza di sbocchi sul mare e la natura di un territorio coperto in gran parte da una savana erbosa.

Il film dell’irlandese Terry George, non finanziato da Hollywood e prodotto con capitali inglesi, sudafricani e dell’italiana Mikado, inizia con voce off su quadro nero di uno speaker radiofonico, che invita la popolazione a stare all’erta e a vigilare persino sul proprio vicino, incitando vieppiù alla violenza con toni farneticanti: “Quando la gente, cari ascoltatori, mi chiede perché odio i Tutsi, io rispondo: leggete la nostra storia. I Tutsi erano collaborazionisti dei colonialisti belgi. Hanno preso le nostre terre, ci hanno preso a frustate. Ora questi ribelli Tutsi sono tornati. Sono scarafaggi. Sono assassini. Il Rwanda è terra degli Hutu. Noi siamo la maggioranza. Loro sono una minoranza di traditori e invasori. Difenderemo il Rwanda. Stermineremo i ribelli del Fronte Patriottico”.

Milizia paramilitare Violenze a Kigali
Addestramento all'uso del machete Scontri di piazza

Una panoramica da destra verso sinistra riprende una vallata aperta sul braccio di un fiume: una sorta di paradiso terrestre che affida in realtà il racconto dell’inferno intestino, che nasconde nel suo ventre naturale, a didascalie (“Fin dall’inizio la conquista fu un equivoco e la scelta coloniale un patto di arroganza e potere”) e riprese televisive, che approdano a un discorso di Clinton, pronto a stigmatizzare - in ritardo sui tempi e dopo il massacro di un milione di cittadini - gli eventi rwandesi, classificandoli non come un fenomeno africano, ma come uno scenario indotto da “altri”, ovviamente senza precisare chi e soprattutto con quali responsabilità.

Una panoramica da sinistra verso destra riprende una vallata aperta sul braccio di un fiume: la location è la medesima del film di Peck, inquadrata soltanto al contrario, quasi a rivelare un’ottica rovesciata nel seguire i medesimi eventi. Lo scenario naturale viene subito abbandonato per immergersi nelle rutilanti strade invase dal traffico di una Kigali densamente popolata, accompagnati dalla musica di Andrea Guerra, Rupert Gregson-Williams e dell’Afro Celt Sound System, che scandiranno le medesime melodie, a tratti un po’ ripetitive e noiose, lungo tutto il film, commentando soprattutto i momenti drammatici, come non fosse sufficiente la colonna visiva.

Strage di adolescenti al collegio cattolico In fuga dall'albergo
Milizia del RPF Caschi blu dell'ONU

Kigali: aprile 2004, in piena stagione delle piogge. “Aprile è la stagione delle piogge, quando il vuoto discende nei nostri cuori e mi ricordo come può finire in fretta una vita e io sono fortunato”.
Peck sceglie di partire dal presente, il 7 aprile 2004, giornata della memoria nazionale e triste decennale, che porta il protagonista Augustin a ricevere una lettera del fratello, in attesa di essere processato dal Tribunale Internazionale di Arusha per le sue implicazioni nel genocidio, che lo invita ad andare in Tanzania per conoscere finalmente il vero esito della scomparsa di sua moglie e dei figli, che non riusciranno a mettersi in salvo presso l’albergo delle Mille Colline e quindi non ebbero la fortuna di conoscerne il coraggioso direttore.
La missiva fraterna offre l’occasione per rivisitare il “genocidio dei 100 giorni”, quelli bastati agli indisturbati nazionalisti Hutu per perpetrare una delle carneficine più sanguinarie e ambigue del neocolonialismo degli ultimi decenni, messo in scena nella sua scarna ricostruzione, senza indulgere a risvolti melodrammatici o a rappresentazioni di stampo hollywoodiano (neppure miscelando tutti i generi, come fa George, che mescola senza soluzione di continuità tragedia, thriller, sentimentalismo e persino un po’ di western…), bensì alternando il passato con il presente, affinché le necessarie verifiche future possano diventare meno incerte.

Kigali: aprile 1994, in piena stagione di pioggia del sangue versato dalle vittime del massacro.
George preferisce partire e rimanere nel passato, quel famoso aprile 1994, quando iniziò la carneficina, che si susseguì cruenta per alcuni giorni, che è utile sintetizzare nella loro cronologia essenziale, allo scopo di comprendere le coordinate storiche, a cui il film presta poca attenzione, concentrandosi sulla disamina di una storia particolare:
6 aprile 1994: l’aereo che trasporta il presidente Habyarimana viene abbattuto nei pressi dell’aeroporto di Kigali. Si sospetta che l’attacco sia stato compiuto da estremisti convinti che il presidente stesse per ratificare accordi di pace ad Arusha. Quella notte segna l’inizio del genocidio.
7 aprile 1994: le forze armate del Rwanda (FAR) e l’interahamwe (“coloro che sono uniti”, ossia la milizia paramilitare) approntano blocchi stradali e vanno di casa in casa, uccidendo Tutsi e politici Hutu moderati, mentre le forze dell’ONU rimangono inermi in attesa, svolgendo il loro ruolo di “osservatori”.
8 aprile 1994: il Fronte Patriottico Rwandese (RPF di matrice tutsi) lancia una controffensiva su vasta scala per porre termine al genocidio.
21 aprile 1994: le Nazioni Unite riducono il loro contingente da 2500 a 250 uomini. Il primo ministro viene ucciso, i soldati belgi che lo scortavano vengono torturati e fatti, anche loro, a pezzi con il machete.

Hutu estremisti e moderati Hutu estremisti e moderati

Il fratello Honoré, speaker della radio che curiosamente si chiama come l’albergo dove lavora Paul, Mille Colline, sfrutta la sua posizione pubblica per istigare e incitare i fratelli Hutu alla violenza nei confronti dei Tutsi. I proclami urlati sulla modalità di frequenza sono inequivocabili: “Gli scarafaggi possono solo cercare altri scarafaggi, ma occorre loro tagliare le teste. Anche gli insegnanti che si rifiutano di registrare gli studenti in base al gruppo etnico commettono una grave infrazione e vanno perseguiti”.
La radio gestita dalle frange estremiste è presente in entrambi i film, dove esercita il suo potere di influenza sui comportamenti e sull’opinione locale, ma in Sometimes in April assume uno spessore autoriale maggiore, venendo a rappresentare un’entità autonoma, quasi una sorta di testa pensante dominante, capace di annidare la sua voce perniciosa all’interno della coscienza collettiva della gente che l’ascolta.
Augustin è un militare arruolato nella Far, ma si trova anch’esso iscritto d’ufficio nelle liste di proscrizione, per le sue posizioni moderate, per essersi sposato con una donna Tutsi e anche per la sua scelta di iscrivere la figlia maggiore in una scuola cattolica, pensando di proteggerla e al contempo farla educare in un contesto ispirato a valori diversi. La sua condizione di soldato lo porta a rendersi immediatamente conto della gravità della situazione locale, resa ancor più recrudescente dall’addestramento in massa di civili, dotati dalle potenze straniere di ingenti quantità di affilate armi da taglio (il machete), con le quali tagliare la testa agli inermi cittadini del Rwanda. Eppure la sua consapevolezza non riuscirà a calcolare in maniera esatta né i tempi, né tanto meno i soggetti, a cui affidare la famiglia, per tentare una via di fuga da quell’inferno. D’altra parte Augustin non dispone di soldi con cui corrompere la milizia, né ha rapporti con gli osservatori stranieri, persino la chiesa cattolica non garantisce sicurezze: ha solo un fratello, invasato conduttore di fanatiche trasmissioni radiofoniche, cui chiedere aiuto, quando proprio non resta altro da fare!

30 aprile 1994: la risoluzione finale del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite esprime la sua condanna per le uccisioni, senza menzionare però la parola “genocidio” (su imposizione dell’amministrazione degli Stati Uniti), per non dover incorrere nell’obbligo legale di intervenire per fermare e punire i colpevoli.
Nel frattempo decine di migliaia di profughi fuggono in Tanzania, Burundi, Uganda e Zaire.
Paul Rusesabagina è uno di questi e lo vediamo attraversare il confine, mentre l’avanzata dell’RPF procede in senso contrario.
La storia del direttore si sviluppa lungo un breve, ma intenso, arco temporale, lasciando solo al presente un’attenzione marginale, ma il lieto fine, seppur imbarazzante, è autentico: Rusesabagina vive, come i mille cittadini che ha aiutato a salvarsi da quel che l’opinione pubblica internazionale osò giudicare come un semplice “conflitto tribale”, ma il suo Rwanda appare ancora oggi molto meno vitale, nonostante l’avvio della riconciliazione nazionale.
Di questo ne è consapevole il vero Paul, che si sente meno eroico e decisamente più modesto dell’attore   che lo interpreta sullo schermo: “Tutto il mondo, allora ci ha abbandonato colpevolmente, forse perché nel Ruanda non c’è petrolio. La comunità internazionale non ha ascoltato i nostri appelli: duemila soldati americani dopo poco mollarono la presa lasciando la gente indifesa a un eccidio furibondo, il più veloce dell’era moderna, che  i media quasi non fecero in tempo a registrare e in cento giorni uccise un milione di persone. Oggi i massacri, i genocidi si sono spostati nel Sudan, in Congo, in Ciad, ma la verità è che l’Africa si deve salvare da sola.  Si cerca di favorire il perdono, ma è una spinta che viene dall’alto, un po’ istituzionale. Bisognerebbe invece invogliare la gente a sedersi e a parlare, tutti insieme, i vincitori che oggi hanno in mano il potere e gli sconfitti che restano intimiditi”.
Quelle pronunciate da Paul sono parole sacrosante, ma al momento la nazione “hu-tsi” che lui si auspica è ancora al di là da venire!

L'attesa Al lavoro

Augustin non sa ancora oggi che spiegazioni dare agli eventi accaduti dieci anni prima, non riesce a riconciliarsi con il passato, né tanto meno a perdonare il fratello, che non ha potuto, nonostante le influenti conoscenze e la rispettabile posizione pubblica, garantire la salvezza alla sua famiglia. Sa invece consegnare le responsabilità a tutti gli attori coinvolti in quella faccenda, condannando il ruolo svolto dall’Onu, preoccupato solo di evacuare gli europei in zona, e denunciando persino la spaccatura che si venne a creare all’interno della chiesa cattolica, quando i religiosi e i missionari stranieri furono costretti a fuggire, mentre solo la chiesa locale rimase a difendere i poveri scarafaggi, compresa la figlia, che diede prova di coraggio e solidarietà, rifiutandosi di dividersi dalle compagne dell’altra etnia, quando le truppe estremiste invasero il collegio, lasciando dietro di sé l’ennesima carneficina di creature innocenti.
L’Augustin del 2004, abbandonata la divisa militare per dedicarsi all’insegnamento, appare congelato in un gesto irrisolto, quando la sua mano si contrae per stritolare la lettera del fratello, ma le dita non arrivano a stringere e il pugno resta solo abbozzato.
Sia lui, che soprattutto Martine, la sua nuova compagna, ex-insegnante della figlia, non potranno più cancellare l’orrore dalla loro memoria, fa parte ormai della loro storia e di quella del popolo rwandese, e saranno costretti a riviverne gli incubi, che si ripresentano puntuali come la pioggia di ogni aprile.
Il tempo non rimargina le ferite, come il tribunale non riporta in vita coloro che sono stati massacrati dai criminali di guerra (alcune condanne all’ergastolo furono inoltre pagate con la vita di buona parte di coloro che accettarono di testimoniare: ennesime vendette tardive), eppure il film lascia aperta una debole speranza, un timido tentativo di ricominciare a vivere per dare una possibilità alle nuove generazioni, che hanno diritto ad avere dei genitori, meglio ancora se buoni maestri. E proprio questa prospettiva viene condivisa da entrambi i film.

Rusesabagina sa sempre come comportarsi con discrezione, d’altra parte è stato educato all’estero: ha studiato in Belgio, conosce le lingue, è vestito in maniera inappuntabile, è capace di adulare la persona giusta al momento giusto, di pagare le tangenti con i soldi Sabena (la compagnia belga proprietaria dell’immobile), per ottenere le bevande e i cibi migliori per la clientela internazionale del lussuoso albergo, di cui è direttore. Non perde mai le staffe, neppure di fronte all’eccezionalità dell’orrore, è persino ingenuo al punto da credere che le riprese del genocidio fatte da un giornalista americano saranno così forti da scuotere l’opinione internazionale, nonostante l’operatore lo metta in guardia, dicendogli: “La gente accenderà la televisione, vedrà le immagini e dirà Che orrore!”. Il suo mondo di certezze vacillerà solo quando si renderà conto di essere stato abbandonato da quel mondo esterno alla sua nazione, tradito proprio dai governi colonialisti che gli avevano creato quell’identità fasulla, e allora… le sue mani non riusciranno più a fare il nodo alla cravatta, fatta e disfatta più volte, e si metteranno a tremare, per poi gettare via quell’indumento alieno alla sua cultura. “Mi dicevano che ero uno di loro e…io… vino, cioccolatini, sigari, stile. Io l’ho bevuta. Mi sono bevuto tutto e mi hanno rifilato le loro cazzate. Io non ho… non ho una storia, non ho memoria, sono un idiota”.
Il disincanto repentino diventerà sempre più consistente, quando verrà meno la sua fiducia nella missione di pace dei caschi blu per conto dell’ONU: allora capirà che dovrà trovare da solo una soluzione per salvare i mille profughi, che ha accettato di ospitare nell’albergo, dapprima malvolentieri, dopo di buon grado anche grazie all’insistenza della moglie, e lo farà approfittando proprio del ruolo che ha assunto e soprattutto del capitale a disposizione dell’albergo. Il primo gli servirà per convincere il presidente della Sabena a far pressioni sui primi ministri europei, il secondo per corrompere il generale Bizimungo, ricattandolo con la minaccia di non aiutarlo, quando gli americani lo accuseranno di essere un criminale di guerra.

La rivelazione Il disincanto

BREVE STORIA DEL RWANDA
Il Rwanda ha una lunga e complicata storia alle spalle, ma come per tanti altri paesi africani, se ne sono ormai perdute le tracce. Fino al 1880 il Paese praticamente non esisteva neanche come entità politica: l’area era un agglomerato senza confini nel quale convivevano due etnie principali, gli Hutu e i Tutsi. I Tutsi erano ricchi proprietari terrieri e allevatori di bestiame, giunti nell’area oggi conosciuta sotto il nome di Rwanda tra il XIV e il XV secolo. A quell’epoca gli Hutu vivevano già nella zona e la loro popolazione era di gran lunga superiore in termini numerici rispetto a quella Tutsi. Ciononostante la minoranza Tutsi riuscì con il tempo a sottomettere gli Hutu, governandoli con un sistema che si ispirava ad una sorta di monarchia feudale. Tale divisione etnica andò avanti senza troppe tensioni per centinaia di anni. Nel 1894 i primi occidentali giunsero in Rwanda e nel 1899, senza alcuna resistenza da parte degli abitanti locali, i Tedeschi trasformarono il Rwanda in un protettorato che entrò a far parte dell’Africa Orientale Tedesca. Durante la prima Guerra Mondale, l’esercito belga, di stanza nel vicino Zaire (l’attuale Repubblica Democratica del Congo) assunse il controllo del Rwanda. Dopo la guerra, questo controllo venne consolidato dalla Lega delle Nazioni che affidò al Belgio un mandato territoriale su “Rwanda-Urundi”, una zona che comprendeva l’attuale Rwanda e il Burundi. Nel governare il nuovo territorio, le autorità belghe si servirono dell’esistente monarchia Tutsi per tenere sotto controllo la popolazione, ma così facendo esacerbarono le differenze già istituzionalizzate tra le due etnie. Il dominio belga e il trattamento di favore riservato ai Tutsi – che spesso relegavano gli Hutu ai margini della società – crearono enormi tensioni all’interno del paese, che esplosero dopo la Seconda Guerra Mondiale. Negli anni Cinquanta il governo belga cominciò a seguire la via delle riforme, per tentare di risolvere gli innumerevoli problemi che affliggevano il paese e insediare un governo democratico, ma i tradizionalisti Tutsi si opposero. Allora i Belgi incoraggiarono la rivolta degli Hutu che nel 1959 cacciarono i Tutsi dal potere. Nel 1962 si tennero delle regolari elezioni, che portarono alla vittoria della maggioranza Hutu e all’indipendenza dal Belgio. Nei primi anni di indipendenza l’inefficienza del sistema e la corruzione dilagarono nel paese e nel 1973 il generale Juvenal Habyarimana, di etnia Hutu, organizzò il colpo di stato, assumendo il controllo del paese, diventando un dittatore e bandendo qualunque attività politica tranne quella del suo partito. Habyarimana governò il paese con il pugno di ferro fino a quando dovette piegarsi alla volontà delle Nazioni Unite, che lo costrinsero ad attuare delle profonde riforme per il bene del Paese. Nel frattempo un gruppo formato soprattutto da ruandesi Tutsi in esilio diede vita al Fronte Patriottico Ruandese (RPF) e invase il Paese partendo dall’Uganda, dando inizio alla guerra civile. I negoziati di pace vennero formalizzati dall’Accordo di Arusha nel 1994, con la promessa di adottare delle riforme democratiche. Il 6 aprile 1994, rientrando in Rwanda dopo aver partecipato alla firma degli accordi di pace, il generale Habyarimana e il presidente del Burundi vennero assassinati in un incidente aereo causato dai membri del loro stesso partito, che però accusarono i Tutsi dell’attentato. Quella stessa notte cominciò l’esecuzione pianificata da tempo degli alti funzionari Tutsi e degli Hutu moderati. Nei tre giorni che seguirono, tutti i funzionari Tutsi e tutti gli Hutu moderati vennero sistematicamente giustiziati, ma le violenze non si fermarono. Bande armate di una milizia Hutu conosciuta con il nome di Interahamwe scorrazzavano per il paese, e il numero delle uccisioni crebbe in maniera esponenziale: il massacro andò avanti per tre mesi senza che nulla o nessuno lo fermasse. La Croce Rossa ha stimato che in quei tre mesi vennero uccise centinaia di migliaia di persone, quasi tutte a colpi di machete. In quello stesso periodo le Nazioni Unite ridussero il loro contingente di pace di stanza nel paese da 2500 a 250 soldati. Alla fine l’RPF invase di nuovo il Paese penetrando dall’Uganda, riuscì ad avere la meglio e nel luglio del 1994 mise fine al genocidio. A quel punto, la maggior parte degli estremisti di etnia Hutu fuggirono nello Zaire. Durante il genocidio persero la vita circa un milione di persone e più di tre milioni furono costrette a fuggire, causando la peggiore crisi di rifugiati mai conosciuta.
(Documento ricavato dal Quaderno di approfondimento, curato dall’Associazione Centro Studi Formazione Superiore di Milano, che contiene numerose proposte di analisi, rassegne stampa e itinerari didattici dedicati al film Hotel Rwanda, distribuito in occasione della proiezione offerta gratuitamente ai docenti dalla Mikado, con il patrocinio di Amnesty International, in collaborazione con il Museo Nazionale del Cinema di Torino).

La fuga disperataGenocidio efferato

paola tarino