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Documentario di creazione: quando oscilla
tra letteratura, inchiesta e analisi storica
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Nostos: quando la letteratura alta permette un affresco storico
e una possibile descrizione della attualità

La Strada di Levi, di Davide Ferrario e Marco Belpoliti


Ragazzi molto svegli, persone che hanno subito la guerra e a 16 anni si sottraggono a essa con un lungo e disagevole viaggio, avvalendosi di mezzi di (s)fortuna; a ogni tappa una realtà nuova a cui adattarsi, un lavoro per pagarsi l'altro pezzo di viaggio... il percorso che coprono corre parallelo a quello de La Tregua, solo a una latitudine un po' pi_ meridionale e... l'altra differenza è che la guerra prosegue non solo dentro di loro (come per Primo Levi la lotta contro il silenzio e la distrazione della comunità grigia), ma reale: coloniale e predona da un lato, fondamentalista e oscurantista dall'altro. Sono i giovani afgani in fuga; la strada _ uguale, la meta coincide (Torino, Italia), i tempi sono identici - biblici; l'intento è opposto: Levi stava inseguendo un Nostos doloroso e curioso, riemergeva alla vita, si riabituava al mondo, attraversando luoghi e situazioni sconosciute per tornare a casa; i ragazzi afgani si muovono tra l'Asia e l'Europa sudoccidentale per allontanarsi da casa. In entrambi i casi scampano all'orrore.


Questa è la prima intuizione evidente di Ferrario: allontanarsi dal più emblematico orrore dell'epoca che si sta vivendo. Infatti significativamente gli autori collocano l'immagine simbolica in un luogo lontano, apparentemente estraneo al plot, invece Ground Zero è simbolico e soprattutto si confonde attraverso un passaggio molto lasco con le immagini successive di Auschwitz, non per assimilazione visiva, ma per identica dimensione di tragedia epocale (nonostante i numeri abissalmente diversi). Un approccio accentuato dalla presenza del primo cartello: "Auschwitz - La Memoria", gli autori dunque privilegiano fin da subito quest'aspetto rammemorante: il ricordo può congelare un evento, la memoria invece lo rinnova interpretandolo. Ripercorrere la visita al lager può apparire una rammemorazione rituale come nel caso del "ricordo", che in genere risponde a esigenze ideologiche (ricordare le foibe dei titini, ma non quelle dei fascisti negli anni Venti o l'infame pulizia etnica italiana nei balcani o in Africa, ad esempio) o retoriche (la trappola veltroniana in cui è cascato Calopresti, proprio seguendolo ad Auschwitz per collazionare un quadretto edificante), invece vira immediatamente verso l'interpretazione non banale, perché attualizzata e arricchita di testimonianze odierne, se il viaggio a ritroso di Levi viene preso a pre-testo (gli autori non tornavano a casa, seguivano orme e riconoscevano tracce) ma il sotto-testo non lo è, diventando occasione di scovare proprio nel testo - e tornarvi alla fine - i prodromi per capire come la pulsione di Primo Levi verso a comporre La Tregua rispondesse allĠesigenza di rinascere, riemergere dai "salvati" dopo essere scampato ai "sommersi", proprio come la Storia di quelle Nazioni viene attraversata dalle "storie" emblematiche di individui, raccontate nei posti in cui si compiono o si sono compiute; fin dall'inizio gli autori collocano le testimonianze negli unici luoghi in cui possono essere raccolte, non sono solo sfondo, come apparentemente è il lunotto posteriore dell'auto che ospita Wajda.

Ferrario ci aveva raccontato, quando a Documè (rassegna di documentari che si tiene ogni anno a Torino al Cinema Baretti) era venuto a presentare Comunisti, che durante la lavorazione di questo film tratto da Levi si era portato un libro dal quale estrapolava stralci che leggeva alla troupe nei lunghi spostamenti ferroviari - e non solo - che punteggiavano le riprese: i luoghi si fondevano bene con quelli intravisti dal finestrino e l'epoca si coniugava con quella di Levi. Si trattava della storia di due donne torinesi, madre e figlia comuniste, separate dalla Storia e che avevano vissuto le tragedie del Novecento divise, pur militando dalla stessa parte, perché la madre era stata costretta a fuggire in Urss nel 1923 con molte speranze che finirono per infrangersi alla fine degli anni Trenta contro le purghe staliniste che colpirono duramente la militante bordighista, costringendola a scontare anni di GULag, da cui riuscì a tornare con le sue forze (e senza il minimo appoggio di Togliatti) solo a fine anni Cinquanta... un altro Nostos ancora più amaro e alla fine della esistenza, privo di ogni speranza. Ma soprattutto anche in quel caso una riemersione dall'inferno della costrizione e dell'annullamento della persona; ancora più crudele perché quel processo era accettato dalla vittima, provenendo dai compagni di ideale, mai abiurato.


Una seconda intuizione degli autori è quella di escludere ogni giudizio sulla condizione attuale in relazione a quella precedente o a quella dell'epoca in cui Levi transitò di lì; piuttosto le flebili tracce di cosa può aver visto (o scritto di aver visto nel testo che scorre con la voce di Umberto Orsini lungo tutto il film) sono registrate come immagini anonime, in fondo seguendo l'impressione di Levi, che appariva poco coinvolto da quello che circondava il suo sguardo analizzante, da chimico. La restituzione di questa sensazione è stata resa possibile dalla netta divisione nella gestione tra le molte - e splendide - immagini di repertorio e l'attualità registrata, magari con pungente ironia, più spesso con il gusto cronistico di fare il punto sulla composita e spesso per noi incomprensibile realtà di quelle nazioni, nel loro paesaggio punteggiate ancora di tracce di storie totalmente incongruenti con l'attualità. Ciò che stupisce maggiormente è quanto le immagini quotidiane riescano a fare da illustrazione allo spirito del testo di Primo Levi, accomunandosi a quello a distanza di tempo e con situazioni molto differenti; in fondo i due autori finiscono con lo scoprire che il passaggio della Storia è drammatico, ma non travolge le resistenze del genius loci, che torna a riprendere il suo territorio e a disegnare facce e gesti non appena passa la buriana.
La terza intuizione è quella di avvalersi dei vecchi, finché esistono ancora anziani che hanno qualcosa di non retorico da raccontare: testimoni eccezionali che possono fare da guida e indicare percorsi utili da percorrere incontrando altri testimoni diretti della propria esistenza. Si comincia con Andrzej Wajda e si conclude con Rigoni Stern, amico questo di Levi per affinità di esperienze e rifiuto degli orrori vissuti, mentre il regista dell'Uomo di marmo è una congruente figura con l'aspetto più legato alla prima nazione attraversata all'uscita da Auschwitz: "Polonia - il lavoro". Entrambi sono monumenti viventi utili per stemperare l'apodittica imponenza dei colossi (coi piedi d'argilla), vestigia di un regime, inquietanti anche perché ormai avulsi dal paesaggio in cui campeggiano e consentono per contrasto di vedere volti scavati di contadini che invece la fotografia del film non fa fatica a collocare nel contesto naturale (e lo coglie anche il commento degli autori, pronunciato direttamente da loro, conferendo un altro nastro di considerazioni che scorre lungo il film). Dovunque i monumenti attirano l'obiettivo, ma solo per diventare enormi punti interrogativi abbandonati all'orizzonte, riproponendo la domanda: "Dov'è finita quella prosopopea, quella certezza esibita?" (quel megarecit avrebbe detto Lyotard). Una prima risposta proviene da Wajda, o meglio dalla fabbrica: "l'officina è un cadavere vivente"... e così anche la classe operaia polacca tanto vagheggiata e celebrata da quei monumenti, tanto esaltata nel momento in cui Solidarnosc era utile per abbattere il regime e poi dimenticata da un papa (che fu sì operaio ma per un tempo troppo breve, si vede) troppo occupato a sconfiggere il comunismo, temibile per la sua retriva idea di Chiesa, per dare una vera speranza che non fosse la stantia tradizione religiosa. Ecco, Ferrario e Belpoliti non si lasciano sfuggire gli sguardi spenti, i gesti lenti e senza stimoli di quella classe operaia sconfitta e accantonata, messa a riposo in stanzoni spogli, mense e ritrovi squallidi, disamorata del lavoro (altro che gli stakanovisti eroi degli spezzoni d'archivio alternati in modo pregevole e anche con gusto della con-divisione dello schermo) che si accontenta di "guadagnare poco senza grosse pretese", come dice un intervistato, replicando il giudizio impietoso di una giovane operaia, la quale ricorda ancora la retorica operaista, ma stenta a riconoscerla nella vecchia generazione di lavoratori... indecisa se dispiacersene o guardare avanti.
In questa terza intuizione è interessante proprio l'uso che gli autori fanno dei repertori da contrapporre alle interviste, degli slanci statici dei monumenti (che sembrano essere bloccati dalla loro stessa mole nello sforzo plastico di proiettarsi dinamicamente nel futuro radioso e progressivo) da affiancare alle analisi pacate di Wajda, concludendo amaramente e con l'ironia che contraddistingue tutto il viaggio in pellicola, dando notizia del "communism tour" proprio a Nowa Huta, con tanto di Trabant.

Ma prima di lasciare la Polonia non bisogna valutare come peregrina la notazione degli autori che con il mito socialista del lavoro, la reorica dello stakanovista e del "saper fare" si era tentato di trattenere lo spirito tzigano, "proponendo" ai roma di stanziarsi e lavorare in fabbrica... quegli stessi che avevano seguito lo stesso destino degli ebrei senza avere poi alcun risarcimento ai danni degli arabi. Si era tentato di abbindolare i perseguitati, rendendoli liberi un'altra volta attraverso il lavoro nelle fonderie. E questo è un altro segno, un'altra traccia delle infinite strade seguite dai due autori, che tendono a non concluderne alcuna per non apparire come quelli che hanno la verità in tasca e la fabbricano (com eha fatto De Seta nell'ultimo lavoro retorico e non sentito, ma realizzato per dimostrare didatticamente un assunto che lui aveva elaborato); il risultato sono flash che scoperchiano un mondo anche di lavoro, e poi, senza richiudersi, lasciano allo spettatore di elaborare il percorso.

"Ucraina - l'identità" Igor Bilozir incarna dalla lapide - un'incarnazione gelida e pietrificata, che non rompe con il passato che ha sempre avuto bisogno di raggelamenti fossilizzati e annichiliti - la reazione dal basso di chi si contrapponeva al potere e che è assurto a simbolo, uno dei tanti eroi involontari sconosciuti all'Occidente e su cui si va creando una nuova retorica. E infatti il montaggio sottolinea il tribuno che aizza la folla con argomentazioni nazionaliste. Lo registriamo, comprensivo di sgradevolezza e vacuità (forse estendibile alle manifestazioni dei movimenti dell'est europeo, epidermicamente non attraenti come invece poteva essere la Primavera di Praga: c'è qualcosa di reticente, di poco chiaro), ma poi la sensazione si fa più forte: la glaciale, essenziale e marmorea ambientazione della stanza in cui incontriamo la vedova, introdotta dal testo di Levi che ricorda le donne yiddish che gli nega appartenenza a una comunità ebraica perché non sa parlare la loro lingua, unico passaporto riconosciuto per far parte dell'ebraismo, come anche per l'algida donna ammantata di dolore, che bianchissima si staglia sull'ambiente scuro con l'indice puntato come un taliban a pontificare... ecco, un elemento che risalta nel montaggio e nelal scelta degli autori fatta sulle immagini girate è quella di estreme certezze senza spazi per ascoltare le verità altrui... atteggiamenti non censurabili a priori, peccato che siano ammantati proprio di quell'ideologismo che si vorrebbe dimenticare e che invece ha impregnato le culture e gli individui cresciuti sotto il regime: come in Italia la fine del regime fascista non ha necesariamente comportato la fine della sua retorica e dei suoi modi espressivi, ancora oggi ben vivi.

Può sembrare facile inserire campi con dominanti rosse che sfuggono verso la sinistra del quadro, contrapposti immediatamente ad altri spediti a destra con forte connotazione gialla, ma il passaggio non è indolore, perché conduce al nodo ferroviario verso Odessa. I resti del GULag di Novograd e la terra di nessuno verso la Bielorussia, un paese da operetta e fuori dal mondo, ma anche in miniatura un posto che ricalca la inetta ferocia del regime che in tutto il film rimane sullo sfondo, un'ombra che nel testo di partenza si allungava su quelle terre e nel film in fieri avrebbe dovuto essere il passato.


Già la prima statua di Lenin sembra una felice e canzonatoria citazione da Goodbye, Lenin, ma l'intera Bielorussia è una via di mezzo tra un paese da operetta costellato di questi monumenti inutilmente imponenti per la prosopopea e ridicolmente congelati in un'epoca passata. La sensazione devia su un tono retorico, già anticipato dall'uso dell'enorme dipinto incensante la resistenza antinazista, ma quella retorica è mitigata dal racconto dell'anziana che rievoca la partenza del marito, che non tornò: questa sequenza si inserisce bene nella filmografia di Ferrario, nel suo materiale resistente e ricorda un po' - anche negli intenti didattici - un film di Gerima, Adwa: anche lì la cinepresa scorre sulla tela, rivelando particolari, con un commento affidato a una voce off; la sequenza è utile anche per non tralasciare nessun aspetto di quelle terre visitate dal pellegrinaggio sulle orme di Levi. Evidentemente ai due autori preme continuare ad altalenare passato e presente, cercando continuità e differenze, ma soprattutto usano tutti i modi espressivi offerti dal linguaggio cinematografico per restituire ciò che per loro è stata l'essenza riscontrata nel viaggio. Probabilmente la Bielorussia è una nazione semplice, grezza, particolarmente orgogliosa della propria liberazione dal giogo nazista, un'epopea celebrata con i monumenti (quello al carro armato, addirittura) e la sensibilità dei due italiani è subito colpita dalla profusione di retorica, ne sono sommersi, probabilmente il peso di quelle figure titaniche e il senso di soffocamento sono insostenibili: l'unica forma per trasmetterla è il modo di riprendere quelle statue, dal basso, inserendo gli umani intervistati tra i piedi di quei colossi del Memoriale (appunto: la memoria diventa gesto imprigionato in un'epoca passata, ma per ragioni imponderabili ancora lì nel presente, in modo incoerente), riuscendo a far provare il senso di oppressione di come evolvette il regime, dopo quella lotta partigiana illustrata altrettanto staticamente con l'enorme afffresco (sintomatico che nelle altre nazioni il montaggio si avvalga di filmati d'archivio, mentre qui tutto risulti come congelato, ma depurato dei sentimenti, nemmeno il terrore è rimasto).

Non si può provare timore per una burocrazia che ormai non è nemmeno più inflessibile, non perché si sia resa conto di quanto risulti ridicola, ma per assenza di disposizioni univoche: quando interviene il Responsabile Distrettuale per l'Ideologia i due autori vengono arrestati e rilasciati in pochissimo tempo - meno che in un cpt nostrano sicuramente - e poi la presenza del commissario politico è più di imbarazzo per lui che per la troupe che si diverte e lo dileggia: qui scatta la parodia e allora si adotta l'esilarante comica, modulata sugli stereotipi del cinema muto, quel realismo socialista di cui si impregna poi anche la discussione sulla convenienza del kolkoz e sulle differenze con il sistema che affida ai privati le coltivazioni.

Quello spezzone in bianco e nero si può inscrivere correttamente nel resto del film, perché esistono gli altri contributi d'archivio che preparano il terreno, inoltre è realizzato con stile e parodiando la maniera senza esagerare, non lasciando dubbi sulla autenticità, ma realizzandolo in modo che è riconoscibile la forma - realista socialista - e il contenuto - l'odierno sarcasmo.



"Ucraina 2 - la peste".
Il film è composito non solo perché mantiene un legame stretto con il pretesto testuale di Levi e contemporaneamente interpella testimoni famosi o sconosciuti per restituire un'idea di realtà delle repubbliche ex sovietiche, quella degli autori, ma usa lo stesso approccio per rievocare, nel ventennale, la catastrofe di Chernobyl. Dopo una panoramica agghiacciante per la sua desolata classicità, che spazia su tutta la grande piazza di Prypiat, ci viene ammannita subito la testimonianza di un cittadino di Prypiat, il cui bambino (nato il 23 marzo del 1985) è stato adottato da italiani, era radioattivo con valori superiori a cinque volte il normale. Calcolato il passaggio traumatico dalla comicità bielorussa alla tragicità radiattiva: il film non si nega nulla, ogni registro viene adottato ma in modo leggero, ottenendo un effetto di completamento del quadro anche attraverso i diversi modi di raccontare e non solo per l'esaustività degli argomenti affrontati (sicuramente non in modo esaustivo o approfondito, ma accennandoli tutti). Per questo spezzone non mancano le riprese "giuste", agghiaccianti da antologia, che non potrebbero essere diverse, perché sono quelle che ci si aspetta, come l'ultima che vede il triste testimone ripreso di spalle, su una panchina di un parco-giochi abbandonato e vuoto, dopo che ha raccontato della "fortuna" del figlio adottato e della sua irrevocabile solitudine radioattiva: non poteva essere diversa, né la luce, né il taglio, né l'immancabile spezzone d'archivio. E nemmeno il tocco lieve, e pesantissimo a un tempo, della statua a Prometeo non fa che creare un legame con il chimico Primo Levi, che di nuovo funge da vate, preconizzando la rovina. E pervicacemente gli autori collocano il brano a ridosso del reattore, ottenendo per l'ennesima volta il cortocircuito tra testo pre-testo e immagini registrate ricercato in ogni sezione del film.
Non mancano siparietti quasi folkloristici, per fortuna limitati, ma utili per condensare le epoche in un'immagine unica senza tempo, dove potrebbe comparire un Primo Levi giovanissimo (non con la faccia di Turturro) sulla groppa di un cammello bakhtriano a Kazatin, ora, magari diretto al ponte di Divistar. Esiste questa componente (forse desunta dai lavori con i Csi) di eterno "spiritus loci" a cui non ci si può sottrarre ed è fatto anche di facce, di gesti atavici, di mezzi di trasporto approssimativi, di ritmi legati ai campi, di carri trainati da animali: un'inamovibile civiltà contadina.

"Moldavia - l'emigrazione" e "Romania - nuovi orizzonti"
E qui l'autobus denuncia un'altra prassi formale del montaggio che mira a rendere unitarie le terre attraversate e descritte da Levi: ormai il viaggio volge al termine e quell'autobus di migranti è summa e legame con le immagini appena viste nella repubblica precedente. Si tratta anche della svolta del viaggio del giovane ebreo che torna a Torino: quell'autobus copre ora i 2350 chilometri senza fermate e porta migranti nelle nostre case, direttamente qui a Torino, a fare le badanti o tutti gli altri innumerevoli lavori che il film lascia immaginare tra le interviste alle donne stanche di lasciare i figli in patria e svuotate di speranze per loro stesse, come le rumene che immediatamente dopo completano il capitolo sul lavoro astenendosi dal commentare i padroncini che sono andati a sfruttarle con un'azienda dal nome canzonatorio: "Nuovi Orizzonti" (le ragazze sembrano provare nostalgia per il periodo comunista;feroce l'accostamento tra questi orridi parvenu del nordest e gli italiani incontrati da Levi nel suo handkiano lento ritorno a casa: ricchi e un po' fasci, con la puzza sotto il naso.
Appunto, il lavoro è l'altro tema topico dei film di Ferrario che non poteva mancare: lo troviamo all'inizio, con le lotte sindacali polacche e la fine della fabbrica e di quella classe operaia, rimane sullo sfondo per tutto il film e poi ricompare precarizzato alla fine: un percorso programmatico preciso e che accomuna non solo quel territorio ma anche l'intera Europa della direttiva Bolkestein.
Non mancano i minatori della Transilvania o i barcaroli del Danubio che di nuovo riconducono ai mestieri della tradizione, che anche Levi non può non aver incontrato e che sono il vero motore di quelle nazioni, anche se non sono più il motore delle loro economie.

Avvicinandosi a Torino si intensificano le immagini di Levi, della sua casa, della città... e con lui aumentano i riferimenti alla sua ossessione. I nazi.
"La nuova vecchia Europa - da Budapest a Monaco"
Luci da un lato, quello del cimitero di statue comuniste, e nebbia, la stessa metafora di Resnais: Nuit et bruillard. La troviamo nei cervelli di giovani adepti dell'Npd, ben ripreso dalla operatrice Anna Crotti, trapiantata in Germania da quelal stessa Torino di Levi: a Braunau am Inn nelle certezze di quei mostri nazisti,inquadrati sempre un po' dal basso a sototlineare la loro arrogante superiorità, si comprende il suicidio dell'anima di Levi, incapace di poter caccaire quelli che non sono fantasmi, ma persone pronte a ripetere quel disegno mostruoso.

A fronteggiare il moloch è rimasto Rigoni Stern, amico di Levi che rievoca tra i suoi boschi gli ultimi contatti, la pagina rivolta a lui e Nuto Revelli e... l'insostenibilità di
"Italia - la prova"

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