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Ritorno alla questione del DOCUMENTARISMO #7
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Un bell'episodio di presa di coscienza... nel senso di ri-possedere una coscienza, quella che impedisce l'inerzia di fronte alla guerra, delle infinite Haditha (nov. 2005)... My Lai (mar. 1968) e tutti i danni collaterali occorsi in mezzo. Soprattutto se altri eseguono stragi a nostro nome ("Non far nulla in un periodo di violenza, è violenza essa stessa"). Il rigore nella ricostruzione del documetario girato nel 2003 da Sam Green e Bill Siegel, a cui si aggiunge la dovizia di materiali, la disponibilità dei protagonisti di allora e una splendida voce narrante affidata a Lili Taylor contribuiscono a ricostruire una storia di lotta di più di trent'anni fa.



("I fenomeni sono rivoluzionari e i rivoluzionari sono fenomeni")

Quello che colpisce di questo documentario è la lunghezza: 92 minuti per un documentario sembrano eterni... invece ci si può baloccare piacevolmente dapprima nel gioco di riconoscimento di quei sessantenni che non rinnegano nulla di quei loro stessi che ci vengono restituiti nella determinazione di quei tardi anni Sessanta / inizio del decennio successivo che li hanno visti protagonisti di una stagione di contrapposizione alla violenza del potere, e poi immergendosi nella ricostruzione.
Perché tutto nasce dal riconoscimento che è il potere a ingenerare violenza, dunque restituirgliene una parte è un'azione etica nel momento che si sceglie di non farsi più rappresentare dai militari impuniti dai politici, a loro volta responsabili degli eccidi: "portare la pace in Iraq [Vietnam, nell'originale] e la guerra in casa". Un discorso ormai stantio, una dialettica che detta in una tribuna televisiva attuale farebbe insorgere tutti i fascisti che ci siamo abituati a dover sopportare nei salotti televisivi, ai quali è stato permesso di fare giurisprudenza su questi temi e pontificano in modo reazionario: proprio quelle parole d'ordine che hanno rappresentato anche per noi una entusiasmante stagione di lotte, se venissero pronunciate all'inizio del film, a freddo, creerebbero nostalgia e nulla più, ormai... Invece i due autori hanno gradualmente ricreato quell'atmosfera, utilizzando immagini d'archivio, riportando documenti, plasmando la voce off in modo che non sovrasti il racconto, ma soprattutto inserendo interviste attuali affinché facciano da ponte con quell'epoca tumultuosa, rendendola plausibile, dunque condivisibile.
La prassi del film avvicina, ma non appiattisce i due tempi: quello del 2003, in cui i protagonisti dimostrano di aver mantenuto le convinzioni di allora, pur attraverso le molte vicissitudini, una clandestinità logorante, la galera per molti... la resa; e quello del decennio iniziato con il 1969, quando i Weatherman (dal brano di Dylan: "non c'è bisogno del meteorologo per sapere da che parte spira il vento", forse anche Fabio Fazio andrà in clandestinità) decisero di diventare Underground, clandestini radicalizzando il movimento americano alla Convenzione dell'Sds del giugno a Chicago (ma l'informativa Fbi retrodata al 1967 le prime azioni). Anzi, è palpabile il tempo passato non solo su quei volti, peraltro invecchiati molto bene, in particolare David Gilbert, l'ergastolano (per reati successivi compiuti con un'altra fazione subentrata alla resa dei Weather), ma soprattutto per l'assenza di concitazione dei tempi nostri dove manca l'urgenza e la determinazione si esprimeva con una durezza anche nella postura dei corpi. Si contrapponevano anche nell'occupazione dell'inquadratura: erano tosti, in posizione per reagire alle provocazioni che potevano arrivare dal giornalista o dal perbenista o dallo sbirro. E questo si fa notare in particolare come un atteggiamento desunto dalla collateralità con le Black Panther, che già da un po' avevano radicalizzato la lotta.

La vicinanza alla lotta degli afroamericani pone in rilievo un altro aspetto molto curato del film: il fatto che tutti gli elementi sono calibrati perfettamente. L'inserimento di illustri personaggi dell'epoca (Fred Hampton e la rievocazione del suo omicidio, ma anche della sua capacità oratoria che faceva paura come un Gramsci nero), Martin Luther King (idem) sono introdotti tra gli altri materiali della ricostruzione epocale (la san Quintin dei Fratelli di Soledad), ma alternando, come in un movimento ondulatorio che permette di andare a quegli anni, immergersi, indignarsi e poi tornare a noi e nel distacco dello sguardo a distanza riconoscere errori e similitudini tra il Bush iracheno (mai nominato: il presidente più vicino a noi che appare sullo schermo sarà alla fine Reagan, come maschera che fa calare il sipario su quell'epoca di lotte - proprio quando Bernadine Dohrn si consegna alla polizia -, dando inizio al suo ventennio neoliberista, che ha come strascico l'orrida amministrazione Bush jr) e il Nixon vietnamita: ogni epoca ha i suoi mostri, ma sta allo spettatore ragionarci; il documentario si deve limitare al suo tema e lo fa... ovviamente lasciandosi trasportare tra i mille rivoli attraversati da quell'ondata di rivolte. Però di nuovo a ogni figurina dell'album che emerge dalla storia si ritaglia uno spazio che non prevarica gli altri, ma aggiunge il proprio tassello alla ricostruzione di un momento rivoluzionario, che sembrava avrebbe potuto estendersi: Timothy Leary, che fu fatto evadere dal gruppo Weather Underground il 12 settembre 1970. Anche nel suo caso l'episodio si introduce con la voce di Lili Taylor, poi le reazioni dei giornali aggiungono l'informazione sui dettagli e infine uno spezzone dell'epoca restituisce a tutto tondo il personaggio Leary, sereno, rivoluzionario in politica e nella sua prassi comunitaria, vestito eccentricamente e sorridente, da ultimo un commento affidato a un testimone chiude la rievocazione di un'azione che aveva ammantato di un'aura epica il gruppo rivoluzionario. Pochi tratti essenziali, incredibilmente scevri da retorica e anche quell'aspetto dei primi anni Settanta viene restituito nella sua freschezza.

A tratti il dipanarsi del racconto sembra del tutto oggettivo, quasi a seguire pari pari la ricostruzione dell'Fbi preparata nel 1976 sulle attività della Wuo (è a disposizione in rete tra i link elencati in calce), poi il modo in cui la camera accarezza i testimoni nell'attualità denuncia la simpatia per questi eroi che senza ammazzare nessuno, hanno sfidato l'America di Nixon a suon di bombe.
Dall'8 al'11 ottobre a Chicago vengono inscenati i Days of rage e qui per noi, reduci da Genova luglio 2001 corre un brivido di deja vu, soprattutto la polemica sui Black block: questi compagni a Chicago avevano restituito un po' di violenza, scaricando la rabbia sugli oggetti, sui simboli dell'oppressione... lo fecero offrendo spiegazioni e inaugurando la prassi dei comunicati, perché era la prima volta che una rivolta di quella portata si affacciava in territorio occidentale; i Black block 32 anni dopo non si diedero la pena di spiegare: non era cambiato nulla dall'ottobre 1969, non c'era nulla da aggiungere... e non c'era ancora stato il 9/11.

Se le Br non avessero fatto la cazzata di cominciare ad ammazzare (e poi proseguire pure quando la lotta armata era ancora più palesemente finita), probabilmente sarebbero rimaste nell'immaginario italiano come questi rivoluzionari romantici e determinati, sorretti dalla stessa convinzione che la Rivoluzione era in atto. Peraltro il film azzarda un'unica ipotesi - suffragata dall'interpretazione dei testimoni - e cioè che se non fosse successo l'incidente che coinvolse i tre militanti morti nell'esplosione della bomba che stavano preparando, probabilmente l'escalation avrebbe portato anche loro a volgere la violenza contro persone, invece anche in questo caso il documentario risulta convincente e quasi nelle parole dei testimoni si coglie la tensione di quella discussione che seguì la morte dei tre compagni e che portò a sancire l'assoluto divieto di uccidere.
La capacità di teorizzare deriva anche dai molti gruppi di studio che la comunità mette in piedi, addirittura una scuola nella convinzione che la controcultura potesse essere il veicolo per comprendere i legami tra rivoluzione culturale e lotta armata, riuscendo a evitare di subire le conseguenze solo perché le porcherie perpetrate dall'Fbi hanno impedito di perseguire i rivoluzionari senza scoperchiare le soperchierie degli sbirri. Il perseguimento dell'ideale viene portato alle estreme conseguenze, ma è un'evoluzione naturale nelle parole e nelle lettere prodotte: trasferirsi nei quartieri popolari, estendendo la libertà della struttura per mostrare con l'esempio un'alternativa alla famiglia borghese, da cui quasi tutti gli studenti provengono; poi il trasferimento nella libera California e infine la clandestinità. Tutti passaggi descritti come evoluzione naturale di una scelta.
Nel documentario compare anche un agente federale, proprio uno di quelli inquadrati nel pool creato appositamente per contrastare i rivoluzionari, la sua sgradevolezza è resa evidente dalle luci che lo illuminano, mostrando quanto sia invecchiato male rispetto ai "giovani" che aveva combattuto: rispetto alle figurine inserite nel lavoro (quelli d'epoca e quelli chiamati a rievocare) il suo ruolo è semplicemente una dimostrazione di quali danni ha fatto il tempo su quelli che stavano dalla parte sbagliata; più o meno lo stesso effetto fanno i telegiornali ingessati come se fossero fabbricati già allora da Clemente J. Mimun: in questo senso si riconosce attraverso il loro puntuale inserimento quanto poco siano evolute le veline di stato in questi quarant'anni e come attraverso il loro utilizzo fosse chiaro il punto di vista del potere.

Il documentario, a riprova che non è un'operazione incensante, è preciso anche nel mostrare i meccanismi di dissoluzione del movimento: dapprima si perde il senso di comunità (verso la fine del 1971), così si spiega anche la deriva mistica (dove si ricercava il succedaneo di quel pugno di anni di liberazione che sembravano finiti inesorabilmente nella stanchezza dell'attesa dell'avvento reale della Rivoluzione. Il passo successivo diventa ovvio nel racconto: la ritirata organizzata, contando sulla cospirazione dell'Fbi, che se scoperchiata avrebbe fatto più danni dell'Organizzazione nei momenti di maggior gloria.

In realtà la frase con cui abbiamo iniziato, quella sui rivoluzionari come fenomeni, in inglese suona un po' più ambigua: fenomeni è traduzione di "freaks" e non solo perché avevano esteso il loro agire rivoluzionario alla prassi di una vita sregolata, in opposizione alle convenzioni, ma anche perché sono comunque gente strana.
E "La gente non smette mai di lottare..."

"All my life, I have seen only troubled times, extreme divisions in society, and immense destruction: I have joined in these troubles",
Guy Debord, Panegyric )



adriano boano

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