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Ritorno alla questione del DOCUMENTARISMO #3
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"Agiografia e sguardo verso i propri sogni rivoluzionari
attraverso gli idoli di gioventù "
(«Il passato non passa»)
11 settembre 1973
«Ogni giorno con il gruppo del "turismo politico" scopriamo un pezzo del poder popular cileno e discutiamo la cronaca del giorno prima: ne vedo più il lato effervescente che quello allarmante e mi preparo a fare il giornalista (militante, beninteso) per Lotta Continua ... Santiago era un pullulare di scritte e di murales, di giornali, di volantini, assemblee, manifestazioni, con il boom della musica andina: tutto un mondo variegato che si riconosceva nel poder popular».
(Paolo Hutter, Diario dal Cile 1973, 2003, Il Saggiatore, Milano 2004, p. 25).
Ultimamente la distribuzione parallela a quella commerciale, l'industria inserita nella medesima ottica, usando le stesse strutture ma con intenti apparentemente culturali, didattici o artistici, ha proposto pellicole incentrate su una figura storica, tutti leader (anzi lìder) della sinistra, tutti mitizzati, tutti nati nella generazione che ha fornito i nostri partigiani... tutti "rivoluzionari".
O forse no? Se Allende fosse "rivolucionario" è materia di contendere nel film di Guzman (quello di cui ci interessa parlare oggi, 11 settembre 2005) in una delle sequenze più interessanti, perché vede i militanti superstiti all'orrore pinochetista che trent'anni prima costituivano la Unidad Popular, riuniti attorno a un tavolo ad accapigliarsi per gli stessi motivi di allora, ancora più inutilmente dopo la morte di Allende.
Aspetti irrisolti che la fine del comunismo ufficiale, ma non del pensiero sociale e degli afflati libertari, ha lasciato aperti, soprattutto in chi allora già faceva politica, anzi era militante da giovane e allora non può disgiungere dal se stesso di quel tempo il leader a cui faceva riferimento con passione e simpatia, quello che aveva avviato il più consistente ammodernamento di una società, emancipando le classi sociali da sempre represse ("campesinos soldados mineros..." nelle note di Venceremos), immergendo l'operazione in un mare di retorica che nel ricordo si stempera, diventando patina di calce da rimuovere per ritrovare i colori dei murales, all'interno dei quali si muove in filmati d'epoca persino un Fidel quarantenne ammirato della prassi rivoluzionaria senza violenza.
Questo è l'aspetto che assimila i lavori delle agiografie: la certezza di quello che si andrà trovando, perché la figura dell'eroe è frutto di una suggestione aprioristica che si va a cercare laddove si sa di poterla trovare... e allora quello che muta è il dosaggio di autenticità che proviene dall'emozione che si riesce a mediare, è la quantità di analisi che l'autore dell'operazione riesce a instillare, è la dose di sincera onestà sottesa a un'operazione comunque falsa e autoingannatrice. Infatti l'intento dell'unica biografia dedicata a Salvador Allende è ovvio che sia incensante e finisca con il glissare o tacere, minimizzare i sospetti della componente radicale.
Di analisi ne abbiamo viste tante, alcune hanno comportato la sparizione di organizzazioni totalizzanti del Movimento operaio - un suicidio dovuto all'incalzare dei tempi, ma realizzato gettando la parte più sincera: se Allende, come pretende Hutter, può essere considerato il primo ad aver "sentito" a livello globale ("il primo neoglobal"), sicuramente la reazione contro la sua Presidenza ha avuto ripercussioni globali - e tutte le analisi prendevano spunto dalla faccia feroce del nemico Cia... e anche Guzman filologicamente scova l'ambasciatore statunitense del tempo e riesce a farcelo odiare; senza neanche doversi sforzare troppo: il ritratto del reazionario ambasciatore di Nixon e Kissinger è di nuovo - anche fisicamente - proprio quella figura che ci aspettiamo sia un golpista destrorso, completando la galleria di stereotipi, anche autentici, che costituiscono proprio quella pellicola che ci aspettavamo.
Ciò che fa Guzman con i suoi partner per resuscitare il ricordo di Allende è la stessa operazione che Minà innesca con Granado (mito vivo, fatto di luce riflessa) per dare sostanza storica all'imbalsamazione hollywoodiana che fa Salles della immaginetta del Che, ottenendo sicuramente di restituire umanità al giovane Ernesto, ma in questo caso il mito è globale, conosciutissimo, strapubblicato, non è certo il politico con la cravatta cresciuto a pane e anarchia, ma l'unica foto con un'arma è quella scattata qualche minuto prima della sua morte: Allende è una figura poco conosciuta al di là del nome e sicuramente non aveva il fisique du role del rivoluzionario. Paradossalmente l'operazione di Minà riesce proprio perché ripercorre un itinerario conosciuto e lo fa seguendo il tracciato di un film retorico e senza emozione, ma accompagnato da Granado e dalla infatuazione guevarista che sostiene da sempre Minà: approfondisce e conferma la "nostra" immagine ricostruita del rivoluzionario argentino. | |
Non sono operazioni didattiche, i giovani non capiscono (non possono capire) e sono tagliati fuori, non ci si rivolge a loro, ma ci si coccola un po': Hutter, intervistato da Radio Popolare inizia a rispondere citando Jaime Riera Rehren, suo ospite a Santiago che gli dà la notizia che hanno ucciso "el Chicho", per significare quanto sia stata rimossa la figura di Allende anche nella ricostruzione del suo suicidio: per lunghi anni si è pensato che le milizie lo avessero crivellato; insomma Allende è diventato dopo l'11 settembre (il vero tragico Undici settembre) semplicemente lo spauracchio per qualsiasi tentativo di alternanza alla falsa democrazia americana, un'etichetta dietro la quale mancava - e manca - la riflessione, la raccolta storica di cosa ha rappresentato, la prospettiva della sua eredità. Ma questo modo di affrontare il ricordo dimostra come l'unica modalità che siamo in grado di innescare per approcciare quegli eventi è quello di affidarsi al ricordo personale, individuale, alle proprie emozioni, proprio come Hutter fa nel suo libro, sottolineando questo modo di procedere descrivendo il pellegrinaggio del trentennale, anche prendendosi un po' in giro, e come fa Patricio Guzman: sono tante solitudini ripiegate a valutare cosa sarebbe successo se il processo di emancipazione non fosse stato infranto, a rivivere una storia mai avvenuta. |
Si tratta di un terzo modo di fare documentario. Dopo la docu-fiction con le sue alterne soluzioni, di cui l'esempio più sintomatico è il Rwanda di Sometimes in April a confronto con Hotel Rwanda (uno pessimo esempio hollywoodiano, l'altro intenso lavoro, dove più che il cappellino di Nick Nolte interessa restituire l'atmosfera) e che propone l'alternanza di opere riuscite perché si propongono intenti documentari come Private, terribili ricostruzioni imbarazzanti come I diari della motocicletta di Salles, e il Bloody Sunday che si colloca a metà tra le due operazioni: tutto legato alla percentuale di rigore e di spettacolo applicate (ovvero se ci si avvicina a quello che ci aveva detto Robert Kramer nel 1997).
La ricostruzione agiografica ha già la sua risposta nell'anarchico e irriverente lavoro di Ciprì e Maresco: il personaggio è di fantasia, ma per il resto ogni sistema atto a restituire il protagonista del documentario all'interno di un santino viene scardinato in Il ritorno di Cagliostro, però del lavoro di Guzman può essere interessante parlare per tutto quello che avrebbe potuto essere e non è in quanto risponde a bisogni più intimi ed emotivi di quelli che smuovono Solanas: li dichiara fin dall'inizio con quelle carrellate nostalgiche su oggetti di Allende, la sua tessera del Partito, la teca con gli occhiali rotti... i chiodi della croce di Gesù, la tibia di sant'Antonio, reliquie di un culto laico che imbalsama... speriamo che la visione del film valga almeno come indulgenza plenaria.
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adriano boano
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