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considerazioni interdisciplinari a cavallo tra cinema e politica
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G8 - Genova, 20 luglio 2001
Esecuzione di Carlo Giuliani
Nascita di un regime poliziesco neo-liberista

Venerdì 20 luglio, poco dopo le 18,30 da Torino assisto in diretta all’uccisione di un compagno a Genova e ciò è possibile perché sono connesso su Indymedia, contemporaneamente ascolto Radio Flash (Popolare Network) e dunque assisto ai reportage dei ragazzi con cellulare sparpagliati nelle varie piazze tematiche, mentre la televisione silenziata mostra immagini e mezzibusti. Le prime voci mi arrivano da Paolo Dalla Zonca da Flash: "forse è stata uccisa una ragazza", ripresa da qualche altra fonte (agenzia, tg, o passaparola, non so), poi il tg5 puntualizza che pare ci sia un ragazzo spagnolo morto. Gli aggiornamenti di indymedia non fanno luce. Siamo solo a livello verbale e già una ridda di immagini si affollano alla mente, già preoccupati di cosa ci aspetta l’indomani in zona operazioni (e ne avevamo ben donde, ripensandoci a posteriori).  

Ma le concitate sequenze radiofoniche, mezzo migliore per restituire sensazioni e fare battere il cuore a mille dibattendosi nell’esercizio di immaginare, impediscono di orientarsi nelle voci: addirittura un giornalista (Crovato, tg2) non viene schiaffeggiato quando impunemente accredita la tesi della pietra tirata da un manifestante, perché nella sua opinione le forze dell’ordine si erano comportate nel pieno rispetto dei manifestanti. Ed era lì, sul posto, fino a qualche istante prima si aggirava tra manganelli roteanti e calci in faccia, caroselli di M113 e abusi; in malafede, mentitore, finché la collega Sattanino lo sbugiarda con la precisazione che il corpo ha un foro regolare in fronte.
Il fuori scena è ancora più osceno quando la scena del potere si permette di andare in scena in chiaro convinta che le immagini nella loro trasparenza apparente siano ancora manipolabili come le menti e le parole.
Il circolo di interpretazione decolla comunque, nel bene e nel male, non si avranno mai abbastanza elementi per avere la verità, dunque per convincere chi non vuole essere convinto.

Percorso diacronico (Le immagini ci sono fornite in successione seguendo un ordine di produzione che cadenza il dibattito):
Da qui in poi, acquisita la funerea certezza, l’informazione si fa visiva, i commenti sono brusii fastidiosi di chi vuole coprire o attizzare lo sdegno (lo dimostrano i dibattiti scatenatisi su ecn o indymedia sulle interpretazioni dei singoli materiali analizzati): la prima immagine che vediamo, successiva cronologicamente rispetto alle innumerevoli sequenze che hanno ripreso il momento dello sparo mortale, ma offerta per prima al mondo (causa dello scatenarsi della rabbia celerina contro i cineoperatori che hanno documentato le loro scorrerie?), è quella di un nugolo di sbirri attorno al corpo riverso sull’asfalto, eppure sono talmente numerose le telecamere che una insinua il suo obiettivo in mezzo agli scudi e la testa insanguinata di Carletto spunta tra gli anfibi che non riescono a contenere l’urlo silenzioso che proviene da quel corpo inanimato. Questo è il primo dato di fatto: l’impossibilità di contenere l’enormità dei fatti, di censurare le immagini, di impedire la diffusione quasi oscena del sabba infernale scatenato dal sistema di potere oligarchico. Persino il sistema televisivo collaterale al regime non si può permettere di cancellare quei fotogrammi; ma li può manipolare. Quelle inquadrature oscillanti si propongono come copertina: la loro composizione clandestina, catturate nonostante la barriera di corpi, subito occultate dalle uniformi del nemico, incarcerato anche da morto, serve a far passare il messaggio di separazione dalla società civile di quanto è avvenuto, ma anche ad ammantarlo di mistero: quella sezione di cadavere che fa capolino prepotentemente tra le pieghe della faccia più feroce del regime spunta dovunque come in un pessimo hard boiled e l’assassino maldestro non riesce nemmeno a occultarlo per coprirsi la fuga. Quindi quell’immagine ha una doppia valenza: è stata estorta al potere, che non ha potuto nasconderla e farla sparire come altre che poi distruggerà, e richiede un’indagine con la sua sola muta presenza.

E l’indagine non tarda a dipanarsi in più rivoli: è un’inchiesta che usa tutti i mezzi della cultura iconica. Sollecita ad applicare le capacità analitiche delle immagini ormai ipertrofizzate dalla società mediatizzata: c’è una profusione di mezzi atti a riprodurre la realtà, ma il vero miracolo è la pletora di telecamere, macchine da presa e fotografiche che prima, in quel momento preciso avevano congelato l’evento.
Si comincia con una serie scattata da un teleobiettivo che comprende la vittima e il suo carnefice nella sua propaggine più importante, la mano assassina; blocca i due gesti che alla prima ricostruzione appaiono essenziali, che possono spiegare quell’immobilità della prima immagine di copertina: il ragazzo che brandisce l’estintore e l’altro che impugna la pistola nell’ombra. Nonostante l’enorme disparità delle forze in campo, sembra un duello dove i due uomini si guardano negli occhi. Davide contro Golia, Ettore e Achille,… Inorriditi non riusciamo a staccare gli occhi da quella prima foto, cercando di indovinare l’istante della morte che da qualche parte è già lì che aleggia (non si riuscirà mai a catturare neanche dalle sequenze in movimento successive: quasi una suprema ritrosia, quasi che la morte giochi a nascondino, lasciando sul palcoscenico, sotto i riflettori, la sua longa manus. L’omicida, pars pro toto, ma sineddoche insufficiente per creare un soggetto: espressione simbolica del potere senza volto, un morto voluto dall'intero sistema G8).

Ma i dettagli dei successivi movimenti non sono meno agghiaccianti, come in un replay della barbarie beluina che colpì Pasolini – di nuovo uno scherzo del destino: il paladino degli sbirri in quanto proletari – assistiamo a inconfutabili movimenti della camionetta che passa e ripassa sul corpo del giovane riverso in terra, altro che Achille pietoso che restituisce il corpo del nemico Ettore, questo è l’Achille che trascina il corpo esanime del "rosso" Ettore, vittima della campagnia di odio di Berlusconi e Fini. "Già privo di vita" si affrettano a sottolineare i commentatori servi, ma come facevano a saperlo i carabinieri sulla camionetta, si chiede il fan del tenente Colombo avvezzo ad assistere a noir e polizieschi, dove come in Dick Tracy il risultato degli eventi è chiaro ma si tenta di ricostruirne il senso, un meccanismo che è l’esatto opposto di quello che si è tentato di inscenare: uno scenario dove il senso sarebbe stato anticipato dai segnali dei giorni precedenti e la dinamica risultava invece fumosa, e non solo per i lacrimogeni.

C’è in quel gesto tutto l’odio represso, il disprezzo per gli altri, lo scherno trasforma il plot da quella che era un’indagine – una forma nobile del pensiero che non si sporca rimanendo a livello teorico – all’inchiesta, che trasporta nei bassifondi dell’hard boiled o all’idroscalo nelle storie da marchettari ignoranti di Una vita violenta, dove non a caso l’ideologia dei ragazzi di vita pasoliniani è confusamente di destra; l’inchiesta approfondisce sociologicamente ciò che l’indagine limita alla ricostruzione filosofica dei fatti. E quelle due foto della camionetta a cavallo del corpo riverso sono il risultato dell’immediata esigenza del fotografo – e poi di tutti noi – di capire come si possa essere così spietati: con quelle foto che inchiodano la coscienza di tutti gli occupanti di quella camionetta (lo sparatore e l’autista) si opera il salto verso l’approfondimento sociologico dell’inchiesta, volta ad aprirsi un varco verso la comprensione dell’humus in cui vivono questi carabinieri, capaci di fare quello scempio. La totale assenza di senso di pietà, quel rispetto dell’altro che fa restituire il corpo di Ettore dal furioso pelide. Il rispetto è ciò che manca però alla forma violenta del fascismo, la cui faccia pulita è quella neo-liberista, che preferisce agire giocando sulle notti in cui tutti i gatti sono bigi per confondersi meglio.
E allora puntuale arriva la prima sequenza video, targata tg5: le prime immagini della piazzetta sono in movimento su un mezzo che sta allontanandosi velocemente dal fulcro dell’attenzione, poi quando il veicolo si ferma questo viene messo a fuoco e ravvicinato con una potente zoomata. Questo movimento è la cifra dell’operazione: dà l’impressione di essere di prima mano, ma in realtà è distante dal tumulto; il teleobiettivo spinto poi appiattisce enormemente, la concitazione delle corse e la prospettiva sbilanciata alle spalle del drappello di giovani li rende minacciosi e vivaci aggiungendo movimento a frenetici spostamenti, ma soprattutto tutte le figure sono appiattite come in un affresco prerinascimentale, dove ciascuno opera autonomamente senza interagire con gli altri collocati in uno spazio privo di prospettiva, ma popolato all’eccesso, indistinguibili gli uni dagli altri, l’effetto è quello dei Funerali dell'anarchico Galli (dipinto da Carrà nel 1911) o del quadro futurista di Balla (Rissa in Galleria) e non è un caso il riferimento a quel codice espressivo da "arditi". Da un lato sta a significare che sempre nella partecipazione ai tumulti si assumono dei rischi e dall’altro si comincia a insinuare quella che verrà adottata come strategia dai neo-fascisti del Pnf-Msi-An: il ribaltamento dei ruoli. L’indagine parlamentare che vorrebbero, dovrebbe essere a carico dei manifestanti, carnefici delle povere forze dell’ordine, vittime della furia cieca della piazza (in fondo gli arrestati sono accusati di oltraggio e resistenza a pubblico ufficiale, forse perché gli hanno rovinato i manganelli picchiandoci contro la testa?). Nel torbido delle immagini confuse commentate adeguatamente si pesca meglio.

Il controcampo offerto dal tg3 è più ravvicinato, inquadra la scena sempre dalle spalle dei ragazzi, ma con una prospettiva diversa. Non insegue nessun movimento tangenziale centrifugo al fulcro e questo consente una lettura più limpida dei gesti, che appaiono nella loro naturale schizofrenia derivante dal fatto che in una situazione simile ogni minima percezione del mondo con cui i personaggi interagiscono comporta una reazione legata a due sentimenti preponderanti: l’autoconservazione (che non è monopolio di quelli armati e protetti da caschi e scudi) e l’indignazione. Di quest’ultimo sentimento ci sono evidenti tracce come effetto, ma non c’è segno della causa – questa andrebbe ricercata nelle cronache di RadioFlash sui raid subiti dai manifestanti e sui caroselli di camionette alla ricerca dell’investimento dei ragazzi fuori dalla protezione del corteo, a sua volta caricato (ma basterebbero le molte immagini di botte, calci in faccia, manganellate, lacrimogeni sparati ad altezza d’uomo che hanno ferito moltissimi, insulti e provocazioni); al contrario la drammatizzazione dell’inquadratura evidenzia invece l’altro sentimento che informa di sé la sequenza, l’istinto di sopravvivenza fa fuggire un ragazzo sulla destra e questo apre il sipario sulla recita a due.

La sequenza proposta si rifà allo stereotipo del duello, però Carletto è impallato parzialmente ancora da un ragazzo, indoviniamo solo il momento in cui si accascia: abbiamo la sensazione che il duello non sia stato regolare, perché non siamo riusciti a seguirlo; echeggiano solo i due colpi secchi: due, configurerebbero già l’eccesso di legittima difesa in un processo analitico della banda sonora amplificata come in Blow out o La Conversazione. E poi finalmente riappare la catarsi affidata al sonoro in presa diretta: "Noooo, porca puttana!", è lo stesso operatore, un ragazzo che sta riprendendo per Il cinema italiano a Genova, che percepisce immediatamente cosa è successo e riporta a un piano di realtà la fuga verso la barbarie del vecchio west. Disperazione autentica: richiamo metalinguistico alla propria presenza lì e in quel momento a riprendere oggettivamente i fatti, nei quali entra, come testimonianza verbale autentica, non più operatore, ma attore, partecipe con il suo sgomento urlato e contemporaneamente evidenza della presenza della telecamera che media.
Splatter è infine una sequenza che riprende un po’ dall’alto in linea con le prime immagini fotografiche, indugiando sulla camionetta che fa bassa macelleria: in questo caso il momento dello sparo è più chiaro, si vede anche la mano, o forse si indovina, avendo assorbito le altre immagini, ma soprattutto il taglio permette di valutare la distanza tra i due protagonisti: Carletto non è vicinissimo, tanto che i ragazzi in fuga sono davanti a lui e si aprono come un tendone e tra lui e la camionetta ci sono alcuni metri. Non ricordo chi avesse fornito il contributo, certo che il passaggio del veicolo sul corpo è osceno, nel senso che sembra estraneo a un mondo reale, fatto fino ad allora di gesti normali come correre, tirare oggetti, indicare, deviare, dietro ai quali si indovina la volontà della mente che ispira la plasticità del gesto. I movimenti innaturali del corpo trascinato dalle ruote, i sussulti innaturali, quella torsione da manichino pongono la scena fuori della fisica, collocando l’azione in quella dimensione spazio-temporale che comprende le fosse comuni in cui si rovesciano cadaveri della mattanza balcanica, come le immagini dell’olocausto. La stessa oscenità nel senso di fuori scena (ob-scene) della vita e spostamento su un piano spogliato anche dell’espressione del corpo umano.

L’ultima sequenza è di nuovo fotografica, proposta da RadioSherwood e ripresa da repubblica on line: riporta a un piano di realtà avvicinandosi anche alla verità in modo più netto: inserisce alcuni elementi fondamentali che rispondono sia ai dubbi del noir, facendo tornare tutti i tasselli nel puzzle, sia a quelli del western, poiché evidenzia la trappola del fortino assediato per attirare in un’imboscata (e dunque la volontà di uccidere, e una vittima vale l’altra: "L’unico indiano buono è un indiano morto", ribadendo le radici colonialiste del G8), sia l’indignazione per l’oltraggio esposta con la compostezza della tragedia greca. Sono 12 fotogrammi dai quali i più attenti investigatori evincono che il famoso estintore, arma impropria che mette su un piano di parità la vittima e il carnefice rendendo valido il duello truccato (ma non conoscono Sergio Leone: "Quando un uomo con l’estintore incontra un uomo con il fucile, quello con l’estintore è un uomo morto"? O forse lo sapevano già prima?), quel famigerato estintore che fa inorridire benpensanti in malafede proveniva dall’interno della camionetta dei poveri coloni accerchiati dai selvaggi, che si difendevano coi denti avendo però la cavalleria delle giacche azzurre a due passi. Infatti da questa angolazione si riesce a individuare fermo in osservazione degli eventi a una decina di metri un drappello di carabinieri: allora non erano isolati. E di seguito si pone in evidenza che il ragazzo in disperata fuga, scheggia impazzita attirato nei video da non si sa quale obiettivo fuori campo, in realtà scappava dalla pallottola a lui destinata: è ben chiara la mano armata che lo sta puntando dopo aver sfondato il lunotto per avere più agevolmente spazio per sparare. Quel ragazzo con il cappuccio viola si salva decretando la morte di Carletto per mano di un carabiniere che gli spara senza nemmeno guardare negli occhi la vittima designata come in Il Cacciatore e dimostrando che la minaccia dell’estintore era del tutto pretestuosa: non era un duello, ma un’esecuzione, nella più classica tradizione dei film sul disagio giovanile, perché come è stato rilevato da più parti, i metodi usati somigliano di più a quelli adottati dai poliziotti impegnati nelle rivolte urbane delle gang statunitensi: vi ricordate la fine di Matt Dillon in I ragazzi della 56° strada. Molto meno romanticamente ci è stata raccontata una riedizione di Fragole e sangue, con schizzi di sangue argentino a causa di matite spezzate sui muri delle scuole.

Percorso sincronico (tutte le immagini sono già state presenti nei nostri occhi e continuano a riempire le nostre pupille)
Forse al termine di questo percorso apparirà più chiaro lo slogan di Vautier che campeggia sul nostro sito al posto della home page dai fatti di Genova.

Scommetto che lo sviluppo delle tecnologie ci permetterebbe di creare un sistema virtuale che amalgamando tutte quelle sequenze registrate nel momento della morte di Carletto potrebbe dare luogo a un universo frattale in cui perpetuare la sequenza tridimensionalmente, consentendo anche di percorrere il set dell’omicidio in diretta. Eliminerebbe umori, sudori, congelerebbe la vita; forse in questo senso – di sospensione eterna tra la vita e la morte – sarebbe vicina alla verità, ma non credo che potrebbe aggiungere una veridicità ai fatti come sono stati registrati, perché poi ciascuno percorrerebbe il sistema artificiale a cui proprio l'artificialità inferirebbe il carattere veridittivo. Ne risulta un senso autoreferenziale poiché le immagini manipolate si attribuirebbero legittimità, quella che viene negata dai tanti commenti che accompagnano le sequenze per pilotare le integrazioni, adottando il punto di vista a ciascuno più consono per interpretare la morte.

Quello che pertiene alla morte sarebbe sicuramente registrato da un sistema chiuso come quello virtuale descritto che accumula tutte le riprese delle 2000 telecamere presenti e ricrea l’ambiente, diventando trasparente, invisibile per ipertrofia quasi che la pletora di contributi facesse elidere gli uni con gli altri, invece il motivo vitale per cui Carletto brandiva quell’estintore in un bel gesto plastico che lasciava scorgere sotto la canotta delle membra giovani, vitali, proiettate verso il rifiuto dell’abuso, quella vitalità rimarrebbe fatalmente imbrigliata dalla ricostruzione. Bello è pensare che abbia brandito quell'attrezzo di dissuasione improprio perché aveva notato che il carabiniere stava per diventare assassino di un compagno e in quel modo abbia decretato la sua fine: che generosità! – e perché siamo così pochi a cullarci in una ricostruzione così nobile, forse perché conosciamo l'universo dei centri, mentre l'opinione comune si è creata sulle apparenze e sulle panzane televisive?

E allora siamo da capo: le immagini non sono sufficienti quando manca la condivisione del fatto, quella che ci ha dato la radio, ma l’immagine poi ci ha sottratto. L’emersione del contesto viene dopo, ottenuta dall’accumulo di materiali, ma l’emozione si sottrae con il tempo che trascorre. Serve per condividere la conoscenza di un fatto, ma più emerge la verità e più si perde in: emozione, indignazione, rabbia, paura, timore. E allora più nulla è comprensibile, se non attraverso un codice preposto esterno, sia esso l'insieme delle leggi, sia esso individualmente costituito dalle convinzioni più o meno ideologiche che catalogano i singoli gesti. Si dice che Robert Capa "costruisse" le sue foto e dunque pilotasse i giudizi del mondo, ma il marine che spara al vietnamita inginocchiato era inconfutabilmente un bastardo e da lui il giudizio si estese agli invasori americani: era ovvio. In quel periodo la sensibilità era diversa, ma in quest'epoca di revisionismo autentico e presunto controllo mediatico i fascisti avrebbero l'improntitudine di mettere in dubbio quel moto di sdegno, instillando dubbi preconcetti con protervia, pilotando ben altrimenti l’opinione pubblica.

Quando è comparsa la prima foto dell'esecuzione di Carletto, quella più diffusa, dibattuta, su cui è infuriata la bufera dei colpevolisti che vedevano nel gesto dell’estintore un’offesa da sparare addosso a chi ne legittimava l’uso, ormai l’epilogo si conosceva: tuttavia al momento in cui era scattata i giochi non erano fatti, ma noi sapevamo già come era finita; eravamo già tagliati fuori: la rappresentazione era già andata in scena, le emozioni erano già vanificate. Ci era stato sottratto lo spettacolo, rimanevano i commenti a fare ulteriore fumo.
Tutte quelle telecamere avevano smarrito la spettacolarizzazione della morte che poi si è cercato di recuperare con successivi colpi di scena, perché the show must go on. E l’avevano perduta nel momento in cui pensavano di imbrigliarla: tutte le innumerevoli riprese sono riuscite nell’intento di sensibilizzare chi era già predisposto; gli altri, quelli che fanno da ventre molle del fascismo mediatico non le registrano come sconvolgenti, ma di impatto minore di qualsiasi "Exxxtreme" (real-tv di La7). Quindi è simbolico che si sia inceppato il meccanismo nel momento in cui più concentrico era l’insieme di macchine da ripresa che catturavano i fatti. Evidentemente le registrazioni iconiche non sono lo strumento adatto per percepire gli eventi fenomenici quando questi coinvolgono passione e morte. Inoltre dai successivi recuperi delle sequenze, aggiungendo informazione, si prosciugava gradualmente la dimensione tragica, in senso classico: l’attrazione più forte delle immagini invece risiedeva nel confronto, nel duello titanico, nella nobiltà della lotta impari – pur sapendo come andava a finire, nella ripetizione e riproposta dell’immagine di Carletto vivo e proiettato nel mito dal gesto che sta compiendo c’è la spiegazione dello slogan retorico "Carlo è vivo e lotta insieme a noi"; lo fa in quei fotogrammi – , una retorica che non serve a produrre nuovi significati o più accattivanti forme di scrittura, ma solo a perpetuare icone per future magliette.

Nessuna immagine è risultata adeguata. Non al momento storico sancito nel passaggio a un regime fascista di stampo poliziesco (l’ultimo omicidio di polizia fu perpetrato dal regime di Kossiga: l’assassinio di Giorgiana Masi rivendicato dal picconatore con una sorprendente scelta di tempo, che non tiene conto dell’accidentalità sempre sbandierata di quella morte del maggio ’77, mentre nel caso di Carlo l’unica certezza che abbiamo dalle immagini è che si tratta di una esecuzione), da autoritario che era (già a Napoli a marzo con ministro degli interni espresso dal centro-sinistra), e neanche a mostrare gli umori reali: i movimenti delle singole figure stereotipate sfuggono alla creazione di una trama logica nei commenti fuori "campo" di chi cerca di individuare un intreccio, ma di fronte al fascino di quelle riprese non può reggere nemmeno il tentativo – peraltro pervicacemente perseguito – di estendere proprio questa assenza di senso dei gesti dei singoli a tutto il dissenso di massa (omaggio al governativo "Non ci lasciano lavorare", aggiornamento del "Non disturbate il manovratore"), negandovi validità, perché in realtà il tumulto di piazza non può essere contenuto in alcun racconto: è un’esplosione unisona di rabbie plurime, impossibile da trattenere in una parola o in un’immagine, però proprio l'evocazione di quello che non si fa cogliere dal reporter attrae e diventa più avvincente della fiction più sofisticata (nel doppio senso di particolarmente curata e di artificiosamente manipolata). Non un fotogramma, né una sequenza riescono a catturare quel momento in cui l’Italia è ripiombata coscientemente in quel vizio costitutivo da cui i partigiani sembravano averla affrancata (avevano davvero torto i compagni di Gangsters di Massimo Guglielmi a non deporre le armi finché fosse rimasto vivo un fascista?) e contemporaneamente il movimento è cresciuto attorno a quel corpo martoriato, che diventava improvvisamente fratello a ciascuno. Eppure tutti per riuscire a farsi un’idea propria si sono stampigliati in mente i singoli fotogrammi dei diversi punti di vista su quella camionetta isolata, che poi isolata non era, bastava girare la telecamera (come si vede nella sequenza fotografica di Radio Sherwood) e allora la sensazione che la selezione dell’inquadratura sia già manipolazione finisce con ammantare tutto di opinabilità.

In realtà è come un rompicapo di cui si sia persa la chiave. Tutti i materiali sono sparsi di fronte a noi: più si restringe il campo e maggiore diventa la sensazione che un trucco si nasconda in quei pochi metri che contengono un estintore, una pistola, un lunotto sfondato, una mano e una vittima: se il racconto segue la storia degli oggetti diventa una spiegazione che si avvale di molte integrazioni plausibili, ma che le immagini non ci accreditano mai. Noi sappiamo che è stata un'esecuzione, ma non riusciamo a dimostrarlo a chi si aggrappa a spiegazioni improbabili pur di non dover rivedere le proprie convinzioni riguardo a polizia e politici, pur di non sentirsi complice di quel delitto premeditato nelle urne del 13 maggio e che persegue con intenti di rivalsa la resurrezione del clima in cui si poté uccidere impunemente Walter Rossi (il processo non si farà per una decisione della scorsa settimana e Kossiga non lo ha ricordato tra le vittime che lui ha sacrificato 24 anni fa).

Allora proviamo a contestualizzare – anziché focalizzarci sempre più restringendo il campo ai duellanti, poiché questa prassi ci condurrebbe a ripetere cliché retorici – ; scegliamo dunque i frammenti in campo totale e abbiamo l’impressione che una regia occulta abbia giocato con la nostra fruizione frapponendo alla nostra comprensione tutte quelle comparse che corrono, inseguono, sparano lacrimogeni…solo per sviarci. Infatti lo sguardo insegue ora l’una ora l’altra di queste figure distogliendosi dal suo fulcro d’attenzione. E poi l’immagine non è mai nitida e non si riesce a individuare Carlo, unico elemento del quadro conosciuto a cui appigliarsi per non perdersi nel turbinio: ben che vada si individua poco prima che venga steso e dunque cosa abbia percepito lui rimane relegato a quella prima fotografia, che colpisce perché è una soggettiva – una falsa soggettiva, perché abbiamo la percezione di una prima mediazione – che ci consentirebbe di vedere la morte in faccia se l'assassino non si fosse limitato a freddare con quella mano senza mostrarsi, anzi indossando il casco per rendersi irriconoscibile ribaltando il motto di Marcos per il quale indossare il passamontagna significa per gli indios zapatisti avere finalmente visibilità; probabilmente la differenza sta nella dignità di quello che si fa da mascherati: fare lo sbirro non è sicuramente un lavoro dignitoso. Ma finora siamo rimasti nell’ambito del simbolico, più attinente alle immagini, mentre qui si entra nel campo etico. Quando si parla di "dignità" o di "rispetto" dell’Altro il terreno si fa scivoloso: fino a dove arriva la dignità di un uomo disposto a fare di mestiere il mazziere al punto da farsi stampare T-shirt, ricordo dei pestaggi effettuati in un sabba con i commilitoni, nelle quali pavoneggiare la muscolatura da palestrato tariconesco? E il rispetto può iniziare solo nel momento in cui si riconosce l’esistenza dell’Altro (come riferisce Davide Ferrario dell’episodio in cui i celerini si levano i caschi di fronte ai pacifici antagonisti con i quali fraternizzano), ma se un uomo si trincera dentro il suo fortino-camionetta, celando il volto e riducendo il suo corpo ad una minima propaggine attraverso la feritoia (quando la lingua dà indicazioni più esplicite delle immagini!) del lunotto sfondato, allora nessun riconoscimento dell’Altro levinasiano ha cittadinanza. Da tutto ciò si direbbe discenda il motivo per cui la confusione che regna nelle sequenze in campo lungo non apportano contributi significativi né nell’ottica di chi vorrebbe immedesimarsi nell’uno e nell’altro dei protagonisti per cercare di arguire come ci si sarebbe comportati in un frangente simile attraverso l’emozione delle immagini – come in un film (e in questo il western è stato il genere che più ha condizionato l’immaginario proponendo eroi senza macchia da emulare, non a caso nel movimento del ’77 uno dei paradigmi era Tex) – , indossando sia i panni del carnefice sia quelli della vittima: troppo distanti sono gli attori e le comparse non permettono di cogliere realmente la tensione e l’entità del pericolo reali, né nell’ottica di chi vorrebbe invece astrarsi appellandosi ad una impossibile e fantomatica etica universale, che dunque da una visione d’insieme dovrebbe trarre maggiori elementi di giudizio.

In realtà lentamente affiora la sensazione che la materia si sottrae a qualunque giudizio sulla base esclusiva delle immagini registrate: e forse è giusto così, la rivincita sullo strapotere della società dell’informazione. Non si tratta necessariamente di una sconfitta per chi sperava che l’evidenza della brutalità poliziesca potesse smuovere le coscienze addormentate nel sonno della ragione fascista: quelle immagini diventano fiction nella mente dei telespettatori, sono davvero trasportate in una qualche repubblica sudamericana delle banane, non hanno il valore di documento insito nei documentari gobettiani sulla resistenza o di quelli sui 35 giorni alla fiat, perché quelli furono validi se visti a posteriori: memoria per consolidare convinzioni già rubricate. Memoria, appunto. Invece le immagini falliscono quando l’oggetto è il presente, non servono a inchiodare alla responsabilità gli aguzzini quando essi rappresentano il potere: l’arroganza del sistema è quella del sofista Fini che ribalta i termini del discorso, minaccia in modo mafioso e omertoso, allude e gigioneggia a uso interno, perché i fascisti capiscano che da ora in poi sarà possibile negare l’evidenza (magari anche la Shoa) e usarla a danno dei rivali ancora stupidamente democratici.

Tutto questo però non inficia quello che dice Ferrario: «Ormai è chiaro che ci sarà sempre una telecamera pronta a riprendere quel che succede, innescando contraddizioni interne al sistema della "democrazia liberale" che sono oggi ben evidenti agli occhi di tutti e che il movimento deve sfruttare», non credo che si potranno usare sequenze per liberarci, ma le riprese, una volta liberati, serviranno per inchiodare le coscienze di chi non le volle vedere per tempo e magari si è schierato con il carabiniere assassino nel gioco della immedesimazione, o per definire le responsabilità della violenza culturale poliziesca contro i "rossi", in modo che qualche altro boia debba nascondersi dietro la demenza senile per ottenere l’impunità e così ribadendo la propria colpevolezza e il biasimo dell’umanità, proprio come è avvenuto per i documenti raccolti all’archivio della resistenza di Gobetti o a quello del movimento operaio di Giannarelli; la loro utilità immediata si direbbe ancora metaliguistica, poiché solo esaminando le sequenze a disposizione si può scoprire un linguaggio nuovo più adatto.

Infatti Franco Carlini sul "manifesto" del 29 luglio spiega che per quel che riguarda i giornali «un lungo percorso di reciproca alfabetizzazione tra chi scrive e chi legge ha prodotto un insieme di codici impliciti che separano i generi e permettono letture facili e più oneste […] Diversamente le cose sono andate con le televisioni. Anche se le immagini di per sé "parlano da sole" (così si suppone un po’ ingenuamente), o forse proprio per questo, Primo Canale ha sentito un irresistibile bisogno di arricchirle con un proprio valore aggiunto, il quale era affidato, nello specifico, a una direttora di buona presenza video, ma di poca cultura nel merito della globalizzazione, la sua virtù principale essendo il tono presuntuoso con cui si esercitava nelle interruzioni agli ospiti o ai filmati. Il valore aggiunto dunque è diventato quello della voce e del volto che, sovrapponendosi o intervallandosi, ti dicono "guarda qua, guarda là"»; peggio ancora sono stati i montaggi subdoli di altre camionette assaltate negli scontri contigue nel montaggio a quella del delitto per favorire una sovrapposizione nelle fruizioni più distratte o meno consapevoli, operazione simile alle ricostruzioni governative in aula.

Le immagini danno risposte parziali che verrebbero integrate attraverso la cultura dello spettatore, se non si frapponesse tra i due livelli di informazione la voce off che orienta: questo è indubbiamente vero, ma allora la potenza immediata dell’immagine, lo specifico del cinema di Straub e Huillet è ciò che è venuto a mancare: quell’evidenza testuale dell’assunto che è trasparente agli autori e che viene passato direttamente ai fruitori attraverso un codice comune capace di conservare sia l’impianto tragico dell’evento, sia l’informazione come se comprendesse tutti i punti di vista, sia lo spettacolo. Sia la morte e il rispetto e la dignità per essa.

Come fare a far credere chi non crede? Non possiamo convertire nessuno per convertire bisogna promettere verità e felicità ed esclusione di chi non crede, se si offre invece solo realtà e sospetto, simbolico libero e immaginario proprio non si offre nulla di allettante ma solo lotta e tensione scomode.
Il problema è quello dello spettatore, che non essendo confrontato con l’evento non può che aspettare la mediazione ed affidarsi a chi ha visto e sentito (ma anche il testimone diretto è premanipolato dalle sue credenze e conoscenze); non scatta il rapporto levinasiano perché non si sente affettivamente il volto dell’altro, non si vede il volto attraverso l’immagine.
Contro i luoghi comuni e le conversioni non resta che smantellare l’apparato e l’insieme obbligato di chi ha ricostruito pubblicamente eventi e combattimenti, farsi la propria ricostruzione faticando tra immagini e testimonianze analisi e ricordi diretti, discussioni e saggi e soprattutto non smettere l’esercizio di memoria e riflessione, il sospetto e non il rispetto al fenomeno che appare quando e come vogliono gli altri.
E dunque le immagini che non parlano da sole e hanno bisogno di un volto che le guardi non privo di pregiudizi ma convinto che le proprie convinzioni sono luoghi comuni da meditare e riscrivere sempre e comunque, che l’immagine non deve essere bloccata nella sua assenza ma tenuta viva nel pensiero per non diventare pericolosa propaganda.

a cura di Adriano Boano, Chiara Daccò, Marcello Testi