- "Le questioni di minore gravità vanno commentate e affrontate seriamente"

Una sorprendente e spiazzante ripresa dall’alto colloca lo spettatore in una posizione inusitata per accedere ad un film che fa dell’ingresso iniziatico nell’universo di riferimento la sua ragione prima di esistere. Lo stesso punto di vista è ribadito nell'ineluttabile epilogo. La storia che Jarmush si accinge a narrare sprofonda nel passato e nei rituali in estinzione di fedele devozione ma, come avviene in Rashômon, per arrivare a coglierne la distanza si sottolinea la siderale lontananza del nostro sguardo iniziale – dall’alto, mediato da un uccello, di cui ci accorgiamo di aver assunto lo sguardo solo alla fine dei titoli di testa – e l'altrettanto escludente plongée conclusiva che ci relega in un contesto alieno e privo di quell'eroismo, un movimento respingente a cui fanno da contraltare i pregevoli espedienti per dimezzare le distanze e lasciare spazio alla nostalgia; aprendo brecce nelle barriere ideologiche e comportamentali che ci impediscono ormai di capire quel mondo di samurai, non soltanto perché esotico, ma perché qualunque codice di regole comportamentali è disatteso ad ogni latitudine.

Robby Muller avoca alla fotografia la possibilità di togliere spessore alle figure, quando la nobiltà dei gesti lo ririchiede, o conferirglielo, quando la parola dei libri si fa materia

In particolare da enciclopedia della citazione è la sequenza che evoca Rashômon, facendoci anche comprendere più chiaramente le motivazioni di Kurosawa: quando la mdp avanza verso il tempio nel film del 1950, compie il passo utile per addentrarsi nella storia, avvicinandosi ad essa "fisicamente" e lo fa accentuando il gesto con tre stacchi in una stessa inquadratura a distanze diverse sullo stesso asse e così si entra nel racconto della storia che non si lascerà rivelare a pieno, Jarmush opera al contrario, utilizzando i tre stacchi per assorbire la prima auto nel mondo di Ghost Dog ancora prima che la porti via, invece con il montaggio della sequenza adottato da Kurosawa era la mdp a venire fagocitata nell’orbita della narrazione; qui quello che entra nel campo magnetico dei movimenti del samurai viene assorbito nel suo mondo, che ricostruisce fedelmente i precetti; egli applica le scritture, ricalca le posizioni canoniche delle figure. È come se, collocato in una dimensione che non appartiene agli insegnamenti di Hagakure (il maestro del manuale che costella di didascalie lo schermo inconsueto di Jarmush), acquisendo le auto le facesse entrare a far parte di quel mondo da lui agito, concorrendo a far rivivere l'epoca Meiji, dislocandola nello spazio e nel tempo: tutto ciò che rientra nella sua sfera di interesse viene catapultato in un mondo regolato dalle leggi dell’epoca di Rashomon. Un mondo in via d’estinzione, il cui eroismo è guardato con tanto sottile ironia (il dettaglio dell’auto della polizia che scivola sullo sfondo appena dopo la realizzazione del furto con destrezza) e appena una punta di nostalgia, quanto Ronin tentava di inscenare la stessa sensazione con dozzinale grossolanità. Si viene accompagnati nel mito dalle scelte di montaggio; il racconto di Akutagawa, rivisitato in tre versioni contrastanti accomunate dal linguaggio e dalla identità di luogo e azione, trova il contraltare in un mondo di codici linguistici diversi, che confluiscono in una sintonia di sodali istintivamente spinti ad interagire con simpatia: per perpetuare la figura obsoleta, eppure rispettata naturalmente (i gangsta del quartiere deferenti nei suoi riguardi), del samurai con una luce interiore, invisibile ma palpabile.