Il nuovo imperialismo in azione ha imparato dal Vietnam che non si può lasciare spazio alle immagini in grado di testimoniare un massacro. Infatti qui ci troviamo di fronte a una ricostruzione; e per di più dichiaratamente di parte. Tutto ciò legittima lo scetticismo del vecchio che pronuncia la frase posta a titolo di questo pezzo.
Questa attenzione dell'esercito israeliano a non lasciare impronte "digitali" ha condizionato il taglio del video, la cui testimonianza "elettronica" non si presenta con le caratteristiche dell'inchiesta a tasselli volta per volta gettati a comporre un quadro in cui si delineano i fatti senza alcun apparente intervento interpretativo, a cui ci hanno abituato i reporter anglosassoni (ultimo esaltante esempio il racconto di quello che è successo a Mazaar i Sharif); nemmeno assistiamo a ricostruzioni palesemente false, ma girate seguendo il racconto di quanto può essere avvenuto, come capita nel documentarismo di stampo tedesco; e pure è estraneo quel piglio sociologico francese, sebbene uno degli intenti sia mostrare quale tessuto sociale abbia lasciato il passaggio dell'esercito israeliano.
Manca il rigore documentaristico, come se ormai i palestinesi non credessero più nella possibilità di mediare la propria verità e ritornino all'affabulazione, fino alla chiacchiera, significativa più del documento visivo, perché sancisce il comune sentire di una comunità oppressa. Dopo alcune visioni del film si ha come l'impressione di un coro, al quale affidare la propria credibilità: non c'è così più bisogno di immagini, bastano i volti dolenti, sfiduciati eppure pronti a un'ironia greve, opposta a quella sottile di Suleiman.
Infatti l'urgenza del racconto si propone da subito, ma si usa un sorprendente testimone, un muto che mima efficacemente gli eventi a cui ha assistito (talmente enormi i fatti che non c'è bisogno di una particolare dialettica, bastano i gesti di un muto per archiviare la pratica con una condanna), velocizzato nei suoi repentini movimenti esplicitati da un montaggio che sfrutta ogni minimo stacco sul movimento per vivacizzare quella serie di racconti che fatalmente risentono della loro natura di narrazione: sempre, a ogni suo inserimento (e il primo dura globalmente 15 secondi, ma racchiude tutto: agguati, scontri, barricate e uccisioni) si succedono racconti ferali, con vittime che cadono a braccia larghe, colpite a morte. E sono i momenti in cui più si apprezza l'enorme lavoro svolto sul sonoro, che si combina alla perfezione, come nelle brevi pause inserite come meditazione su ombre rumori e musica; quelli sono anche i momenti in cui il campo, la città respira nel video e i vagiti, i canti, i suoni riempiono l'inquadratura fatta di campi lunghi che riprendono dall'alto o di notte il campo. Dove traspare l'inno alla vita di chi non si arrende e ricomincia sempre da capo su tramonti poetici che non nascondono le macerie e lo sterminio, ma lasciano immaginare comunque un futuro, perché la comunità non è degradata.
A una prima visione sfugge l'enorme lavoro del montaggio, sia su un piano di associazione per adiacenza di spezzoni, sia in quello strutturale che racchiude in cornici e sequenze i contributi: la ragazzina, centrale per cogliere il punto di non ritorno dell'odio tra le etnie (lontanissimo dal buonismo interetnico di Promises), appare ripresa in campo lungo, mentre sale su macerie all'inizio, da cui discenderà solo alla fine del video con un movimento contrario; l'alter ego commentativo del regista, a cui sono affidate le considerazioni più impronunciabili (gli ebrei "sono di una natura particolare"), opera continui salti temporali a rimarcare continuità con il passato e bisogno di differenziarsi dalla generazione perdente degli anziani; eiste anche un prezioso lavoro sugli argomenti, che vengono montati in modo che il concetto espresso da un testimone viene ripreso e ampliato nella testimonianza proposta subito dopo, facendo attenzione a quella coralità su pochi temi inconfutabili. e qui emerge l'atteggiamento nascosto nelle pieghe del montaggio: sopperire alla inconfutabilità delle immagini negate dalla ferocia dell'anonimo corpo unico militare di un esercito senza volto, con l'innegabilità di comuni sentimenti universali, che nella narrazione epica dei sopravissuti diventano sussulto di umanità gettando così una luce luciferina (e nazistoide) sul corpaccio unico dell'esercito d'occupazione, ancora più minaccioso in quanto senza un volto del singolo militare: ribalta la mancanza di immagini con la presenza della condivisione affiancata dal montaggio del "momento più difficile nella vita di un uomo, quello di non poter far nulla per un moribondo" e vederselo morire tra le braccia. Uno strazio ribadito da molti, portando al parossismo un'altra costruzione del montaggio che offre una nuova visione del documentario attraverso coppie narrative di testimoni: la coscienza storica cocciutamente ribadisce la prolificazione delle nascite da contrapporre agli infanticidi e subito gli fa eco la ragazzina; il medico introduce l'immagine di un uomo dilaniato da un carro armato e lo stesso orrore è rievocato dalla donna che aveva assistito alla morte di Abu Jendal. È un processo interno al video, ma desunto dalla vita della comunità, che fa sì che ciascuno trae dall'altro la forza di rilanciare, trascorrendo da un proclama a un ricordo, da un martire a un sarcasmo. Ma questo processo di montaggio per coppie oppositive trova anche un'ulteriore strutturazione che rende il testo un sistema precisissimo, cadenzato anche nelle dissolvenze, che aprono i capitoli: tutto il film è sotteso da una ciclicità interna che si può esprimere visivamente con ritorni periodici di personaggi, con teatrali ingressi in scena (e conseguenti uscite simmetriche), ma anche con temi abozzati all'inizio ("Ogni volta che ci nasce un bambino, ce lo uccidono"), toccati durante il film e ribaditi con un ribaltamento alla fine ("per quanti bambini uccideranno, ne nasceranno altri"). Questo gli è permesso dal fatto che i singoli personaggi sono caratterizzati pesantemente e quindi ognuno può svolgere un ruolo preciso (ad esempio il primo narratore a cavallo tra ironia e cronaca), in questo modo gli basta poco per contrapporre maschere, come l'anziano di spalle sconfitto e le dichiarazioni battagliere di chi finirà con l'unire tutte le posizioni sotto l'egida del proclama: "Resteremo fino alla giorno del giudizio", condiviso dal giovane che incarna il pensiero medio e dal medico, ponderato testimone.
Importante è la presenza dell'autore nell'inquadratura nei momenti in cui l'accusa di atrocità si fa più stringente: negli interventi del muto, ma soprattutto durante l'intervista al primario dell'ospedale, il testimone più credibile e con più circostanziate denunce. In tutti questi casi, di spalle, inseguito dalla telecamera Bakri è ben visibile al centro dell'immagine, come a voler sopperire alla mancanza della sua figura a Jenin durante i fatti, ma soprattutto a voler spendere la sua credibilità per suffragare quello che si va dicendo nella sequenza. Questo sembra dividere il lavoro in almeno due scelte di registro, che si alternano e questi segnali servono a richiamare l'attenzione sui momenti di agghiacciante accusa: così si dividono gli ambiti. A una visione superficiale, o meglio con lo sguardo occidentale si attribuisce maggior rilievo ai raccapriccianti racconti di assenza di pietas del vecchio ferito deliberatametne dal cecchino, di atrocità del medico, di crudeltà a cui ha assistito la donna posta in una inchiodante sintonia con il medico nel racconto della esecuzione di Abu Jendal, il leader della resistenza. Ma la presenza dell'autore non viene meno nemmeno nello specchio che offre al quarantenne che si esibisce come uomo medio esacerbato o nel giovane che spinge un passeggino dopo 15 anni di carcere per reati d'opinione (nelle prigioni dell'unica democrazia mediorientale): questo secondo versante del racconto è meno avvincente dell'"odore di cadaveri", ma ci offre una galleria di ritratti irripetibile. Certo, questo secondo registro è a prima vista meno interessante, più irritante nella quotidianità del fico di 52 anni sradicato (in mezzo a bambini sbattuti contro i muri a morte!), anche nella banalità dell'odio; ma è centrale al lavoro di Bakri, che così evidenzia meglio di un sondaggio gli interstizi del pensiero dei palestinesi.
Bakri dunque propone un prodotto con un taglio documentaristico per poi ibridarlo e farlo diventare altro: non si limita a introdurre nella fiction la testimonianza, né viceversa, la sua scelta può apparire indifendibile, perché può dare adito a rifiuti con sufficienza di un testo inficiato dall'ibridazione non controllata. Non soddisfa il nostro bisogno di urlare in faccia a Sharon la nostra condanna, e ci spiazza (in bene o in male?), mettendoci di fronte all'unica via aperta ai palestinesi: resistere, ribellarsi, combattere... con tutti i mezzi. Probabilmente in questo modo intende coinvolgere la comunità internazionale, o per lo meno anticipare eventuali futuri pianti su tragedie a venire: in questo video siamo stati messi sull'avviso. Comunque il racconto fatto di montaggio in movimento di frammenti, come quelli che compongono la casa distrutta e i ricordi fatti a pezzi, elencati uno per uno (il letto dove è morto mio padre, il fico di 52 anni...) tracce tutte perdute che il video non può mostrare, denunciando la propria condizione di film fatto di assenze, è un racconto ed un montaggio unico, sia per soluzione linguistica - affidata all'uso anodino di brevissime schegge che proseguono sul movimento del montaggio nell'inquadratura successiva ottenendo lo scopo di un'unità fatta di rovine - sia per la composizione che si finisce per ottenere dalla somma dei singoli personaggi.
È per questo che un modo valido per approcciare il testo ci è parso quello di analizzare i personaggi che si alternano in questo coro dolente eppure dignitoso.
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