Quali sono le
"promesse" a cui il titolo allude? Quelle di avviare trattative di pace per
trovare finalmente una soluzione alla questione ebraico-palestinese, quelle che i grandi
della Terra fingono sempre di fare agli stati piccoli per controllarne le rivendicazioni,
oppure quelle riposte nelle speranze di chi vede ancora il mondo con gli occhi innocenti
dell'infanzia? L'intento dei registi, tutti e tre ebrei americani, sembra optare per
quest'ultima prospettiva, che li spinge a privilegiare e a mescolare - in montaggio
alternato - lo sguardo di alcuni bambini, apparentemente dall'infanzia
"normale", per quanto quest'aggettivo in Medio Oriente si intrecci
inevitabilmente con la guerra, la violenza e quindi con la morte, presenza costante, con
la quale "fare i conti" tutti i giorni, sia tenendo a mente il numero degli
amici e dei parenti deceduti, sia imparando a convivere con la precarietà e la paura di
incontrarla, salendo su un autobus per andare a scuola o semplicemente uscendo di casa.
I protagonisti del film sono sette bambini, palestinesi e israeliani, laici e ortodossi,
incontrati a Gerusalemme e nei dintorni, che abitano a venti minuti di distanza l'uno
dall'altro, ma vivono in mondi completamente diversi. Ad accompagnarli nel racconto delle
loro giornate e nel disvelamento progressivo di sogni e aspettative per il futuro è una
figura adulta, uno dei registi, giornalista ebreo che ha vissuto e studiato a Gerusalemme
per poi trasferirsi in America. Tornato al suo Paese per seguire da vicino il conflitto e
le innumerevoli e irrisolte trattative di pace, decide di indagare proprio l'universo
infantile, quello che si evita sempre di interrogare, per scoprire cosa ne pensano i
bambini della guerra e soprattutto del processo di pace.
Prima sveglia
Daniel e Yarko sono due gemelli, figli di israeliani laici. Ogni giorno sono costretti a
salire sull'autobus 18 per andare a scuola. Durante l'intervista non celano la loro
tensione per la paura di saltare in aria da un momento all'altro.
Stuzzicati dall'idea di poter incontrare gli altri ragazzi palestinesi interpreti del
documentario, mossi anche dalla curiosità di conoscere direttamente cultura, abitudini e
tradizioni diverse dalle loro (a parte la comune passione per lo sport), accetteranno di
accompagnare il regista presso il campo profughi di Deheishe, per trascorrere una giornata
in qualità di ospiti dei vicini, sconosciuti alieni.
Seconda sveglia
L'orologio a forma di moschea ridesta Mahmoud, ragazzino del quartiere musulmano di
Gerusalemme, che, mentre compie i suoi rituali del mattino, trova il tempo di gridare in
macchina che sul Corano sta scritto che la terra è dei palestinesi e non degli ebrei.
Terza sveglia
Shlomo, figlio di un rispettabile rabbino americano, nato nel quartiere ebraico di
Gerusalemme, si agginge ad uscire di casa per andare a studiare la Torah. Sa di avere una
missione che lo aspetta: dedicarsi alla vita religiosa e alle preghiere quotidiane,
perché Dio ha detto: "Devi prima imparare e poi agire".
Quarta sveglia
Nel campo di Deheishe (a soli 15 minuti da Gerusalemme, che accoglie undicimila
palestinesi costretti a lasciare la loro terra dopo la guerra d'indipendenza vinta nel
1948 dagli israeliani), Sanabel e la sorella Fida non hanno timore a raccontare la loro
storia di profughe, fortunate da un lato perché possono disporre di un letto sul quale
riposare, dall'altro infelici in quanto il padre, giornalista del Fronte Nazionale di
Liberazione della Palestina, si trova da tempo in carcere, senza un'accusa precisa nè
tantomeno la prospettiva di un processo.
Dagli occhi di Sanabel sgorgano lacrime autentiche, non appena ripensa alle lettere che il
padre le scrive: la commozione si impadronisce dell'inquadratura per accogliere in
primissimo piano la sua espressione smarrita e in cerca di conforto.
La giovane si dedica alla danza per imparare a suo modo una forma di resistenza del popolo
palestinese: quella di tramandare la cultura anche attraverso la difesa e la salvaguardia
del folklore locale.
Quinta
sveglia
Faraj rammemora l'amico morto durante l'Intifada (una forma di lotta nata nei campi
profughi e condotta prevalentemente da ragazzini muniti di fionda e pietre) e il suo
sguardo deciso, reso ancor più rigido dal dolore provato, reclama vendetta.
"Certo che tiro le pietre. Tutti dovrebbero farlo. Hanno permesso di liberare
metà della Palestina. Loro hanno fucili e bombe atomiche, noi solo le pietre e
nient'altro".
Sesta
sveglia
Dopo la guerra del 1967 alcuni ebrei nazionalisti occuparono il territorio cisgiordano
(corrispondente all'incirca alla Giudea e alla Samaria bibliche) per creare insediamenti
presidiati dall'esercito.
A Betel un filo spinato separa gli arabi dagli ebrei: qui abitano Moishe e Raheli, che,
protetti dalle armi dei cecchini e dal rispetto delle loro tradizioni, conducono
un'esistenza all'insegna dell'ortodossia più fervente.
«Dio ci ha promesso la terra di Israele, invece gli arabi se la sono presa e l'hanno
portata via. Nel libro della Genesi Dio si rivolge ad Abramo, il nostro antenato, e gli
dice: "Darò a te e a tutti i tuoi discendenti dopo di te tutta la terra dove
tu abiti come forestiero", la Terra di Cana, dopo Abramo ci fu Isacco e Giacobbe ...
Il nome Israele deriva proprio da Giacobbe ...»
Settima
sveglia
Moishe vorrebbe da grande fare il comandante dell'esercito (il primo comandante supremo
credente), mentre Raheli sogna un futuro di moglie, madre e casalinga, impegnata: in casa
a rispettare le regole dello Shabbat, in sinagoga a pregare.
Interessante la sequenza che mostra la bambina intenta a liberare da un incastro due sedie
di plastica: la macchina da presa non la molla per un istante, si sofferma a ritrarre le
sue mani che con fatica e determinazione ripetono il medesimo gesto nel vano tentativo di
separare le seggiole (metafora dei due popoli intrappolati nello stesso spazio?),
nonostante ciò non smette mai di parlare e di decantare la bellezza insita nella
ritualità, a cui è stata educata.
Dopo aver
presentato, una alla volta, le storie dei sette bambini protagonisti del film, i registi
decidono di mescolare queste infanzie dense di domande e di aspettative, alternando
riprese, che, mentre mostrano i ragazzini alle prese con gli eventi della loro giornata
(lo studio della Torah, le preghiere al Muro del Pianto, la partita di pallavolo, la corsa
dei cento metri, le lezioni di danza ...), passano in rassegna eventi, brandelli di
Storia, rituali religiosi, feste e commemorazioni. Eppure lo sguardo dei giovani sembra
farsi attento soltanto di fronte alla rievocazione di ricordi affidati alle voci delle
persone anziane (depositari di memoria e di oggetti simbolici come le chiavi di case che
non esistono più), i soli che permetteranno loro di conoscere la storia di quel
territorio travagliato, desiderato sia dal "popolo senza terra", sia dalla
"terra senza popolo". Riattraversando quei luoghi, che celano le trasformazioni
e le occupazioni subite nel corso del tempo per trasformarsi in mete di pellegrinaggi
dolorosi, i bambini, accompagnati dai loro nonni, scopriranno quanto sia difficile - per
gli adulti - mettere da parte il diritto di possedere una terra, che è di tutti e al
contempo di nessuno, o meglio soltanto di chi impara ad amarla, rispettando tutti coloro
che la calpestano.
L'impianto
didattico e al contempo politico di quest'opera cinematografica si manifesta nella
volontà di fotografare le due realtè coinvolte, l'universo palestinese e quello ebraico,
cercando di rimanere per quanto possibile equidistanti: non solo un'operazione
"politically correct", ma una forma di tributo all'innocenza dell'infanzia, che,
pur destinata ad ereditare le colpe commesse dai padri, ha dalla sua il pregio di potersi
affacciare al mondo senza pregiudizio e con la voglia di guardare in faccia l'altro da sè
con l'entusiasmo di conoscerlo a misura di bambino.
Sollecitati dai registi a incontrarsi tra loro, sarebbe stato banale gridare al
"miracolo", mostrando un grottesco girotondo di mani infantili, arabe e giudee,
unite nella lotta, eppure un timido contatto tra i due universi scaturisce dalla volontà
di credere al desiderio di conoscersi, per capire almeno le ragioni degli altri, senza la
pretesa di stare sempre dalla parte della verità. In questo risiede la forza del film,
che, pur passando in rassegna punti di vista e visioni del mondo in antitesi tra loro,
documenta una riconciliazione, impossibile nella forma, ma credibile nella sostanza,
perché fatta della stoffa di cui sono tessuti i sogni dei bambini.
A differenza di quella degli altri ragazzini, tentati dall'idea di potersi finalmente
conoscere, ma alquanto dubbiosi sull'utilità del gesto sul piano pragmatico, la posizione
di Sanabel (che vede il mondo anche dal punto di vista femminile) risulta invece
esemplare: "I bambini sono innocenti. Può essere un modo per iniziare la pace,
iniziare a fare amicizia tra bambini. Nessun bambino palestinese ha mai spiegato la sua
realtà ad un bambino ebreo. Sono i bambini che si possono avvicinare e permettere di fare
qualche passo. Per cui voglio conoscere la tua opinione e sapere cosa ne pensi, anche se
so che non abbiamo gli stessi punti di vista. Se ci fosse più comunicazione, forse
capiremmo di più".
Fa da cornice all'intero film un pneumatico incendiato, colto nella sua corsa in mezzo
alle rovine: viene inquadrato all'inizio e torna a sancire l'epilogo, quasi a ricordarci
che nel frattempo nulla era cambiato.
AHLAM AL-MANFA (Frontieres of Dream and Fears - RÍves
d'exiles)
regia: Mai Masri - Fotografia: Fouad Suleiman, Hussein Nassar, Jimmy
Michel - Musica: Anouar Brahem - USA/Palestina 2001, 56' versione originale
con sottotitoli in italiano
In questo film sono le giovani palestinesi a
svelare alla macchina da presa le loro "frontiere di sogni e di paure":
limiti fisici e invalicabili, barriere delimitate dal filo spinato che recinge il campo
profughi di Shatila in Libano (si commemora la strage, compiuta vent'anni fa, proprio in
questi giorni) e quello palestinese di Dheisha (situato a pochi chilometri da Betlemme),
confini tracciati sul sangue versato dai loro padri, che solo la forza dell'immaginazione
e la volontà di comunicare possono oltrepassare per darsi la mano, intrecciare le dita,
ritrovare un'unità, spezzata dalla furia della guerra, dai massacri e dall'occupazione,
che ha disperso un popolo, costringendolo a cercare riparo e rifugio in aree invivibili,
prive di acqua, elettricità e servizi minimi essenziali.
"Una volta avrei voluto essere una farfalla. Ma una farfalla è così bella che
la gente la cattura e la imprigiona in un quaderno. Non vorrei che qualcuno mi chiudesse
là dentro. Vorrei essere un uccello e trovare una lanterna magica nel deserto
che mi facesse volare al mio paese", esclama la ragazza di Shatila, Mona, mentre
la macchina da presa fruga le espressioni del suo volto illuminato da uno sguardo
magnifico; "Vorrei fotografare le scritte sui muri dei campi profughi,
fotografare le persone che ci abitano e i bambini che non hanno un posto per giocare":
sono invece i desideri di Manar, costretta a vivere a Dheisha.
Tra i sogni dell'una e il timido coraggio
dell'altra di denunciare la triste realtà che la circonda, si dipanano le riprese di Mai
Masri, una donna palestinese che ha fatto della regia il suo mestiere e al contempo una
personale forma di lotta, che riesce a scuotere le coscienze, proprio sbriciolando nelle
immagini le emozioni, le passioni, la sofferenza e il dolore di queste protagoniste, tutte
orfane di padri, scomparsi troppo presto per vederle crescere, tutte spaventate dall'idea
di amare qualcuno per non correre il rischio di doverlo perdere di nuovo.
Alla commozione che invade la sua indagine condotta in forma di interviste improvvisate
fanno da contraltare riprese che perlustrano rovine, miseria e devastazioni, dando vita ad
un reportage sempre giocato sul filo sottile che separa il documentarismo dal racconto di
vita vissuta, a metà tra il reale, il ricordo e la speranza di credere che un altro mondo
sia possibile.
"Perché sono una profuga? Perché qualcuno ha il suo paese? Perché non sono
come lui?": questi interrogativi accorati, recitati dalla ragazza intenta ad
accarezzare le pietre di quelle che erano le case dei suoi antenati, non trovano risposte
razionali né emotive, nel frattempo solo i cactus hanno invaso il terreno, nascondendo la
verità ed anche la storia. Il film ci insegna come sia importante allora andare alla
ricerca delle radici, per scoprire dove erano collocate le porte, che solo le chiavi che
portano al collo i bimbi profughi potrebbero ancora aprire: attraverso questa ricerca
sarà possibile far incontrare le generazioni e al contempo distruggere il muro fisico e
mentale della barriera che separa i palestinesi rifugiati in Libano da quelli costretti ad
abitare i territori occupati dagli israeliani in Cisgiordania o lungo la striscia di Gaza.
La sequenza che mostra il viaggio verso la
frontiera libano-israeliana intrapreso dai profughi del campo di Shatila, in seguito alla
liberazione del Sud del Libano da parte delle truppe israeliane avvenuta nel 1999, è
estremamente commovente: in quella barriera avviene un evento unico e indimenticabile, si
incontrano parenti che non si vedevano da anni o che non si erano mai conosciuti, si fa
amicizia, ci si scambiano gli indirizzi per iniziare a scriversi, cresce la voglia di
esistere e di contare sul proprio popolo.
Una ragazza si salverà, lasciando il campo di Shatila per trasferirsi a Londra come
rifugiata politica, anche se si sentirà sempre una profuga, ovunque lei vada, Manar
invece resterà a Dheisha. Ci si domanda, oggi, se abbia avuto almeno il tempo di vedere
l'ingresso dei carrarmati israeliani giunti a spianare l'intero campo, ma questa è storia
recente e il film non poteva ancora prevederlo.
Mona e Manar non riusciranno a spezzare il filo spinato che divide il loro popolo,
perché, crescendo, i sogni finiscono con il venir meno, mentre la paura aumenta fino a
trasformarsi in incubo quotidiano, ma le loro storie possono insegnarci a non dimenticare,
a conoscere e a documentarsi come fanno loro, per scoprire una geografia diversa di un
territorio, le cui chiavi di accesso sono ancora negate.