A quel punto è come se si desse la stura a una serie di testimonianze agghiaccianti (e siamo a 16 minuti dall'inizio, non prima, uno spazio ritagliato per introdurre un mondo fatto di uomini e donne vivi, non di morti, quelli vengono dopo nei racconti, una scelta sintomatica di come si ribaltano le priorità): bambini sbattuti contro il muro, disabili giustiziati, devastazioni, tracotanza, sberleffi atroci. Citati o mimati, narrati come episodi che risultano essere usuali; una sorta di contraltare reale della quotidianità messa alla berlina da Suleiman: in questo la distanza è siderale tra i due registi: qui c'è la carne e il sangue, ma solo citato, là c'è l'immagine quotidiana, il checkpoint trasfigurato che si contrappone alla serie di situazioni ripetute nelle giornate sempre uguali. Qui quella norma è intollerabile al punto che si può solo accennare per lasciare spazio a quello che rimane dopo il massacro ricorrente; altro che riproporlo in serie come i siparietti di Intervento Divino. Però anche Bakri suddivide in diversi scenari, uno per personaggio. Da entrambi i film scaturisce una società unica attraverso la molteplicità di sguardi dei singoli che emergono giganteschi da quei primi piani grondanti indignazione per le enormità patite. Per lo spazio dedicato a questo testimone, che non narra nessun episodio preciso, ma commenta, si direbbe che incarni un ulteriore alter ego del regista, quello a cui si demanda la possibilità di esprimere l'inesprimibile, mentre al dottore si dà la forza dell'argomentazione e del reportage suffragato da altri testimoni; qui non c'è cronaca, ma esasperazione e reazione quasi irrazionale, ma comprensibile. Il padre è più ragionevole, dopo 15 anni di carcere, un bimbo piccolo che è sempre presente insieme a lui sullo schermo. Ribadisce un'infinità di volta: «Vogliamo vivere in pace». Di questo 44 enne vengono declinate le generalità (Nabil Fayyad Darwish Sbeyhat) e, visto quello che è accaduto ai testimoni del documentario su Mazar-i-Sharif di Jamie Doran e Najibullah Quaraishi, questo denota enorme coraggio, una sovraesposizione pericolosa, una forma civile e non-violenta di protesta non anonima e la rivendicazione a non essere soggiogati da una cultura e da una nazione estranea. |
Il vecchio rappresenta la testimonianza più straziante: non a caso conosciamo la sua vicenda all'inizio e poi lo ritroviamo alla fine in quell'andamento del film che conduce a ritrovare e recuperare tutte le storie in una ciclicità che rende tutti partecipi di un'unica immane tragedia dai contorni epici.
Epico è un termine corretto, perché l'episodio viene riportato per documentare la totale assenza di pietas, la barbarie dei cecchini israeliani, che giungono all'aberrazione di colpire un vecchio a distanza ravvicinata con l'intento solo di fare del male gratuito, e poi incalzando ancora e colpendo una seconda volta una persona anziana, inerme, ferita, vilipesa. La sequenza non ha commenti, ma solo gli occhi del vecchio, le sue lacrime di rabbia e impotenza.
Non è un caso che la stessa esperienza venga ripercorsa da una donna incinta, l'altro elemento di questa coppia di narratori: un vecchio e una donna incinta a dmostrare la vigliaccheria e l'assenza di rispetto e umanità di queste anonime figure di mostri senza volto di cui si avvale l'esercito dell'unica democrazia del medioriente.
Che fa il paio con la condizione del padre medico che non può salvare il figlio, altra situazione contro natura.