Carisma e divismo
militanza e video

Mohammed Bakri a Torino
proiezione di Jenin all'Avogadro

«Da bambino cantavo l'inno d'Israele a scuola: vi ero costretto, ma non conoscevo, non potevo conoscere, alternative».

Il regista-attore spiega come l'imposizione della cultura confessionale ebraica impedisca qualsiasi forma culturale diversa. Egli è un'icona del cinema palestinese, nato 49 anni fa in Galilea, quindi costretto a vivere suddito dello stato d'Israele, che non prevede l'esistenza di cittadini non ebrei, i quali dunque non sono cittadini - privi della cittadinanza - seppur nati nei confini della nazione; un apartheid intollerabile ancora prima dei checkpoint, delle distruzioni di ulivi, di case, di assassini preventivi e... di massacri, come quello perpetrato a Jenin.

«Proprio perché sono un artista io non posso essere pessimista. Il pessimismo distrugge l'amore e io ho amore per la vita, come tanti altri fra noi. Ciò che potete fare è passare questo messaggio alla vostra gente».
(Mohammed Bakri parlando del suo film 1948 ai pacifisti del gruppo Neve Shalom-Wahat al Salam, maggio 2002)
A distanza di pochi giorni un buon numero di spettatori, per lo più gli stessi, si ritrovano a gremire l'aula magna dell'istituto: il 5 dicembre sul palco c'era un refusnik di 17 anni, che dialogava con tre ragazzi palestinesi. Senza kalashnikov, spiegando come sarebbe finito in carcere allo scoccare della maggiore età, di come sia difficile in Israele riuscire a spiegare quella scelta, anche solo a parlare di rifiuto di andare a massacrare con i carri armati la popolazione palestinese assediata e armata di pietre e pochi kalashnikov. È di oggi (30-12-2002) la sentenza della corte di Tel Aviv a cui i giovani refusnik si sono rivolti per vedere riconosciuto il loro diritto a non prestare servizio militare nei territori: respinta - manco a dirlo - perché «la loro richiesta rischia di allentare i vincoli che legano la società israeliana». Sarà sempre troppo tardi il momento in cui si solleverà il velo che nasconde le regole oscurantiste dello stato d'Israele e il mondo potrà recepire il pericolo di uno stato confessionale e sanguinario che non ha più nulla da spartire con quello dei Kibutz del dopoguerra


Dopo quattro giorni da quell'incontro organizzato dai giovani libertari torinesi, Sami, sul palco a tradurre dall'arabo e a subire i malumori del primattore, e il Comitato Palestina portano dietro quel tavolo Mohammed Bakri, regista e militante, anche imprigionato dal regime israeliano, l'unica democrazia dell'area mediorientale, fulgido esempio di persecuzione in nome della pace e del diritto degli uni contro il sopruso e il sistematico sterminio degli altri. Ebbene anche Jenin è spudoratamente schierato da una sola parte: non c'è spazio per quell'Altro col quale si poteva convivere - come più volte ribadito nel video - e che invece ha voluto assumere le fattezze del nemico.



Il bel volto dell'attore è quasi un monolite scolpito in una materia per niente duttile, ma che si scompone e ricompone mirabilmente in innumerevoli pose statuarie enormemente espressive, intense, soggioganti. Le risposte sono sferzanti, per nulla diplomatiche, spesso accompagnate da una smorfia triste: non c'è spazio per nessuna forma di diplomazia o di compromesso, tanta è l'enormità della colpa di quegli emissari dello stato di Israele perpetrata a Jenin, che chi ha in qualche modo sofferto quella violenza inaudita può permettersi un sottile disprezzo per i distinguo che gli Altri vorrebbero interporre. Non si può essere equidistanti: non ci sono ragioni da entrambe le parti, dopo quello che hanno fatto.



Questo non significa che l'artista escluda il dialogo, solo non contempla come possibile qualunque orizzonte di riferimento che non contenga la presa d'atto di quello che nel suo film viene narrato. E dopo quelle parole non si può certo continuare a ribadire le litanie dell'occidente non interventista, dell'Europa distratta e attenta a non scontentare i mandanti di quel massacro. Bakri sembra voler sgomberare il campo da equivalenze tra terrorismi. Qui stasera sul tappeto c'è un'azione di sterminio organizzata dall'esercito israeliano; e lui con le sue immagini e quel suo volto scolpito non consente divagazioni.


Non schioda. Ma questo insinua qualche dubbio sul prodotto, peraltro dirompente per il coinvolgimento che comporta, viene cioè da chiedersi se quella ragazzina, tanto determinata sia vera, perché se l'intento è quello di documentare i danni soprattutto sulla psiche dei sopravissuti, quante di quelle bambine dovremmo trovare nei campi palestinesi e quante invece sono quelle che reagiscono ancora con la triste speranza delle protagoniste dei film di Mai Masri (che peraltro non abita lì, come invece continua a fare Bakri)? Invece lui stesso ammette che non ne ha trovate altre con quel piglio tanto battagliero e tenero, così segnate nell'odio eppure così capaci di adesione a un unico corpo sociale, il campo. Ed è interessante come ci sia un filo che unisce il cinema "palestinese", sia quello della diaspora (come Mai Masri, Elia Suleiman, Hiam Abbas, Hanna Elias, Nabila Irshaid, Azza al Hassan, Marise Gargour, Michel Khleifi, Izidore Musallam), sia quello di chi ha scelto di rimanere (Alia Arasoughly, Liana Badr, Bakri, Ismail Habbash, Rashid Masharawi, Hanna Musleh, Najwa Najjar, Sophi al Zobeidi): i ragazzini sono centrali, sono la speranza e i depositari dei valori di una cultura che si vorrebbe soffocata e invece appare vitalilssima, come denuncia la produzione cinematografica ad altissimo livello di uno stato che non esiste al punto che Intervento Divino non può essere ammesso alla notte degli oscar perché la Palestina non esiste. I giovani sheba sono determinati, non hanno paura di nulla, indicano la tomba ai loro piedi quando gli si chiede dov'è il loro padre, riconoscono le armi e questo è un bene, perché può salvarli. I bambini sono la speranza di cui tanto si sente il bisogno.



Bakri gigioneggia su quella bambina: ci invita a non preoccuparci, che abita a venti minuti da casa sua e lui stesso se ne prende cura. Elude domande insulse, prendendole a spunto per raccontare aneddoti edificanti, che esaltano la figura dell'insegnante. Infatti è evidente l'intento didattico del suo lavoro, fin dal primo suo documentario, che era un adattamento dal romanzo di Habibi. 1948 è dedicato alla memoria della Nakba, la "Catastrofe" che colpì il popolo palestinese all'indomani della proclamazione dello Stato sionista. Gli anziani intervistati raccontano come persero tutto, gli orrori della perscuzione e della deportazione, come divennero rifugiati... e ancora lo sono. Ecco: la continuità tra quel film del 1998 e quello su Jenin si evidenzia nel rifiuto attuale dei giovani di ripetere l'errore dell'esodo. Di lasciare agli israeliani il campo libero. Rispetto a quel primo documentario vien meno l'apporto lirico, che solo il distacco del lungo tempo passato può consentire: in 1948 le testimonianze sono intercalate dai versi di Mahmoud Darwish, interpretate da uno dei più noti gruppi musicali palestinesi, Sabrine, e dalla giovane figlia di Bakri, Yaffa; invece in Jenin un apparato di notazioni a margine delle testimonianze orali proviene da poche quasi illeggibili riprese di telecamera salvate incapaci di offrire altro che un pallido riflesso dell'atmosfera di terrore di quei giorni di aprile, interrompendosi al momento di documentare la carneficina e le esecuzioni a freddo, di cui narrano i testimoni.




Nella fiction si è solo cimentato da attore, ma a un livello tale da divenire quasi uno stereotipo. Di anima resa folle dalla persecuzione e dal continuo furto della terra del popolo palestinese (in Haifa di Masharawi e in La Voie Lactée di Ali Nassar), ma anche di combattente irriducibile, fin dal 1984, quando per quel ruolo lo scelse Uri Barbash, regista ebreo, nel celeberrimo Oltre le sbarre; l'anno successivo lavora con Amos Gitai a Esther; nel 1991 guida un commando dell'Olp nell'antimilitarista Cup final dell'israeliano Eran Riklis. Dopo aver rivestito i panni di un Romeo odierno in Rami et Juliet di Erik Clausen nel 1988, torna al côté fiabesco, che tanta parte ha nel romanticismo particolare della cultura palestinese, con La favola dei tre diamanti del palestinese Michel Khleifi, la storia di un bambino che riesce a sognare nonostante viva nella Gaza sotto occupazione. Del 1997 è Sotto i piedi delle donne della regista algerina Rachida Krim, dedicato alla lotta di liberazione algerina. L'ultimo film a cui ha lavorato è stato Desperado Square di Benny Torati (2001), una specie di Nuovo cinema Paradiso, trasposto all'interno di una comunità di ebrei sefarditi che vive nei pressi di Tel Aviv. Il film d'esordio fu con Costa Gavras: Anna K. (1983), dove sosteneva il ruolo di un palestinese della diaspora che ritorna per rivendicare la propria terra confiscata. È questo il tema ricorrente in tutto il suo corpus.
Si è alzata una campagna denigratoria nei confronti di Mohammed Bakri a seguito del film su Jenin, culminata nell'agosto con l'arresto suo e di alcuni familiari, accusati falsamente di aver collaborato nella preparazione e nell'esecuzione di un attentato kamikaze contro un bus (come si evince da «Ha'aretz» del 27 agosto 2002). La stampa israeliana lo ha accusato di aver approfittato della sua condizione privilegiata di cittadino arabo-israeliano, da cui discenderebbero persino le sue fortune professionali. Il 18 dicembre il documentario è stato proposto dall'ex leader del partito Meretz Shulamit Alloni ai suoi studenti all'università di Tel Aviv; all'ingresso dell'aula un guardiano controllava che gli spettatori fossero realmente studenti di quel corso. Il regista in quel frangente ha ringraziato le autorità che hanno censurato il film perché così hanno aumentato la sua visibilità.. Anche da noi durante il tour del regista il parroco padovano all'ultimo momento aveva negato l'agibilità della sala parrocchiale in seguito a pressioni della Curia, costringendo a una proiezione d'emergenza alla casa del popolo.