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10/11/2006
Cinema della crudeltà e bordelli
caos organizzato, comico, rivelato e an-estetizzato

Born into brothels di Zana Briski e montato da Ross Kauffman. Apparentemente schietto; più di così... poi al di là del caos organizzato dal montaggio per rendere il bordello visivo, gratta gratta, la sensazione che rimane è quella della "suorina" che dall'alto della sua cultura coloniale va a salvare i ragazzini e si permette pure l'amarezza di vederli rifiutare questa manna dal cielo. Intendiamoci, non dice: "ingrati", ma solo perché non sarebbe correct... chiaro che nel montaggio - a posteriori, molto dopo l'incantamento dell'idea iniziale che regge per i primi concitati minuti - si finisce con il privilegiare la ragazzina, pronta a cogliere l'opportunità (e infatti si sottolinea che lei prosegue la scuola: è fuori dal bordello), infatti a lei è demandato il compito di introdurre i compagni di avventura, stigmatizzarne i caratteri, disegnarne i profili all'inizio con pochi tratti e qualche "fotografia".
Ecco, la fotografia dovrebbe essere al centro di tutto: infatti il film è fotogrammi in fuga, non riprese. fin dall'inizio la lunghezza di una singola inquadratura è al di sotto dei 5 secondi e si bada a non montare mai una sequenza sul'asse dell'altra, ma sempre in contrapposizione per far cambiare sistematicamente direzione allo sguardo e accentuare il senso innanzitutto di urgenza e poi di disordine (prima di tutto di costumi?); sta di fatto che non appena si vedono le foto attribuite al secondo eroe, il ragazzino un po' ribelle (come da prassi e canovaccio certo non troppo caotico e imprevedibile), anche il più sprovveduto degli spettatori si rende conto di trovarsi di fronte a un vero genio, con talento fotografico da vendere... e infatti è l'altro che si salva dal retaggio del bordello. Per i rimanenti, mediocri, è scritto nell'"ordine delle cose" - ovvero l'opposto del caos, cioè del bordello - che il destino è quello. Incontrovertibile.
La morale - perché di questo si tratta - è che quell'immersione nella crudeltà non è definitiva: ci si rende conto che esiste, si finge di filmarla e si usano mezzucci linguistici per evidenziarla, ma alla fine non si lascia che trasudi come invece avviene in certi reportage dall'Iraq filmati da giapponesi, o come in Jenin Jenin, no: si annulla, si imbriglia, si annacqua quella realtà crudele di cui la macchina da ripresa (mdp, video o foto che sia) sembra avere un timore reverenziale e passa in secondo piano. Si rifiuta persino di nominarla: un passo indietro addirittura in un prime rate con Giorgio Bocca che dice finalmente (lui, il nostro nemico numero uno negli anni Settanta, ora tra i pochi baluardi della Resistenza ancora pronti a testimoniare l'astio, il rancore, la disillusione) una verità negata: "Gli italiani sono ancora in larga maggioranza fascisti". Ecco queste opere che fingono di essere pronte a documentare la crudeltà dell'esistenza e il caos, invece lo imbrigliano, fingendo di additarlo, lo compongono riconducendolo all'ordine nel momento che si industriano a creare un succedaneo linguistico per descriverlo e così facendo lo ordinano, gli danno armonia e unità, laddove invece campeggerebbe il caos, come se lo sguardo acuto per penetrare la realtà, una volta assaggiata si ritragga perplesso, senza la capacità di riconoscere (che non significa rassegnarsi) che non c'è redenzione. E allora la regista inizia prendendo coscienza del "caos", cerca di descriverselo, ma non si ferma lì, pretende di interpretarlo, poi interviene su di esso e infine giunge a una conclusione, che è anche un giudizio utile a lei per rendersi presentabile il caos: è inevitabile e dunque non evolve nella sua analisi, quindi il lavoro del cinema si completa così, esaurendosi in una realtà "fotografata" e dunque perpetuata. Peccato che dopo i primi venti minuti appaia abbastanza chiaro che la passione iniziale si è stemperata proprio nell'intento di disinnescare quel caos, normalizzarlo è il bisogno ineluttabile della regista... o in un modo ("salvando" messianicamente i bambini) o in un altro (convincersi e convincerci che il destino non si può mutare).


E questo vale per i documentaristi, anche quelli alla De Seta, che, ormai vecchi, non sfuggono alla retorica e allo sguardo culturalmente coloniale, che non si accorge nemmeno di pontificare, di sostituire nel giudizio le proprie categorie tagliate con l'accetta; a maggior ragione si ritrova anche nella fiction migliore. Infatti ci limitiamo a tre film notevoli e uno deludente per fattura e per quanto riescono a mettersi in gioco, forse i primi tre rappresentano i film che in questo scorcio di stagione hanno tentato di proporre delle considerazioni non banali o viziate dal tarlo dell'estetismo (come l'autoindulgente bagno nel bianco latte di Crialese, che purifica catarticamente - come già il tuffo finale di Golino in Respiro - dopo essersi immerso nell'antropologia e nella ricostruzione alla Alberto Angela di una traversata di migranti), tutt'e tre affrontando il tema del caos con un distacco neanche più sardonico, ma solo esacerbato e che sfocia in tre atteggiamenti diversi, che finiscono per ottenere lo stesso effetto di comporre il caos e spiegarlo, magari in modo amaro e nichilista, ma già solo per il tentativo - almeno linguisticametne riuscito - di comporlo, risulta edulcorato; cosa che nelle intenzioni in parte riesce al quarto, deludente per incapacità di arrivare ad estreme conseguenze senza limitarsi a soluzioni banali, già viste e stiracchiate. Quando gli viene conferita una ragione per renderlo almeno un po' sostenibile, anche la più sgangherata e disperata, il disordine può essere grande sotto il cielo, ma comincia a essere un po' meno caos, un po' meno perturbante, un po' meno incontrollabile e potenzialmente sovversivo.
Non a caso gli schermi del Torino film festival si stanno per accendere su una retrospettiva completa di Robert Aldrich mentre nelle sale ci sono ancora Babel di Iñarritu, Giardini in autunno di Ioseliani, The Black Dahlia di De Palma e Shi gan (Time) di Kim ki duk.


Caos fittizio:
Babel di Iñarritu

La crudeltà "naturale" così come appare nel film è quella ottusa e volontaria delle comunità: i turisti del bus, i ragazzini giapponesi feroci con le sordomute, gli sbirri della frontiera messicana, come quelli marocchini (le polizie di tutto il mondo sono emanazione degli umori peggiori delle nazioni); quella che scatena la serie di eventi descritti è una crudeltà anomala, perché involontaria: lo sparo dei due ragazzini sul bus, un bersaglio come un altro, scelto senza badare alle conseguenze possibili. E queste sono il caos, la babele che si nasconde dietro alla "piccola catastrofe" thomiana, che si produce non in seguito a quella crudeltà ormai nello stato delle cose, ma per una scatenata in modo anodino, gratuito e non macchiato da razzismo o fascismo.
Nel caso di Babel il caos è organizzato.
Si assiste a una disseminazione spaziale: i vari teatri apparentemente slegati tra loro, che poi vengono ricondotti tutti dal filo rosso, che è il fucile - non a caso. E quando si spezza il fucile con la vita di Ahmed (l'unica vittima in diegesi, ma la morte campeggia in ogni sipario: il bambino della coppia americana e la madre della ragazza giapponese), si spezza anche il racconto, il caos trova una sua spiegazione conchiusa, magari in un abbraccio collettivo che tutto comprende e non lascia spazio al perturbante. All'interno della babele spaziale c'è una dicotomia da un lato nel modo di proporre le immagini, che tiene conto della tradizione locale, per cui nella discoteca giapponese si assiste alla techno più sfrenata anche dal punto di vista visivo, dove la notte si staglia sullo skyline di Tokio (anche se non è certo l'altezza zen di Ozu, quanto piuttosto l'incantamento di Sofia Coppola), mentre nel deserto marocchino i campi sono lunghi, i tempi dilatati, la luce intensa del giorno è abbagliante e costante, avvolgenti invece le riprese del matrimonio messicano, che si incistano sui classici interni delle villette omologhe del sud degli Usa; e dall'altro lato della dicotomia c'è la banda sonora, fatta sì di lingue babeliche, ma soprattutto - e in maniera costante e a tratti assordante - di musiche che potrebbero rappresentare la vera world music, facendo da sottofondo a qualunque discorso sul glocal e sulle divisioni caotiche del mondo, piste che non direttamente si cerca di percorrere. La dicotomia è anche tra le diverse appartenenze: i turisti sul bus sono isolati dalla regione che attraversano e dai suoi abitanti, come il muro della frontiera americana divide i chicanos dai gringos e la sordità è una barriera insormontabile per la ragazza: le barriere sono funzionali al caos, ma non scompaiono nemmeno quando questo sembra essere composto, perché gli abbracci che concludono il film sono tutti tra appartenenti alla stessa "famiglia", segno che la babele si compone senza risolversi... fino al prossimo colpo di fucile.
Ma la disseminazione è anche temporale: lo sfalsamento del progresso cronologico degli eventi fa onore al proprio nome, in quanto è un falso sfalsamento, prontamente ricomposto con la ripetizione della comunicazione che fa congiungere ad anello due momenti del film ripresi nei due luoghi diversi in cui avvengono, uniti dal telefono, ma anche dal dipanarsi del film che così trova un nuovo motivo di composizione del trauma iniziale. Dunque anche da questo punto di vista è totalmente falsa la pista del perturbante temporale, subito ricomposto attraverso un escamotage linguistico interno al cinema, che proprio in quel rigore filologico della scelta del singolo registro cinematografico, adottato per "ambientare" i vari racconti, ha il suo segno più emblematico, la prima spia che in realtà il caos non ha scampo di sopravvivere alla fine del film.
E infatti la crudeltà controllata (quella tribale, comunitaria) si accanisce sui singoli individui, spaesati, smarriti, vittime dello scartamento del flusso normale di crudeltà su binari diversi dal solito che portano alla sovraesposizione del singolo al timore del destino e che trova rifugio in quegli abbracci che chiudono fuori il caos, ormai completamente spiegato e disinnescato. Abbracci che però non sono di nessun conforto, segnano solo il ritorno a un ordine, non necessariamente quello auspicato.


Caos comico:
Giardini in autunno di Ioseliani

Se in Lundi matin si cercava di trovare un riscatto dalla oppressione quotidiana del lavoro di un operaio, qui la presa in mano del proprio "destino" è quella di un ministro, ma i termini sono gli stessi, anzi ancor più libertari nella esplosione di ribaldo caos del film precedente. Qui il caos è ricercato, perseguito: una predisposizione dell'esistenza.
Se Iñarritu organizza il caos, Ioseliani invece lo amplifica e, per farlo sceglie il registro comico, proseguendo la ricerca di Tati; ma se Tati lo faceva con un languido sguardo nostalgico per quello che era l'armonia della "douce France", qui la nostalgia rimane e di nuovo sfocia in una riedizione di quel bel tempo andato, si torna adolescenti e si ritrovano gli amici di un tempo, riprendendo a fare... trasgressioni. La differenza è che Tati trasgrediva il presente con l'ordine - umano e attento all'individuo - del passato, Ioseliani trasgredisce il presente con situazioni invise a qualunque epoca perché dovrebbero essere fuori da qualunque morale... e in effetti lo sarebbero, compresa la splendida ultima cena al femminile allestita nel finale con Piccoli al centro in vesti muliebri. Ma in realtà il linguaggio cinematografico adottato serve a un riconoscimento di un linguaggio trasgressivo d'antan che rende l'operazione però meno dirompente, proprio perché parte di una tradizione ormai conosciuta.
Anche in questo caso la crudeltà è dei gruppi, ma invece di essere greve come in Babel, per Ioseliani assume la lepida leggerezza di un gioco da ragazzi, la complicità di commensali, compagne di letto e di un intero quartiere, per non parlare di una madre di eccezione, capace di confortare l'eterno adolescente ex ministro, che recupera atteggiamenti infantili, affetti adolescenziali che impongono alla pellicola un ritmo sempre più ipercinetico da comica, che ha l'effetto di dilatare il tempo infinitamente. Il processo opposto a quello di Iñarritu, che finisce con il comprimerlo entro due limiti attraverso la ripetizione di certi passaggi essenziali per legare spazi diversi, mentre qui la successione di situazioni serve a eliminare qualsiasi limite temporale
In compenso invece c'è identità di luoghi: non si esce quasi dal quartiere tipicamente francese e comunque le location sono stereotipi del cinema transalpino; dunque la babele è data dagli individui, ciascuno persegue piaceri e ripulse, rivendicazioni e reazioni che creano caos, ma proprio il microcosmo e una situazione linguistica conosciuta nelle pieghe dello spettacolo concorrono a disinnescare anche questa sfida all'ordine.


Caos rivelato:
The Black Dahlia di De Palma

C'è un'altra strada per cercare di imbrigliare il caos, è quella intrapresa dal protagonista del film ellroyano di De Palma. L'ermeneutica del caos è invece quella applicata dal regista che fa uso dell'ingenuità del pugile-cop, il quale lentamente, quasi fosse un Bildungsroman di accettazione del lordume di L.A. e del mondo in generale, per riuscire a interpretare i meccanismi del caos; in questo modo usa l'individuo per ottenere un'interpretazione della Babele, che non potrà diventare "la" Rivelazione del caos, ma finirà col farlo accettare in primis al giovane sprovveduto (che infatti si consolerà nell'abbraccio di Scarlett Johanson, inaugurando l'epilogo dell'abbraccio che accomuna questa alla pellicola di Iñarritu) e poi anche allo spettatore.
Qui il luogo non è né sempre lo stesso, né dislocato, ma interno al cinema: tutto nasce e finisce nel linguaggio, perché al di fuori di esso non esiste nessuna interpretazione anche solo parzialmente veridittiva.
L'approccio del testo è graduale e introduce al "caos" in modo lineare: ci immerge nel mondo del pugilato e di nuovo - come in Omicidio in diretta - la sequenza è lunga e contiene già tutto quel vaso di Pandora che nei film di questo editoriale tutti cercano in qualche modo di richiudere, anche se nessuno riuscirà a risigillare, a cominciare dal fatto che è truccato e che i denti non potranno più essere "veri", come peraltro nulla in tutto il film è autenticamente ciò che appare. Il secondo verminaio è il Dipartimento, poi con le donne e quel fantastico dolly che intreccia le storie, creando un unico marciume di tutto, si riconosce nella prassi ermeneutica di De Palma l'idea che il caos nasca dal dubbio che sfugga qualcosa... ed è nel tirare le fila di questo qualcosa che gradualmente si va a comporre "una" verità, che può funzionare, finché un altro indizio certifica che davvero è sfuggito qualcosa e inseguendo questo si ricompone il puzzle, ma non si può fare a meno di sentire il lezzo, perché è stato il linguaggio cinematografico stesso a insinuare il marcio nella storia ed è un mezzo linguistico a descrivere gli infiniti slittamenti progressivi di senso che trovano nuove interpretazioni plausibili in quell'universo di riferimenti che sta "svelando" il caos - vissuto fino a quel momento quale unica possibile ricostruzione - come Nietzsche con il velo di Maya, senza che nulla in altro modo lo possa certificare. Ma questo ha sì il risultato di comporre il quadro perturbante, ma al contempo sancisce il fatto che non si salva proprio nessuno... probabilmente anche in quella casetta-rifugio a voler ben vedere attraverso il linguaggio cinematografico si rivelerebbe un verminaio.
Il caos coinvolge anche qui gli individui come identità, che diventano altro da sé (maschere che rappresentano i due estremi di una coppia dicotomica: mr. Ice e mr. Fire, che finiscono con il coincidere, infatti alla fine anche il poliziotto buono spara e uccide la propria ossessione, diventando l'altro, sostituendosi a lui anche con la pupa in quell'abbraccio che non ha più nulla del trsporto erotico, ma una languidezza distante e distaccata), o si duplicano come l'attrice uccisa - su cui ricade il peso della nostalgia, elemento presente in tutti i film qui presi in esame - dando luogo a un nuovo Body Double, che sta nella tradizione di De Palma


Caos estetizzato:
Time di Kim Ki Duk

Il processo di Babel diventa sistema: l'anello temporale in Time si ricompone alla fine, permettendo di ricominciare.
È un po' la dimostrazione che se si apre a una qualsiasi forma di metafisica, si finisce con perdere ogni riferimento, pure il caos sbiadisce e lascia il posto a evanescenti quadri suggestivi privi della forza per comporre però quello spiazzamento spaziale (i luoghi sono cangianti, come se una marea continuasse a mutare il paesaggio di simulacri, che sono erotizzanti, ma in modo gelido) e temporale (tutta l'azione è racchiusa tra due sequenze uguali, riprese diversamente tranne l'ultima inquadratura che coincide sancendo l'identità temporale, che apparenta il film coreano con Babel. La differenza con i precedenti è che qui l'individuo è travolto ed è motore primo del caos che lo travolgerà, non solo cancellandolo, ma mutandolo fisicamente e intimamente. Il caos è innanzitutto mentale, poi spaziale (perché i due individui non abitano più a turno i loro spazi e questa sparizione diviene caotica per l'altro), infine temporale (per lo spettatore): tutti sono superati da un diffuso estetismo e da quello spazio metafisico che è il parco acquatico delle statue più o meno sommerse dalle maree, lunatico flusso regolatore.
In questo caso dunque sembra essere l'estetismo ad assumersi il compito di far sparire il perturbante e come in tutti gli altri casi ha un risvolto nostalgico, manca però l'abbraccio finale, perché in questo ambito l'evanescenza spaziale non si può ricomporre e i due finiscono con il non essere né l'uno né l'altro e quindi non riescon a riconoscersi per quell'abbraccio che invece in Ferro 3 era affidato alla macchina da presa incongruamente in vertiginosi giri che si appropriano dello spazio. Il film è inficiato dall'estetismo, ma probabilmente insieme al corpus del regista indica nell'attenzione allo spazio la possibilità di creare caos e anche l'antidoto per evitare che la babele venga ricomposta.







In tutti alberga un'unica certezza. La crudeltà incontrollabile che regola il gioco della narrazione, si ribalta contro chi la frequenta per uno scherzo del caos dell'esistenza e produce lutti, nuove ingiustizie e un rinnovato caos da interpretare con diversi grimaldelli linguistici... tutti spuntati, ormai.

adriano boano