Reporter

NearDark - Database di recensioni

Africa

Godard Tracker


Tutte le
Rubriche

Chi siamo


Cerca nel sito


Iscriviti alla nostra mailing-list: inserisci qui sotto il tuo indirizzo e-mail

Reporter
reportage da festival ed eventi, interviste e incontri
<<< torna al sommario

Torino Film Festival 2008

Il silenzio è un'arma

Le Silence de la Mer
Elogio alla resistenza (passiva) e alla disobbedienza

 

Tra i diversi tipi di "resistenza" esiste sicuramente quella non del tutto attiva del silenzio, il silenzio opposto alla parola che tenta di spiegare e di spiegarsi, alla prepotenza e all'arroganza di una occupazione dello spazio e delle abitudini altrui, all'invasione di un nemico conosciuto che al tempo stesso è un estraneo venuto dal nulla.

E di silenzi e silenzio è pieno Le silence de la mer, trasposizione cinematografica di un racconto di Vercors (pseudonimo di Jean Bruller, cui si rende omaggio nella prima inquadratura del film quasi a sancirne una doppia e voluta paternità) del trentenne Melville alla prese per la prima volta con un lungometraggio, ambientato nella Francia occupata dai nazisti e pubblicato clandestinamente nel 1942 dalle Editions de Minuit (casa editrice clandestina fondata dall'autore stesso del racconto), e uscito in sala nel 1947, solo dopo che il regista era riuscito a vincere le perplessità dello scrittore (la fedeltà al testo scritto è quasi totale): il giudizio di quest'ultimo sul materiale girato in soli 27 giorni fu positivo, e cosė ancora noi oggi possiamo godere di questo bianco e nero potente in cui - in un inesorabile silenzio - si decidono destini, di individui e di popoli.

La voce fuori campo del protagonista anziano della storia introduce la vicenda: capiamo che è già conclusa, in qualche modo, lasciando invariata apparentemente la realtà in cui si è svolta, solo apparentemente, perché in realtà la vita delle persone coinvolte è cambiata, quella della nazione stessa è cambiata, nei pochi mesi in cui l'ufficiale nazista si stabilisce forzatamente nell'abitazione di un anziano signore che vive di abitudini consolidate, musica e libri, con la giovane nipote. La voce accompagna il racconto fino alla fine, sostituisce il dialogato interrotta solamente dai monologhi dell'ufficiale che, al ritorno dalla sua giornata trascorsa in città, si ripetono ogni sera in un'atmosfera ovattata, davanti a un camino acceso, mentre zio e nipote ascoltano scambiandosi sguardi, continuando le proprie abitudinarie attività e ignorando del tutto quell'elemento così estraneo alla loro vita. L'arrivo dell'ufficiale è preceduto da un manipolo di soldati che portano ai due francesi l'annuncio che la loro casa deve essere messa a disposizione dell'esercito tedesco, traslocano alcuni bauli con gli effetti del graduato e lasciano il giardino in cui sono "penetrati" (non semplicemente "entrati"), come sottolinea la voce narrante, con l'auto militare di servizio. Un'occupazione a tutti gli effetti.



Quando, la sera, l'estraneo Werner von Ebrennac appare sulla porta di casa con la sua figura quasi mefistofelica, nel buio più completo, si reifica nel racconto il nemico invasore, la reazione è pacifica ma spietata: il silenzio (rotto solo nei momenti in cui il nemico non è in casa, come avrà modo di osservare voyeuristicamente lui stesso dalla finestra - non visto - zio e nipote che chiacchierano allegramente accanto al fuoco) opporrà un muro ai tentativi di comunicazione dell'invasore, ai suoi dubbi esistenziali, ai suoi racconti riguardanti il suo passato e la sua vita privata. Come ascoltiamo dalla voce narrante: "non si può dire che rompesse il silenzio: fu piuttosto come se ne fosse nato". L'ufficiale, nelle prime sequenze in divisa, poi in borghese, in un tentativo di ridurre le distanze con gli abitanti della casa, si muove tra gli oggetti pieno di riguardo (oggetti, i libri, il piano, i mobili, che si lasciano toccare, sfiorare, guardare, suonare),
ammira il calore di quella casa e la ricchezza di tracce di cultura, quella cultura che permette di capire, introiettare e rispettare il concetto di libertà dell'individuo, e prova nei - suoi monologhi - a costruire un ponte emotivo-culturale tra la letteratura tedesca e quella francese, tra la musica che permea tutta la pellicola (eminentemente tedesca, Brahms, Beethoven) e Balzac, Hugo, Rousseau... Del resto, fra i ricordi dell'infanzia seminati nel racconto da Ebrennac si intuisce quanto suo padre sperasse nelle capacità diplomatiche di Aristide Briand e nella repubblica di Weimar, ricordi non senza istanti di ilarità (per il pubblico ma non per chi racconta) quasi fuori luogo, nella descrizione di una ex fidanzata crudele; dettaglio utile però alla definizione dello stereotipo del tedesco arido e privo di sensibilità verso la natura, una visione che contrappone (al di là della politica e della guerra) la tradizione del Romanticismo tedesco alla anticultura dei tedeschi che si erano fatti irretire dalle idee hitleriane.



La reiterazione degli incontri serali con monologhi accanto al camino, ognuno concluso con un "vi auguro una buona notte" che mai ottiene risposta, è interrotta da un viaggio improvviso di Ebrennac a Parigi, dove egli incontrerà altri militari, al contrario di lui, consapevoli degli orrori nazisti, che lo mettono al corrente dei piani di Hitler per la Francia, le strategie messe in atto proprio attraverso il controllo della cultura (che diventa prima "embedded", controllata, per poi essere annientata) e che lo scherniscono per la sua ingenuità, aprendogli gli occhi sul destino di quelle stesse persone che lui sta cercando di coinvolgere nella sua esistenza, in quanto abitanti di quel paese in mano agli occupanti. La sequenza è breve, a contrasto con il resto della vicenda, è popolata di personaggi tutti assimilabili, in divisa. Immersa in una luce chiara che non delinea contorni né illumina, completamente diversa dai toni quasi espressionistici degli interni di campagna, fatti di ombre accoglienti e riflessi caldi che brillano negli sguardi.



Il ritorno alla realtà ovattata e astratta in cui Ebrennac era stato infitto pur nella sua condizione di ufficiale dell'esercito in missione è doloroso, consapevole dell'inutilità, o peggio dannosità, di quell'incontro con sensibilità simili alla sua che però appartengono, appunto, a una realtà inconciliabile con la funzione di un nazista in quella terra straniera e occupata. "Dunque si sottomette - Ecco tutto ciò che sanno fare. Si sottomettono tutti. Anche quest'uomo", si stupisce l'anziano francese. La salvezza da un finale tragico verrebbe solo dalla sua disubbidienza agli ordini superiori, dalla sua coscienza di individuo contrapposta a quella della ragion di stato e... eppure non viene, nonostante lo zio, in un unico gesto comunicativo (sebbene indiretto), faccia in modo che Ebrennac trovi su un tavolo, la mattina della partenza per il nuovo fronte, un testo di Anatole France dove si definisce giusto disubbidire a ordini criminali (unico elemento in più rispetto al racconto di Vercors). Il soldato Ebrennac lo legge e dopo un secondo di indecisione parte, riportando - sempre nel silenzio - in una rarissima inquadratura con in campo lungo del film, la situazione all'epoca del suo arrivo, una casa sotto la neve, abitata da gente tranquilla che scandisce una quotidianità di abitudini e che ha portato avanti per sei mesi una resistenza passiva a un'invasione nemica, sopravvivendole. Almeno fino a quel momento.




L'ultimo monologo serale dell'ufficiale è fatto di dettagli, primi piani che inseguono sguardi, mani in ogni foggia possibile: le mani che si contraggono in un pugno, come gesto di impotenza e rabbia dell'ufficiale che combatte contro la sua natura per ubbidire a un ordine assurdo, prigioniero dalla sua solitudine, fino a sostenere che quello stato dell'anima è "quel che accade sempre ai tedeschi quando sono molto soli: riaffiora sempre. E chi più 'solo' degli uomini di uno stesso partito, quando siano al potere?" E poi le mani della giovane che cadono inerti in grembo alla notizia dell'imminente partenza di Ebrennac, come a evocare un brandello di amore impossibile che percorre tutto il film senza accedere allo stato di consapevolezza o, ancora oltre, di dichiarazione e si esplicita solo nel finale di questa sequenza, quando una porta si chiude dietro le spalle dell'ufficiale accompagnata dall'"addio" pronunciato dalla ragazza. E infine le mani disegnate sul foulard che cinge le spalle della ragazza, come quelle di un michelangiolesco incontro tra l'uomo e un dio inesistente che non proteggerà né loro né la nazione travolta dalla guerra.



Il film, come il libro, si conclude sui due profili dell'anziano e della giovane (di cui non sappiamo il nome, come a sancire l'impenetrabilità del loro mondo) nel chiarore del mattino che normalmente è condizione rassicurante ma che qui è in contrapposizione con la protezione donata invece dal focolare degli interni di notte: il nuovo giorno non può che portare guerra e distruzione anche in quell'angolo di mondo ovattato e lontano dalle città.
Nel silenzio di superficie, come quello del mare evocato dal titolo, si intuiscono le correnti sottomarine insospettabilmente agitate che trasportano vite, ideali e sentimenti.

continua...

a cura di
chiara biano