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10' Festival del Cinema Africano
Milano - 24-30 marzo 2000
Spostare il centro del mondo

Ngugi wa Thiong’o, massimo scrittore keniota, da sempre lotta per porre al centro la questione della lingua. Se si superano i colonialismi culturali l’Africa potrà emanciparsi, Spostare il centro del mondo, come recita il suo ultimo libro tradotto da Carmen Nocentelli Truett per i tipi di Meltemi. Solo recuperando le proprie espressioni si esaltano le differenze per evitare di rimanere confinati nella sudditanza.

Obi, 1991, di Ouedraogo

Il festival del cinema africano di Milano quest’anno ha mostrato una particolare attenzione a questo aspetto a cominciare dall’opera scelta per l’inaugurazione - Beloved di Demme - , che evidenzia le contaminazioni delle "radici" africane incistate sulle codificazioni dei racconti americani. Infatti l’altro aspetto che spicca dispiegando il dilemma comune ai cineasti africani è il meticciato. Esso perde tutti i suoi contorni negativi e diventa un modo per passare dalla accettazione della propria condizione di emigrati a opportunità di esprimere una nuova forma culturale, fresca e crossover, capace di attingere da entrambe le tradizioni, presentandosi come parte di tutt’e due. Ovviamente in ambedue gli ambienti sono oggetto di emarginazioni tipicamente riservate ai non appartenenti alla comunità a pieno titolo, scotto da pagare per avere quello sguardo dall’esterno, ma consapevole, unico in grado di Spostare il centro del mondo. In fondo anche Ngugi wa Thiong’o è esule.

Può avere un significato il fatto che ultimamente il Mali si aggiudica molto spesso i concorsi, sostituendosi ai fasti del Burkina di Sankara-Ouedraogo o al Senegal del compianto Mambéty di qualche anno fa: può darsi sia da ascrivere alle molte spinte eterogenee che provengono dalle etnie in conflitto tra loro eppure costrette a rimanere unite, o forse per una serie di fattori che bloccano i paesi del Maghreb in un oscurantismo religioso da un lato, ma che non impedisce l'emergere di lucidissime opere come Les Siestes Grenadine del tunisino Mahmoud, e dall'altro macera nelle sanguinose guerre pagate dall'occidente i poverissimi paesi lusofoni, il Mali mette a frutto meglio di altri le esperienze europee dei suoi autori: La Genese che ha vinto ne è un chiaro esempio, mettendo in scena una esegesi dei capitoli 23-37 della Genesi biblica con lo scopo di mostrare le lotte tribali e gli errori delle popolazioni africane odierne. Una messa in scena che esalta le doti affabulatorie del regista vincitore del Fespaco del 1995 con Guimba, ovviamente mai distribuito in Italia, dove di Cheick Oumar Sissoko è girato maggiormente (solo in certi ambienti cinefili) Nyamanton, di cui era aiuto Adama Drabo, il regista dell'apologo Taafe Fanga, desunto da un'antica leggenda narrata sui toni dei griot e che, forse con maggiore levità, segnala la presenza di una trama mitopoietica tipicamente africana, che trascorre da Ousmane Sembène, Souleymane Cissé, passa attraverso Hyenes di Mambety per approdare alla cantastorie sudafricana di Hillbrow Kids.

Afrique mon Afrique, 1994, di Ouedraogo

Linguisticamente fanno capolino da un altro punto di vista i lavori che pongono al centro la creazione stessa del film, dalla quale traspare la consapevolezza dei mezzi e del mercato, ma anche i dubbi sull’identità delle radici in cui affonda non solo il racconto, quanto soprattutto le forme espressive preferite: dal ciadiano Haroun, di cui sono evidenti gli echi dei pionieri, che si interrogavano sui modi a disposizione del loro linguaggio per adattare alla loro realtà il cinema, un linguaggio nato e cresciuto in occidente, alle riprese della proiezione di un celebre film di Sissako (La vie sur terre, parte della serie "2000 vu par..."), rimeditando a partire dalla Nouvelle Vague, congeniale a registi che stanno rinnovando l’universo di riferimento delle loro terre attraverso un immaginario contaminato e che tenta nuovamente di apportare i propri condizionamenti all’interno di un sistema di immagini globali: Between two worlds, come recita il video di Bettina Haasen, a cavallo tra Niger e Germania.

All'interno di questa attenzione metalinguistica si colloca la necessità di convertirsi in massa all'uso del video, molto più consumato dal pubblico africano, che diserta le sale e viene colonizzato dalle antenne paraboliche; e allora si assiste alle notevoli sit-com di Ouedraogo (Kadi Jolie), freschissimi episodi africani che sfruttano la struttura, ma non il linguaggio -piegato a ben maggiore disincanto ironico -, delle classiche soap-opera che seguono le avventure divertenti e quotidiane della protagonista, rimandando l'appuntamento con il nuovo episodio in modo da disputare l'identificazione ai prodotti americani. Sono serie che traggono la loro efficacia tecnica dall'esperienza acquisita nei corti diffusi a pioggia in tutta l'Africa per combatere lapiaga dell'HIV, talmente terribile da fare capolino in moltissime pellicole (da Afrique mon Afrique a Bye Bye Africa). Il risultato è la presenza in qualunque manifestazione di moltissime opere video di pregevole fattura e di inserti rimeditativi anche nei film a supporto chimico sul ruolo e l'immediatezza dell'immagine video. Vero mezzo di documentazione, apparentemente con minori filtri con la realtà: ad esempio il sorprendente Colobane Express di Khady Sylla. La regista segue il percorso dall'alba al tramonto di un pullmino ("cars rapides") adibito al trasporto di persone animali e cose nelle vie polverose di Dakar. I canonici 52 minuti del video trascorrono senza noia documentando con la camera a mano le miriadi di controversie, bisticci, accoltellamenti da affrontare in una giornata priva di soste e zeppa di parole e urla, gesti plateali e furtivi, passaggi di mano di banconote e genti come polli stipate allo stesso modo.

Un problema che risalta ora che gli organi di informazione battono la notizia della morte di Bourghiba è il costante riferimento a leaders indipendentisti del passato, tutti ormai scomparsi: Sankara, Fanon. Non sembrano emergere nuovi Cesaire e la perdita precoce di Mambety non è sostituita da altri fari nella notte. In quest’ottica risulta molto interessante la rievocazione di Mulele, ministro di Lumumba attraverso i ricordi della moglie, altrettanto impegnata nella lotta di liberazione dei primi Anni 60 e ora rassegnata, ma disposta a far rivivere quel periodo. Esistono i casi di Askofaré e Gerima, che producono lavori nei quali non si peritano di tentare di ottenere una volta per tutte il riconoscimento della verità sulla barbarie della colonizzazione italiana (Adwa) alla faccia di qualunqeu decano del giornalismo nostrano che nega ancora il gas usato dai suoi commilitoni. Ma altrettanto interessante è il ruolo di Abo, une femme du Congo al centro del film di Mamadou Djim Kola almeno quanto il marito ucciso, in un momento di rifiuto di riconoscimento del grande apporto di quella generazione femminile alla indipendenza, assimilandola alla triste condizione di ignoranza e incapacità di rapportarsi all’universo femminile dimostrate dai protagonisti del video algerino Algerie, la vie quand même di Sahraoui Djamila, che infilano una serie di luoghi comuni fotografando attraverso le loro interviste una situazione di squallore che non è vendicata dall’epilogo consolatorio di rivalsa delle donne. Una soluzione negata dal film di Mehdi Ben Attia e Zina Modiano, En Face, che più realisticamente mostra un matrimonio combinato, dove la ragazza è anche tonta, ma questo aspetto non è che un ulteriore handicap aggiunto alla sua condizione d’inferiorità in quanto donna. Una ragazza che però vive suoi innamoramenti e incantamenti: una volta disillusa, riconosciuto il promesso sposo come non coincidente con i suoi desideri, non esita a uccidersi. Un breve apologo non privo di aspetti inquietanti: la reclusione e l’insensibilità della gente – tutta – verso quella giovane donna e il suo disagio espresso da brevi gesti negati, sguardi univoci da una finestra su un mondo del quale lei non sarà mai protagonista: "non è pazza, ma assolutamente normale, solo un po’ confusa".

Nella kermesse milanese, che è sempre uno specchio dell’anno cinematografico del sud del mondo, non mancano momenti di ribellione all’Altro, il colonialista, e alla sua cultura estranea, benché molto ben conosciuta dalle popolazioni che l’hanno subita, costrette a disfarsi della propria: Auguy di Munga Tunda Djo, congolese, è un bel cortometraggio di 17 minuti in cui si concentrano tropi come la ragazza puttana – che in questo caso mantiene agli studi il fratello – o come l’inflessibile direttore (già ben fotografato in West Beyruth) che impone la propria civiltà. Agustin, adolescente con un forte senso della dignità e del rispetto, metafora di quello che il regista auspicherebbe per la propria Africa, si ribella alla accettazione della sorella e alle ingiurie del belga. Dapprima è tentato dal suicidio pure lui, come la giovane emarginata algerina, poi però ha un gesto di ribellione che non si orienta verso un confronto con gli esponenti di quello stato di cose indegne, bensì con il simbolo dell’occidente: distrugge il crocefisso in nome del quale le peggiori efferatezze furono compiute dalla nostra "civiltà", sottolineando le parti del Padre nostro in cui maggiormente si indica come opportuna l’accettazione rassegnata di tutto ciò che ci viene dal cielo. Non è una scelta casuale, perché lungo tutto il film s'insinuano alcuni brevi momenti surreali in cui si anticipa l'ossessione del giovane per il crocefisso. Peccato che si attagli molto ai condizionamenti provenienti dalle classiche rivolte europee, meglio riconosciute dal vecchio Chahine, che fin dal titolo dimostra di avere chiaro il nocciolo che il cinema africano deve risolvere: L'Autre.


Vi ricordiamo anche che il nostro sito ospita un sezione speciale che permette la ricerca sul database di recensioni relative ai film provenienti dall'Africa.

Recensioni

Abo, une Femme du Congo

Mamadou Djim Kola

Beloved

Jonathan Demme

Boubou, l'intrus

Issa Traoré de Brahima

Bye Bye Africa

Mahamat-Saleh Haroun

La Projection

Marie Jaoul de Poncheville

Premier Noel

Kamel Chérif

Royal de Luxe, retour d'afrique

Dominique Deleuze

Classified X

Mark Daniels

 

 

 

 

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