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Les Siestes Grenadine
Anno: 1999
Regista: Mahmoud Ben Mahmoud;
Autore Recensione: adriano boano
Provenienza: Tunisia;
Data inserimento nel database: 24-11-1999


Les Siestes Grenadine

LES SIESTES GRANADINE


Regia e sceneggiatura: Mahmoud Ben Mahmoud
Dialoghi: Maryse Léon Garcia, Mahmoud Ben Mahmoud, Monchef Dhouib
Fotografia: Gilberto Azevedo
Montaggio: Karine Pourtaud, Arbi Ben Ali, Kathena Attia Riveill
Scenografia: Taieb Jellouli
Suono: Faouzi Thabet
Interpreti: Yasmine Bahri, Hicham Rostow, Loubna Azabaal
Produttore: Hassen Daldoul, Véronique Marit.
Produzione e vendita all'estero:Touza Productions, 81 rue Réamur, 75002 Paris, France, tel 33-1-44790431
Provenienza: Tunisia
Anno: 1999
Durata: 1 hr. 30 min.



C'è sempre qualcuno che è nato più a nord e si crede superiore, ma per fortuna c'è un meridione anche per il più profondo sud: addirittura nel maghreb si possono trovare atteggiamenti razzisti nei confronti delle popolazioni sub-sahariane. Questo aspetto è quello rivolto anche e soprattutto agli occidentali, che si specchino nella intolleranza; e soprattutto che meditino sulla splendida sezione nella quale si può godere della affascinante e profondissima cultura dell'Africa del Sahel, di cui assaporeremo un saggio nella rappresentazione della Boussaadia, uno dei tanti miti a cui si fa cenno e che viene proposto con gusto e attraverso figure quasi archetipiche (una sorta di maestro griot sarà il riferimento per la messa in scena, benché oltre al musicista faccia capolino anche un antropologo francese, di cui si poteva fare a meno: se si riuscisse ad evitare completamente di porre sotto tutela gli africani ..). Questo mito si va ad affiancare a quelli locali sulle melagrane ("per ogni chicco che cade è una lacrima"), alla coltivazione del kif, ai mille riferimenti alla propria cultura fatti dagli animi più autentici della Tunisia, che dischiudono un sistema di credenze e di espressioni unico, contrapposto ai camuffamenti della televisione. E la sceneggiatura rispecchia il patrimonio di narrazioni che non deve andare disperso: dal minigineceo che si crea tra le due ragazze (bellissima la sequenza delle ombre che ci fanno immaginare lo scambio dei vestiti e dell'intimità nuda tra le due giovani arabe) tipicamente arabo, al quasi trance indotto dal ritmo della musica del sahel.
Ma questo non è l'unico tema affrontato dal film rivolto anche e soprattutto ad un pubblico autoctono, che trova il suo momento clou nella trasmissione televisiva, dove lo spirito libero delle innumerevoli culture che incrociano il meglio di sé in Soufiya si scatena nella denuncia in diretta televisiva di tutte le storture del regime tunisino (non a caso voluto dal loro illustre paziente italiano di Hammamed): un momento esilarante, graffiante, che nell'intento dell'autore deve dare la spinta alla sonnacchiosa civiltà nordafricana per ribellarsi alla soffocante ipocrisia della mafia e delle sue connivenze politiche e televisive: in questo senso tutti i personaggi assumono caratteri metaforici, che rappresentano degnamente la società malata, eppure ancora vitale; solo narcotizzata.

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La complessità è data dai rapporti che intreccia la ragazza con tutti: diversi con ciascuno e, incredibilmente per una figura mezzo-europea, ella rappresenta la negritudine, la forma più positiva di questa, perché mediata dalla musica e dalle storie orali incise nel ricordo attraverso il corpo agitato dalla danza: tradizione millenaria quanto la tradizione araba, ma senza quei precetti ossessivi che fanno della casa degli avi una tomba insopportabile, mentre la mitopoiesi della principessa rapita mantiene intatto il proprio messaggio dirompente nel ballo interpretato benissimo dalla convincente attrice Yasmine Bahri, capace di recitare in francese, arabo e senegalese: un aspetto quello multilinguistico che caratterizza tecnicamente il film in modo così intrecciato da rendere impossibile l'idea provinciale, tipica della nostra ignobile distribuzione (che comunque non avrebbe preso in considerazione la programmazione di questo rigoroso lavoro di ricerca di Mahmoud), di doppiare i dialoghi che possono iniziare in arabo, proseguire in francese ("Per rendere possibile la comprensione con i fratelli neri", lingua franca, più che francese, liberata del suo aspetto coloniale) e venire attraversati dai dialetti subsahariani; una sequenza può aprirsi su un gazebo che ospita musiche nere e venire interrotta dall'intrusione di musica araba per annunciare la cena, sequenza fondamentale per inquadrare gli incroci di intolleranza (la ’matrigna‘)¸ e le professioni di cosmopolitismo attraverso il corpo e lo sguardo - l'uno sinuoso dedito alla danza e alla propria espressione, senza le costrizioni islamiche (basterebbe questo per relegare il dibattito sulle foto in chador nei documenti nella soffitta del più vieto integralismo confessionale) che si scontra con l'altro corpo incattivito e statico, granitico e gretto. Sarebbe sufficiente quella atmosfera di festa rovinata dalla parola ’puzza‘ in arabo, sibilata malignamente dalla conduttrice televisiva all'indirizzo dei neri per condensare l'atmosfera di un film che invece preferisce preparare alcune sequenze, portarle al climax, per poi scioglierle in mille rivoli, una struttura che evidenzia l'approccio del regista, il quale fa interagire i personaggi con questa carica di dirompente esotismo di Soufiya ed una volta venuti a contatto con la sua forza (esplicitata dall'antropologo regista dello spettacolo di ballo) cambiano il loro modo di pensare e agire: è una vera bomba rivoluzionaria capitata a Tunisi, senza armi e soltanto con la propria spigliata vitalità.


L'inizio funziona da cornice ad anello, perché già in aereo nella primissima sequenza troviamo la giovane impegnata nella sua passione: il ballo senegalese, che le dischiude le porte della comunicazione e della benevolenza delle genti africane. Assistiamo alla gioia di questa bianca che balla, negra tra gli africani, sotto lo sguardo del padre che ha dedicato alla sua educazione la vita da esule. Abbandonata la moglie, mostrata solo in fotografia, lasciata per la fissazione di imporre un'unica educazione improntata all'ortodossia araba ideale e quindi ottenendo una figlia nient'affatto ipocrita, schietta e paradossalmente libera dalle pastoie moraliste giustapposte dall'esegesi del potere, che interpreta il corano a proprio uso e consumo, opprimendo le genti, che tuttavia sanno cogliere i refoli di libertà quando questi riescono a intaccare la superficie falsa e costruita da funzionari televisivi, indicando il re nudo in diretta tv. Ha un bel dire il padre che lì sarà diverso, venendo subito rimbeccato da un sorpreso: "Non è Africa qui?", che sottolinea i rapporti non proprio solidali del panafricanismo sognato nei '60s: non potrà essere diverso, dal momento che egli per primo dovrà affrontare eventi che gli faranno cambiare idea sulla bontà delle amicizie e delle connivenze. L'evoluzione positiva della storia si deve anche al fatto che egli è aperto al mondo (motivo per il suo essere esule e atteggiamento che gli ha permesso di sopravvivere all'estero), non gretto come la donna incontrata a Il Cairo, non dimostra mai insofferenze razziste, se non pretendere di imporre alla figlia il proprio marchio culturale: il suo legame con la terra d'origine è idealizzato e dimostra come pure nel caso che si prenda spunto da un forte richiamo a precetti, se questi fossero perseguiti con onestà possono conseguire il successo di un'educazione equilibrata e aperta; infatti la figlia è un abbagliante esempio di superamento di qualunque barriera linguistica, ma perché l'insegnamento del padre (bella figura di arabo saggio, nonostante tutto) si fonda su una norma: "Responsabilità è non belare con il gregge".
La ragazza, già frutto di un meticciato, è vissuta in molti paesi e pare che abbia assorbito solo il meglio di tutte le culture che ha attraversato; e sa riconoscere una razzista: al primo incontro non le piace la nuova donna del padre, un rapporto destinato ad una repentina involuzione, risolto nella trasmissione in diretta televisiva ("Il profumo del Paese") in cui vengono smontate con sottile ironia tutte le ipocrisie del potere, preparate dalla macchietta del tecnico televisivo che trucca la realtà, cambia i nomi arabizzandoli, nasconde le braccia delle ragazze e poi sistematicamente viene sbugiardato con successo.

Per vedere realmente questo film ci vuole una sensibilità particolare, ma non indotta dal luogo di nascita, quanto risultato di totale assenza di pregiudizi, ed il pubblico italiano non è educato: se potesse realmente assistere all'evoluzione (un po’ repentina invero) del militare, manipolato e in fuga verso l'Italia dopo che la ragazza gli apre gli occhi dopo un diverbio, ma soprattutto dopo avergli mostrato il suo corpo nel movimento disinibito del Salimbi (e dopo avergli offerto il suo sesso), potrebbero (potremmo) uscire dalla nostra tolleranza zero, riconosceremmo il lager di Corso Brunelleschi, potremmo capire la bellezza della storia di una ragazza che trova la forza di fuggire dal gregge a cui l'ha relegata il padre grazie all'amicizia di Soufiya, saremmo in grado di capire le parole del sudanese officiante il Salimbi.


visto al Torino Film Festival No rights reserved © 1999