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Locarno Film Festival 2003
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La speranza in un dono
Intervista a Mtichelangelo Frammartino, autore de Il Dono, presentato nella sezione "Cineasti del Presente" al Festival di Locarno

Il Dono che Michelangelo Frammartino ha potuto regalare ai suoi spettatori è un'opera di ottanta minuti, che richiede impegno. Quell'attenzione che qualsiasi artista dovrebbe pretendere dai fruitori della sua creatività. Il calabro filmmaker (come ama definirsi lui) ha indagato il naufragio di un paese del sud. Il suo paese: Caulonia. Attraverso interpreti non professionisti, legami affettivi personali e lunghe sequenze di addentramento, Frammartino ha esposto al pubblico internazionale, ed oggi a quello milanese, l'avvicinamento tra generazioni differenti che si uniscono e si rifocillano per frenare un naufragio, quello di un paesino, pittorescamente attraente, ma fattivamente morto. L'autore ne conosce vizi e virtù, perché è il paese del nonno, splendido protagonista di questo lungo di esordio.

Caulonia diviene, durante una proiezione in cui si perde la cognizione del tempo, contemporaneamente uno stereotipo ed una metafora: di quello che eravamo e di quel che siamo: un cellulare che fende il silenzio statico dell'inerpicato borgo racchiude in sé il senso del nostro attuale percorso. Vicinanza e dipendenza. Un trait-d'union tra giovani ed anziani, che non hanno neppure il coraggio di "avvicinare" quello strumento di controllo a loro sconosciuto. Ma soprattutto inutile. Frammartino associa a Caulonia una visione di speranza. Ripeto, quella di vicinanza e di dono. Il dono è qualcosa di fragile, è impercettibile come il suo confine con lo scambio.

Perché il rispetto è il miglior dono che ci possiamo fare.

D. Quale percorso, formativo ed artistico, ti ha portato fino a "Il dono"?

R. Ho una formazione da architetto "contestualista". Con le immagini ho lavorato a lungo nel territorio della videoarte, trovo che si collochi tra il cinema e l'architettura, in particolare ho realizzato numerose installazioni interattive. Nelle installazioni le immagini sono importanti quanto lo spazio che le accoglie, nelle mie il pubblico aveva sempre un ruolo autoriale. Mi sembra che questo aspetto permanga anche nei miei film.

D. Quanto della tua "opera" è presente nel tuo esordio al lungo?

R. Non mi sono preoccupato di girare un lungo, ho scoperto sul catalogo di Locarno che il dono era considerata la mia opera prima in quanto avendo una durata superiore ai 75' rientrava nella categoria lunghi. Comunque c'è dentro tutto il lavoro fatto fino ad oggi. Quando ho iniziato a girare film ero molto interessato ai movimenti di macchina, guardavo e riguardavo le invenzioni di Renoir. Però progressivamente ho cominciato a rinunciare ad alcune possibilità del linguaggio cinematografico, lavoro dopo lavoro ho continuato ad eliminare, ora mi rendo conto di non aver più voglia né necessità di muovere la macchina, né di lavorare molto sui raccordi. Il dono è l'attuale punto di arrivo di questo lavoro di sottrazione.

D. Tra i diversi livelli di lettura che ho codificato, ho intuito una certa filosofia di "parte totalizzante". Sono riecheggiate parole di Hemingway, immagini alla Agosti, regole socio-economiche alla Sen. Quale riferimenti avevi?

R. Non ho riferimenti letterari né alti né bassi. Trovo che scrivere un film sia un errore. Mi piace che Godard dica che i film attualmente sono dei mostri proprio perchè vengono prima scritti. Di Agosti mi piace il modo artigianale di fare cinema, il risultato mi interessa meno.

Ti posso dire che il cinema che mi influenza è quello di T.M. Liang, Bartas, Paradzanov, Rossellini, Bresson. E' ovvio che ogni accostamento risulta presuntuoso, però è questo il cinema che mi aiuta a fare delle scelte quando giro. Poi leggo senza mai capire bene ciò che scrivono: Merleau-Ponty, Derrida,il nostro Rovatti ecc. quei filosofi che si occupano del visibile e dell'invisibile. Insisto, mi serve per superare il complesso del foglio bianco, traviso sempre i loro insegnamenti.

D. Perché iniziare con un'opera autobiografica? Come è nato "il dono"?

R. Non sento il dono come un inizio. Il dono nasce da un progetto fallito e dalla voglia di reagire spostandosi da Milano. Mi sono accorto che il cinema che stavo facendo aveva molto a che fare con Caulonia, il paese dei miei. Nei miei film ultimamente cercavo di costruire luoghi aporetici, spaesanti. Cercavo di fare in modo che ogni inquadratura sbordasse nel fuori campo, che i limiti non fossero chiari. Caulonia quando ero piccolo era tutto questo, Mentre a Milano era netto lo spazio casa rispetto al fuori "ostile", a Caulonia le porte non erano mai chiuse, il pastore ti portava il latte in casa con tutta la capra, c'era un osmosi continua che annullava il confine dentro/fuori.

D. Che ruolo ed importanza dai allo sguardo altro? Riecheggiano Gus Van Sant e Ouedraogo.

R. Umberto Galimberti riferendosi alla videoarte sosteneva che questa disciplina ci avesse permesso di passare dall'occhio autocentrato rinascimentale a nessun occhio, o meglio nessun punto di vista. Credo si riferisse alla moltiplicazione dei monitor nelle videoinstallazioni, moltiplicazione dei punti di osservazione che finisce per non concedertene più alcuno stabile. Piuttosto che su uno sguardo altro credo di lavorare sulla cancellazione dello sguardo, ovvero su un'immagine superficiale, un'immagine senza occhio che la produca, Poi però mi contraddico sostenendo che per me è fondamentale la profondità di campo.

D. Benché Il Dono lasci una scia di arresa verso la natura, l'ho vissuto come un grido di speranza. Quanto l'ambiente personale ed il momento storico (noglobal vs corrente interventista, rigidità internazionali, persuasioni mediatiche) sono presenti nel film?

R. Sono felicissimo che tu colga una Speranza nel film. Per il restotutto ciò a cui ti riferisci credo ci sia moltissimo nel film, ma non a livello narrativo. Credo ci sia nelle scelte estetiche.

D. Sei riuscito ad affidare al cellulare la sua valenza di reale strumento di controllo. Non hai mai pensato che poter cadere nello scontato utilizzando l'icona del consumismo?

R. Non mi sono ancora abituato al cellulare, mi stupisco ancora quando mi squilla in tasca, volevo raccontare questa cosa che credo abbia a che fare ancora una volta con l'invisibile.

D. Perché la scelta di girare in 16mm e non, magari, con l'innovazione democratica del digitale?

R. Questa è una domanda importante , fondamentale. Non credo a quella che viene chiamata democrazia del digitale, ovvero tutti ora possono girare a basso costo. In realtà è il metodo di lavoro che abbassa i costi non il supporto. Quando Piscicelli grida al miracolo perchè ha girato Quartetto con 1.600.000.000 di vecchie lire non pensa al fatto che se avesse usato la pellicola al posto del digitale avrebbe speso nel peggiore dei casi 1.700.000.000, dov'è il grande risparmio? La pellicola 16 non è impossibile averla gratis, e una macchina da presa la si trova in prestito facilmente: proponi a una casa di produzione di partecipare come coproduttore del tuo film semplicemente prestandoti la macchina. Si crede che il digitale costi poco perchè permette di girare senza luci , quindi con una troupe piccola. Ma pellicole come la 500asa KODAK serie vision ti permettono di fare lo stesso.

La scelta del suporto dovrebbe essere una scelta estetica, per esempio il video possiede delle specifiche che la pellicola non ha , il video ha la diretta, ecco perchè l'unico lavoro che davvero mi interessa dei DOGMATICI danesi è il D-DAG ovvero un esperimeneto di cinema in diretta sulle cinque reti nazionali danesi, con il pubblico libero di cambiare canale per passare da un frammento di stori ad un'altro.

D. Quanto tempo hai lavorato complessivamente al progetto, dal soggetto al "confezionamento"?

R. Ero convinto di realizzare il tutto in sei mesi, ne sono passati quattordici e non ho ancora finito.

D. Come hai selezionato i "partner" che ti hanno consentito di stamparlo e di diffonderlo? E come è avvenuto il passaggio dal montaggio a Locarno?

R. Ad Alba ho incontrato il Direttore di Italia ainema che si è detto interessato ad aiutarci. Da Alba in poi del film si è cominciato a parlare. Lab 80 ha preso i diritti cinematografici dandoci una piccolaquota per la stampa. Poi è intervenuta Rai cinema con un'altra piccola quota. Non ho selezionato, il tempo stringeva e ho accettato chiunque si proponesse. Per Locarno ho inviato un vhs a Teresa Cavina il vicedirettore del festival. Mi avevano detto che poteva essere sensibile a questo tipo di prodotto.

D. Quante persone hanno lavorato al film?

R. La troupe era composta da 6 pesone, tutte esordinenti nel proprio ruolo. Nei titoli di testa figurano molte altre persone, si tratta di gente del posto che ci ha aiutato con grande generosità, noi li abbiamo inseriti nella troupe con dei ruoli precisi, anche se in realtà ci hanno supportati in lavori di fatica: scavare, trasportare...

D. Quanto è costato Il dono oltre I 5000 euro dichiarati fino al montaggio?

R. Alla fine è costato 25.000 euro circa

D. Che rapporto hai con tuo nonno?

R. Mio nonno non è mai stato un nonno raccontatore di fiabe e dedito ai nipotini. Lo hai visto ha 93 anni e sta dritto come un fuso. Immaginatelo a 60, correva per il paese come un grillo. Da piccolo non sono mai ruscito ad andare in campagna con lui: sembrava contento di portarmi con se, poi però mi seminava lungo il percorso. Quando sono cresciuto ero io a pensare ad altro. Questo film è stata l'occasione per conoscerci.